Le mani sulla città. Smart City fra Silicon Valley e Unione Europea

Origine ed evoluzione della Smart City, fra politica, legislazione ed affari privati.

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Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

 

Come abbiamo visto nel precedente articolo, l’era post-pandemica ha impresso un’accelerazione chiara e diretta alla realizzazione delle Smart Cities italiane, con ricadute pesantissime su ogni aspetto della vita dei cittadini.

Ma cosa sono le “Smart Cities”?

Sebbene non esista una enunciazione univoca di cosa sia una “città intelligente”, può essere definita come una nuova policy urbana volta a integrare nel tessuto cittadino le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC), promuovendo una sovrapposizione tra spazi fisici e virtuali. Si tratta di un modello che si è imposto su scala globale negli ultimi quindici anni, legando indissolubilmente il futuro della città ai concetti di sostenibilità ambientale, innovazione tecnologica, ottimizzazione dei servizi, inclusione sociale e sviluppo economico.

L’idea di “città intelligente” nasce negli anni ’60 quando il Community Analysis Bureau degli Stati Uniti  inizia ad utilizzare database, fotografie aeree e analisi dei cluster per raccogliere dati e stilare rapporti al fine di gestire le emergenze, dirigere i servizi e ridurre la povertà. È in questo momento che si comincia ad ipotizzare un’infrastruttura tecnologica non solo per rispondere alle esigenze e alle criticità della città, ma anche per prevenirle prevedendole tramite analisi predittive.

È a partire dagli anni Novanta, però, che le TIC hanno iniziato ad essere pensate come i fondamenti per la creazione dei nuovi modelli di sviluppo urbano, grazie anche alla crescente diffusione delle nuove tecnologie presso fasce sempre più ampie di persone.

Il salto di paradigma nella concezione della città si compie nel 1991 quando la Banca Mondiale inizia a definire le città come “motore centrale per lo sviluppo in grado di generare innovazione tecnologica, far crescere il Pil e attrarre capitali”. Come riportato da Oxford Reference si punta a

una città governata in modi che incoraggino le soluzioni del settore privato alle sfide urbane piuttosto che la dipendenza dal sostegno del Governo centrale attraverso la spesa pubblica”.

Le strategie di ispirazione neoliberista si intensificano negli anni successivi, come rileva nel 2007, ad esempio, uno studio dell’Università di Vienna e delle Università di Lubjana e Delft che evidenzia la tendenza crescente delle città – private di finanziamenti statali – ad attuare politiche capaci di attrarre capitali internazionali.

In tale prospettiva, la capacità di innovazione insita nella nozione di Smart City, con particolare riferimento all’integrazione delle TIC , ha come finalità una migliore performance economica della città stessa, da realizzare ai fini del miglioramento degli indicatori della città, intesi come miglioramento della qualità delle vita delle comunità che vi vivono.

Intanto, le multinazionali del settore informatico – IBM, Cisco e Siemens per prime – fiutano l’affare e iniziano a studiare il ruolo che le infrastrutture tecnologiche possono occupare nello spazio urbano. In contemporanea, numerose lobbies internazionali iniziano a promuovere il nuovo modello di città. Prima fra tutte la Fondazione Clinton che, nel 2005, invita Cisco ad utilizzare il proprio know-how tecnico per rendere le città del futuro più sostenibili, mentre, nel 2006, finanzia C40, il network molto influente di sindaci, fondato l’anno prima allo scopo di ridurre le emissioni di CO2 e di scongiurare il riscaldamento climatico.

È in questo momento che il movimento globale di promozione della città digitalizzata si salda alla retorica ecologista. D’altronde, l’ONU ha spesso ribadito che il 50% degli esseri umani è concentrato nelle città che occupano solo il 3% della superficie del pianeta, consumando ben il 75% della sua energia e producendo l’80% di emissioni di anidride carbonica. Le città intelligenti sono, dunque, “un dovere e una necessità, non una delle tante opzioni possibili”.

A conferma, IBM lancia nel 2008 una campagna pubblicitaria, “Smarter planet”, in cui promuove la Smart City come il migliore dei mondi possibili, l’utopia di un futuro giusto e sostenibile, verde ed inclusivo, che i leader più lungimiranti del mondo degli affari, dell’amministrazione pubblica e della società civile hanno il dovere di realizzare. Il sogno è a portata di mano grazie alla tecnologia, capace di traghettare le città verso la crescita economica, l’efficienza amministrativa, l’ecologia e il progresso sociale. Uno storytelling che IBM persegue anche nel 2023 con la sua ultima pubblicità “Smart Ideas for Smarter Cities“, il cui slogan è “se le città fossero più intelligenti, la vita nelle città sarebbe più intelligente“, che scorre sopra le immagini di una città non progettata per le esigenze dei cittadini.

Le istituzioni europee

A partire dal 2010 entrano in scena alcuni grandi soggetti istituzionali come l’Unione Europea. Iniziano, infatti, a proliferare bandi, concorsi e piani di sviluppo delle città intelligenti che, dapprima, rientrano nelle “Agende digitali”, poi nella “Transizione ecologica”, fino alla completa corrispondenza tra le due.

Sebbene le politiche cittadine non siano di competenza diretta dell’Unione Europea, è nell’ambito di quest’ultima che è andata consolidandosi la cornice di lavoro per la costruzione di strategie di sviluppo condivise da tutti gli Stati membri, inaugurando l’ingerenza di un organo sovranazionale anche a livello locale.

La Carta di Lipsia sulle città europee sostenibili del 2007 segna l’inizio dell’applicazione del Modello Smart alle città europee: i Ministri dei Paesi membri siglano un documento che stabilisce una relazione consequenziale tra l’integrazione delle TIC e gli spazi pubblici, il miglioramento delle infrastrutture, l’efficientamento energetico e il potenziamento del mercato del lavoro. Altro aspetto cruciale della Carta è la nozione di rigenerazione urbana – ripresa in seguito dalla Dichiarazione di Toledo  del 2011 – definita  come l’occasione per un potenziale sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo delle città europee.

Contestualmente, l’Agenda digitale europea del 2010 stabilisce un rapporto di causalità tra il diffondersi delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione e l’aumento della produttività, indirizzo confermato anche dall’Agenda urbana dell’Unione Europea e del Patto di Amsterdam del 2016 che delinea la smartizzazione dello spazio come modalità di contrasto ai problemi di approvvigionamento energetico, al cattivo uso del suolo o alle diseguaglianze sociali.

Nelle varie Carte prodotte dall’Unione europea il Modello Smart City viene riempito dei contenuti più disparati da applicare ad aree urbane, immaginate come omogenee e come neutri ricettori di provvedimenti che prevedono il raggiungimento di determinati obiettivi di sviluppo. La nebulosità dell’etichetta Smart è funzionale al mascheramento ideologico che può, via via, essere adattato alle necessità dei singoli contesti. L’indeterminatezza garantisce, infatti, una certa elasticità che consente la penetrazione nello spazio urbano dei principi della dottrina neoliberista, della privatizzazione dello spazio pubblico, dell’imprenditorializzazione della pianificazione urbana e della istituzionalizzazione della tecnoscienza.

In Italia

In Italia la svolta arriva nel 2012 quando, sotto il Governo tecnico presieduto da Mario Monti, viene istituita l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) soggetta a poteri di indirizzo e vigilanza da parte del presidente del Consiglio al fine di perseguire il massimo livello di innovazione tecnologica nella Pubblica Amministrazione. Nel DL si elencano le voci: “Misure per l’innovazione dei sistemi di trasporto“, “Fascicolo sanitario elettronico, sistemi di sorveglianza nel settore sanitario e governo della sanità digitale“, “Pagamenti elettronici“, “Comunità intelligenti“. (1)

Il viaggio americano di Mario Monti nell’Idaho, dove ogni anno si tiene la riservatissima “Sun Valley Conference“, il meeting dei big dei media e della new economy, organizzato dalla banca d’affari Allen & Company, dimostra l’impegno del Governo italiano di fronte a Bill Gates, Jeff Bezos, Tim Cook, Warren Buffet, Mark Zuckerberg e Michael Bloomberg, nelle sfide legate alla digitalizzazione, perchè il futuro (nelle aziende, nelle scuole, nella gestione delle città) poggia sulla capacità di essere all’avanguardia nell’ultima frontiera tecnologica come sistema Paese.

“Fidatevi!”, titolavano alcuni giornali italiani nel riportare la notizia del meeting, senza precisare se la risposta fosse specificatamente rivolta a Bill Gates che, per primo, domandò all’ex Premier rassicurazioni sulla capacità dell’Italia di essere virtuosa dando seguito alle riforme. (2)

D’altronde Monti aveva stabilito fin da gennaio che uno dei punti chiave del suo programma era proprio l’economia digitale, al centro della ristrutturazione dell’industriale globale.

Come dichiarò l’allora Ministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti Corrado Passera “L’ ammodernamento non può prescindere dalla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, come ci chiede l’Europa e come il Governo sta cercando di fare fin dal suo insediamento cercando di mettere a punto un nuovo patto di cittadinanza che faccia leva sulle nuove tecnologie per realizzare comunità intelligenti, in cui i nuovi strumenti digitali facciano da ponte tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni”.

Mentre l’ex Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo disse: “Le Smart Cities saranno l’infrastruttura immateriale, un nuovo genere di bene comune su cui andranno a confluire tutte le azioni in grado di realizzare una social innovation”.

Sono affermazioni che non lasciano nessun dubbio sulla reale portata della digitalizzazione dell’urbano che, aldilà della tecnologia, consiste nel fondare un nuovo regime di cittadinanza, che significa un nuovo rapporto fra l’individuo e l’autorità. Se Aristotele definiva la politica come “prendersi cura del bene comune”, la res publica per eccellenza si concretizza nella polis, nella città-stato dove è nata la democrazia, il governo dei molti, come designa la traduzione greca di polis.

La città, quindi, da spazio fisicamente, giuridicamente e storicamente riconosciuto quale sede della democrazia al cui centro sta il cittadino titolare di diritti inviolabili ed innati (appunto perchè nato nella sua civitas) scompare dietro l’emersione di una sovrastruttura digitale che fa da “ponte” fra le persone e i servizi, regolandone accessi e sbarramenti. Sulle macerie della città storica, la Smart City apre lo spazio concettuale per l’avvento del credito sociale, peraltro già in via di sperimentazione a Bologna, a Fidenza, a Roma, a Trento. Il cittadino digitale non abita più la propria polis con le sue leggi, le sue carte e i suoi confini, ma la rete invisibile della Smart City dove basterà un click per far scomparire diritti fondamentali insieme a secoli di pensiero giuridico, filosofico ed etico alla base della nostra civiltà. In questa luce, la Smart City si configura anche come l’emblema della “città post-politica” portando a compimento definitivo quel lungo processo di de-politicizzazione tipico della contemporaneità. Dai diritti alle concessioni premiali, da cittadini a “city user“, come viene definito orwellianamente l’abitante della città intelligente: è una torsione che non può essere semplicemente imposta con la forza dall’alto, ma ha bisogno di estorcere un certo consenso seducendo le masse con la manipolazione dei mezzi di informazione.

Oltre al Governo, molti altri soggetti si prodigano per promuovere il progetto Smart City come Cittalia, con “Il percorso verso la città intelligente”, Ambrosetti che la definisce persino “un’opportunità nello spirito del Rinascimento per una nuova qualità della vita”, e soprattutto la Cassa Depositi e Prestiti, che nel 2013 pubblica un lungo studio in cui scrive:

“Ridurre la spesa sociale, che compone quasi due terzi della spesa corrente, sarà assai difficile, a causa di ostacoli politici, ma soprattutto per ragioni demografiche. Questo significa che sarà più che mai necessario ridurre il costo dei servizi pubblici e della spesa per infrastrutture sociali, senza ridurre la qualità, anzi aumentandola. Come è possibile? È possibile grazie alla tecnologia e all’innovazione”.

Al centro della sfida vi è la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica che faccia dialogare persone e oggetti e che assicuri, soprattutto, la definizione di nuovi strumenti di politiche pubbliche caratterizzate da un forte contenuto tecnologico e l’utilizzo su larga scala dell’ingegneria finanziaria, elemento essenziale per la realizzazione della visione politica e sociale della Smart City.

L’attacco al territorio va a colpire anche la Città Metropolitana la cui nozione viene fatta ricadere nel medesimo recinto concettuale della Smart City. Ad esempio, nel 2015 la Commissione europea approva il “Programma Operativo Città Metropolitane 2014-2020” di PON Metro che prevede un piano nazionale unitario di interventi per lo sviluppo urbano sostenibile. Il piano viene finanziato con oltre 800 milioni di euro ed interessa 14 città: Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Cagliari, Catania, Messina e Palermo. Le aree di intervento sono sempre le stesse: l’Agenda digitale, la sostenibilità, i servizi pubblici e la mobilità urbana dal punto di vista energetico ed ecologico, l’innovazione e l’inclusione sociale.

Dal 2020, i finanziamenti stanziati per la Smart City sono andati costantemente aumentando. Nel corso degli ultimi dieci anni il termine Smart City ha assunto differenti significati: dalla città digitale degli anni 2000 incentrata sulle infrastrutture tecnologiche, a città socialmente inclusiva della metà del decennio con apologia della nozione di partecipazione della cittadinanza, fino alla definizione attuale dove domina il termine “intelligente” come obiettivo di miglioramento della qualità della vita combinando tutti gli altri aspetti.

Lo slittamento porta a enfatizzare l’elemento comunitario per identificare la Smart City come una forma di civic empowerment che favorisce la partecipazione dal basso. Poichè la retorica sulla città verde e pulita non bastava a nasconderne il carattere panottico dato dall’abuso di tecnologie TIC sempre più invasive, la narrativa è stata implementata con l’illusione di partecipazione popolare dal basso, come affermato in “The Human Smart Cities Vision” del professore Alvaro de Oliveira e in “Human Smart Cities the Vision”, convegno organizzato a Roma nel 2013 da Forum PA in collaborazione con l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e con il coordinamento scientifico di Periphèria.

Infatti, nel “Manifesto on Citizen Engagement & Inclusive Smart Cities” del 2016 dell’Unione Europea vengono introdotte accorte modifiche al linguaggio Smart. Innanzitutto, il “city user” (l’ex cittadino) e la comunità urbana vengono messi formalmente al centro del progetto che infatti viene ora denominato “Smart City & Community” adottando un “approccio cittadino-centrico nella progettazione di tutti i nuovi servizi”. In secondo luogo, la tecnologia perde il primato e viene veicolata come “semplice” strumento per l’attuazione di “idee nuove, prodotti e servizi che soddisfano bisogni sociali”. Infine, affinché il progetto venga accettato è necessario promuovere “trasformazioni del comportamento” percepite come spontanee alimentando un senso di “appartenenza, identità, benessere e di gruppo” tramite il “coinvolgimento della comunità e la cooperazione” e tramite metodologie come quella della “gamification” o dei “Living Labs”, laboratori viventi a cielo aperto, ecosistemi territoriali di collaborazione PPP (public, private, people).

Iniziamo a tirare le somme

In conclusione, dall’analisi delle Carte e dei documenti ufficiali emerge come nella definizione di Smart City sia implicita un’idea di sviluppo della città tutt’altro che pubblica e democratica. Sotto la vernice delle parole chiave del linguaggio Smart come “innovazione, creatività ed efficienza” si cela, in realtà, un’operazione politicamente ed economicamente orientata, rispondente alle logiche del mercato tardo capitalista più che alle esigenze della comunità dei cittadini. Allo stesso modo, la promozione di una cultura digitale, l’efficientamento della pubblica amministrazione, gli investimenti pubblici nelle TIC sono iniziative al servizio dell’impresa che finiscono per distorcere il concetto stesso di benessere collettivo. In questa chiave, la Rivoluzione Smart assume le fattezze di un city branding per attirare sempre nuovi investimenti privati.

La Smart City porta a compimento i processi neoliberisti di privatizzazione dello spazio urbano che è il luogo pubblico, per eccellenza, della collettività. Con la benedizione dell’Unione europea, le grandi corporation informatiche entrano direttamente nella pianificazione della città intelligente.

Stupisce l’acriticità con cui il nuovo paradigma urbano è stato accettato dai tanti attori coinvolti nel processo (amministratori locali in primis). Sconcerta il positivismo quasi fideistico che individua nell’innovazione della information technology la capacità di migliorare in automatico la qualità della vita cittadina. Meraviglia l’ingenuità di demandare ai dati raccolti (ad esempio, quelli sull’inquinamento ambientale) l’orientamento del governo del territorio concependoli come neutri, trasparenti e oggettivi piuttosto che come sempre interpretabili e contestabili. E, soprattutto, sbalordisce la cecità assoluta di fronte al rischio di una sorveglianza di massa totalitaria insito alla Rivoluzione Smart e al suo forte determinismo tecnologico.

Malgrado le grandi aspettative suscitate, inoltre, le politiche Smart non solo non prevedono nessun intervento strutturale nel tessuto sociale dal punto di vista dell’inclusione, ma anzi aumentano le disuguaglianze, portando all’emarginazione dei gruppi socio-economici che non hanno accesso o dimestichezza con le tecnologie informatiche. Prenotare una visita medica on line infatti, presuppone un certo grado di conoscenza digitale oltre che il possesso di un dispositivo Smart, di una connessione e di una carta di credito. Il nuovo modello di città non solo favorisce la marginalizzazione delle frange più povere, ma determina anche l’espulsione di coloro che non riescono a essere sufficientemente smart o i cui stili di vita non sono in linea con la città intelligente.

La crisi pandemica ha moltiplicato le produzioni discorsive catastrofiste secondo cui le città contemporanee sarebbero sull’orlo di un collasso climatico, energetico, economico, a cui soltanto la Rivoluzione Smart potrà offrire una soluzione, accentuando la componente messianica dell’aggressione propagandistica.

Siamo di fronte a un grande racconto futurologico che, attraverso alcuni topoi narrativi legati all’interconnessione, al paradiso green, all’abbattimento del traffico e alla eradicazione del crimine, propone un immaginario di progresso utopistico collocato in una dimensione atemporale, in cui sono descritti i prodigi che la tecnologia realizzerà nel futuro prossimo anzichè quellì che può realisticamente offrire oggi. È uno storytelling nato nelle grandi corporation informatiche e successivamente ripreso da imprese locali e attori istituzionali.

Come ha scritto Adam Greenfield, l’assenza di concretezza sembra costituire una strategia cosciente per evitare critiche sulle mirabilia preconizzate: “la Smart City può e sarà sempre ridefinita nel modo in cui i suoi sostenitori ritengono necessario, rimanendo per sempre fuori dalla nostra portata“.

Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

NOTE

(1) Si veda l’intervento di Massimo Cascone sulla digitalizzazione in Italia

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