Il Prof. Stefano Isola: Da Homo Sapiens a Homo Digitalis nella società dell’insignificanza

Come il progresso tecnologico sta radicalmente cambiando i connotati dell'essere umano.

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Intervista di Massimo A. Cascone al professore ordinario di Fisica Matematica Stefano Isola, docente presso l’Università di Camerino. Esperto di sistemi dinamici, epistemologia e storia della scienza, con questa intervista abbiamo avuto il piacere di conoscere il suo punto di vista sulle trasformazioni in atto nella nostra contemporaneità, tutte aventi come filo conduttore le odierne tecnologie digitali, che stanno modificando tanto la società in cui viviamo che la psicologia degli stessi cittadini nell’approccio alla quotidianità.

Nella sua analisi, particolare accento dedicato al rapporto tra gli essere umani e la tecnologia, la nascita dell’homo digitalis e la riduzione alla sua insignificanza con l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale.

Sarà dunque compito di chi mantiene salde le radici nella molteplicità autocreatrice della dimensione umana attivare processi di auto-educazione popolare e costruzione di concrete alternative, magari proprio a partire dal fronte più antico di esautoramento ed espropriazione da parte del Leviatano digitale, quello dell’agricoltura contadina e del lavoro artigiano. Altrimenti ci aspetta un mondo dove ragione e parole saranno ormai inutili perché caos e violenza ne avranno preso il posto.

Buona lettura!

* * *

D 1 – Per lungo tempo la tecnologia è stata sotto il controllo dell’uomo, al giorno d’oggi invece stiamo assistendo alla nascita di una tecnologia “intelligente” che impara e presto sarà in grado di prendere decisioni in maniera autonoma. Concorda con questa affermazione? 

R – Quello del ruolo sociale della tecnologia è tema importante e tutt’altro che semplice, anche per le sue multiformi contaminazioni con un immaginario un po’ favolistico, ma profondamente radicato nella psiche collettiva, che la dipinge come un insieme di strumenti “neutri” di cui di volta in volta l’uomo può decidere o meno di avvalersi valutandone l’utilità, ed eventualmente i rischi, senza che ciò abbia implicazioni di altro genere.

La possibilità di avere un effettivo “controllo” degli strumenti tecnologici da parte di chi li utilizza dipende in varia misura dal contesto sociale e culturale del quale tali strumenti fanno parte e che essi stessi contribuiscono a determinare. Un artigiano che progetta e costruisce uno strumento musicale o un attrezzo agricolo mette in opera un particolare rapporto tra azione e pensiero, che attiene alla logica dei procedimenti materiali nel rapporto dell’uomo col mondo naturale. Ma quando la tecnica diviene dominio non del rapporto tra uomo e natura ma della natura stessa, e dunque anche dell’uomo, la sua azione acquisisce un grado di autonomia che la rende portatrice di un nuovo potere.

Con la rivoluzione industriale, ad esempio, si è prodotto un nuovo meccanismo con cui realizzare l’accumulazione del capitale, basato sul fatto che meccanizzando il processo lavorativo si poteva ottenere nello stesso tempo la produzione di una maggiore quantità di merce. In quel passaggio, l’unità individuale di mano e mente dei singoli produttori ha lasciato il posto a un diverso rapporto tra azione e pensiero, un rapporto in cui l’azione fosse sempre più riproducibile in modo controllato e “meccanico”, incorporando un pensiero estraneo, un “calcolo intellettuale” incarnato dalle macchine industriali. Ciò che cambia per il produttore non sono tanto le sue condizioni materiali di vita; piuttosto per lui si attua una duplice espropriazione: quella della sua partecipazione alla proprietà dei mezzi, dei materiali necessari alla produzione e del risultato del proprio lavoro; e quella del controllo sui passaggi della catena produttiva, ovvero della cognizione del rapporto tra i fini conseguiti e le azioni intraprese per conseguirli. In questo secondo senso, la meccanizzazione industriale del lavoro produttivo ha determinato la sua sostanziale degradazione, che a sua volta ha preparato il terreno per la sua completa automazione. La forma con la quale, nel mondo in cui viviamo, l’automatismo si crea e si sviluppa determina una progressiva perdita di consapevolezza e dunque di autonomia dell’attività produttiva per chi ne è implicato. Questa è la verità di cui il progresso tecnologico moderno, nella sua irripetibile effettualità storica, è portatore per il lavoro umano, una verità che si può ben esprimere, con David Noble, nei termini di un progresso senza persone. Oggi, dopo l’eliminazione di gran parte dei contadini e degli artigiani, poi degli operai per mezzo dell’automazione, quindi degli impiegati con l’informatizzazione, l’avvento della società digitale sancisce l’obsolescenza delle professioni amministrative (esattori, assicuratori, poliziotti, ecc.), giudiziarie (giudici, avvocati, ecc.), intellettuali (insegnanti, medici, ingegneri, ecc.), e finanche “creative” (scrittori, musicisti, registi, attori, ma si sta lavorando anche su come automatizzare i gesti di infermieri, giardinieri, fornai, cuochi) e la loro progressiva sostituzione con algoritmi “intelligenti”, ai quali vengono dati in pasto dati di ogni tipo sottratti unilateralmente alla produzione umana.

Tutto questo, evidentemente, implica la progressiva eliminazione del contributo umano dagli accadimenti significativi e sancisce il rovesciamento del principio di utilità della tecnica in quello di utilità per la tecnica: dalla macchina al servizio dell’uomo, all’uomo come terminale di un dispositivo che lo supera e lo sovrasta.

Un passaggio chiave dell’attuale messa in forma tecnologica del mondo – che conferisce un inedito potere alla cosiddetta “intelligenza artificiale” (IA) – è infatti il tentativo di passare da macchine che supportano compiti e obbiettivi umani, a macchine che simulano intenzioni e decisioni umane, attraverso algoritmi ai quali è assegnata una funzione predittiva, ma la cui funzionalità effettiva resta largamente imperscrutabile: il modo con cui una rete neurale artificiale riconosce un’immagine, o seleziona un insieme di dati come significativi per classificare il comportamento di un utente in un certo modo, non lo decide il progettista della rete, ma si auto-genera, per così dire, durante una complessa dinamica interna alla rete, già nella fase detta di “apprendimento automatico”:  un processo sul quale non abbiamo alcun controllo e che ubbidisce solo a criteri di ottimizzazione statistica supportati da grandi capacità di calcolo. In particolare si tratta di un processo del tutto privo di riferimenti al contesto e al significato, ovvero ai principali criteri di scelta e di giudizio umani.

Osservando le cose da questa angolatura potrà apparire chiaro quanto la narrazione usuale che accompagna le innovazioni che piovono continuamente sulla nostra vita non possa che essere farlocca, non solo nei suoi slanci apologetici, che annunciano una prossima liberazione dell’uomo dal lavoro degradante per dare finalmente spazio a vite di svago e contemplazione, ma anche nei suoi allarmi catastrofisti, i quali prefigurano una minaccia distopica di tipo “fantascientifico”, in cui le creature artificiali che abbiamo creato presto ci sfuggiranno e si rivolteranno contro di noi soggiogandoci con la loro superiorità cognitiva, e magari distruggendoci. No, ciò con cui abbiamo a che fare sono piuttosto entità destinate a divenirci aliene, cioè capaci di prendere decisioni in modi e forme autonome e per noi incomprensibili. Come scrisse profeticamente il filosofo Günther Anders alcuni decenni fa: «siamo incapaci di farci un’immagine di ciò che noi stessi siamo stati capaci di fare. In questo senso siamo “utopisti a rovescio”: mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto».

 

D 2 – Il progresso tecnologico ha sempre determinato delle trasformazioni nella società civile. Che impatto ritiene abbiano le attuali tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei rapporti tra i cittadini? Siamo nell’era del panottico digitale?

R Ricollegandomi dalla domanda precedente, c’è chi sostiene che la rivoluzione digitale stia trasformando homo faber in homo ludens digitalis, l’uomo che invece di agire “gioca con le dita”. Come interpretare questa visione? Un minimo di realismo mostra che l’immaterialità della vita digitalizzata non apre al tempo dell’ozio, quanto piuttosto a quello della reperibilità e della prestazione permanente, che toglie anche al gioco ogni aspetto ludico per renderlo un aspetto correlativo di un lavoro dilatato e divenuto autosfruttamento continuo. Oggi non abbiamo altro tempo che quello lavorativo, ce lo portiamo sempre dietro, anche in vacanza, anche nel sonno. Se le macchine dell’età industriale soggiogavano i lavoratori nella fabbrica costringendoli a ritmi e comportamenti eterodiretti, i dispositivi digitali producono una schiavitù ancora più insidiosa trasformando ogni luogo in luogo di lavoro e ogni tempo in tempo lavorativo. L’utopia ludica si rovescia in una distopia della prestazione e dello sfruttamento, che fatalmente converte la libertà di muoversi nell’obbligo della reperibilità comunicativa e della prestazione lavorativa permanenti. E tutto questo nella misura in cui la creazione del valore si identifica sempre di più con l’estrazione ed elaborazione di dati: l’equivalente attuale dello sciopero sarebbe la disconnessione digitale collettiva.

Quanto alla sorveglianza, nella società digitale essa non avviene attraverso l’isolamento spaziale e comunicativo, come nel panottico benthamiano, bensì attraverso la connessione permanente e l’iper-comunicazione. I suoi abitanti vivono in un’illusione di libertà indotta dalla vasta disponibilità di opzioni preformate, e nutrono gli algoritmi mettendo in mostra volontariamente se stessi nel modo più “trasparente” possibile. Le modalità con cui si attua tale processo sono ovviamente imposte dai protocolli comunicativi messi a disposizione dal sistema digitale e in questo senso gli stessi comportamenti esposti si auto-modificano proprio per ottimizzare la loro “visibilità”. In questa luce appare tutta la puerilità di chi sostiene che la società digitale “eliminerà la solitudine”, laddove l’effettualità storica del progresso tecnologico moderno lo vede invece disgregatore di ogni moltitudine in agglomerati di solitudini, nel cui ambito si consumano forme di regressione sempre nuove ed imprevedibili.

In questo senso la società digitale non si configura solo come società del controllo e della sorveglianza, ma anche come società dell’insignificanza, laddove ciò che conferisce significato all’esperienza umana è innanzitutto la sua dimensione relazionale e sociale. Ogni giorno di più l’homo digitalis vive circondato da “tutori” che lo accudiscono in ogni passaggio della vita. Anche gli oggetti iniziano a parlare tra loro senza alcun intervento umano, il cosiddetto Internet delle cose, incarnato nella rete 5G.

Così, la comunicazione digitale, la cui idealità era quella della realizzazione intersoggettiva e della felicità prodotta dall’immediatezza e dalla prossimità, nella sua concretezza ha invece aggravato l’isolamento degli individui e distrutto lo spazio pubblico. Essa non è dominata dal trasporto verso il prossimo ma dal narcisismo e dall’auto-esibizione. Tale è, ancora una volta, la sua irripetibile effettualità storica, il resto mi sembrano per lo più favole per adulti infantilizzati.

 

D 3 – Che cosa si intende quando si parla di esternalizzazione dell’essere umano?

R Secondo il WEF per il 2030 sono previsti 800 milioni di disoccupati in più. Le loro mansioni verranno esternalizzate in macchine specializzate e addestrate ad eseguirle. Ma questo processo non investe solo le funzionalità lavorative. Da oltre un decennio, da quando le tecnologie digitali stanno diventando il sistema nervoso del cosiddetto capitalismo globalizzato, è all’opera una complicata infrastruttura nella quale le cosiddette “tecnologie convergenti” cercano di integrare in un’unica piattaforma “intelligente” la robotica, i nanomateriali, la sensoristica, la biologia computazionale, le neuro-tecnologie, ecc. per realizzare attraverso tali potenti strumenti di intervento sulla realtà il sogno che la cibernetica rincorre fin dagli anni ’40 del secolo scorso: una “buona gestione delle cose” che superi definitivamente le incertezze, le contraddizioni, i difetti, i ritardi, l’imprevedibilità dell’azione umana. Una gestione che implica la progressiva eliminazione del contributo umano dagli accadimenti significativi, insieme alla moltiplicazione di una congerie di dispositivi qualificati generalmente come smart, come a rimarcare il passaggio da qualcosa di imperfetto e inaffidabile – la vita e l’esperienza umana – a qualcosa di perfettamente controllato ed efficiente. E tale presunta efficienza sarebbe garantita da “tutori artificiali” investiti di un’autorità sempre crescente, a sua volta basata su un’efficacia continuamente amplificata da processi di “apprendimento automatico”: telefoni smart, caschi smart, occhiali smart, chatbot smart, sensori smart, ecc. possibilmente inseriti in città smart…fino alle armi smart, come gli smart shooter, che neutralizzano o uccidono esseri viventi senza “sapere quello che fanno”.

Nella misura in cui l’estrinsecazione sociale delle proprie facoltà concorre a costruire il senso di identità e di equilibrio psichico degli individui, l’avvento dell’IA, presentato come straordinaria opportunità espansiva e promessa di liberazione, si traduce sul piano collettivo in potente dispositivo malthusiano, determinando pulsioni autodistruttive, ben visibili nella crescita abnorme di suicidi e di consumo di droghe (come il Fentanyl, che soprattutto negli USA provoca centinaia di migliaia di morti ogni anno per overdose). Ma, nello stesso tempo, si diffondono i chatbot “intelligenti” per la “salute mentale”: sempre disponibili, non richiedono appuntamento, possono essere “personalizzati” parlando solo della persona sotto tutela, e all’occorrenza fornire soluzioni e protocolli terapeutici mirati.

Secondo il fondatore di DeepMind «entro cinque anni, la maggior parte delle persone avrà un assistente IA personale, […] uno strumento che arriverà a “conoscere” profondamente l’utente, comprendere la sua storia personale e ragionare in modo avanzato, quasi come un umano». Come l’avatar digitale 3D di Google detto Replika: «il compagno IA sempre pronto ad ascoltare e parlare, sempre al tuo fianco, che non giudica e mette al riparo da drammi o ansie sociali».

Credo sia utile osservare che il tutore artificiale, rappresentante più “personalizzato” del processo di esternalizzazione dell’umano, è qualcosa che presuppone, e porta alle estreme conseguenze, la patologica idealità liberale per cui ogni individuo sarebbe un atomo depositario di desideri e inclinazioni arbitrarie e insindacabili, che per vivere non ha alcun bisogno di condividere una comunanza di natura.

 

D 4 – Le attuali trasformazioni tecnologiche stanno riscrivendo quello che è stato un rapporto secolare tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni, secondo lei assisteremo nei prossimi anni alla totale dematerializzazione degli uffici pubblici e che conseguenze comporterà ciò?

 R La tecnologia moderna è sempre stata in varia misura una “produzione sociale”, e i suoi creatori, gli ingegneri, non sono solo esperti di scienze applicate ma anche di gestione dei rapporti sociali. Il sistema delle attuali tecnologie basate sulla ragione artificialeche con solide ragioni può essere considerato postscientifico – è una produzione sociale che a sua volta “produce la società”, o meglio un suo surrogato: la community. Una community digitale, con la sua policy e i suoi meccanismi automatizzati di accesso, controllo, previsione ed esclusione. Tutto questo si accompagna ad un fenomeno poco discusso: l’eclisse della normatività statistica basata sul “sistema degli esperti”. La proliferazione di “competenti” in ogni campo, caratteristica soprattutto degli ultimi decenni del secolo scorso, ha generato anche una crisi di credibilità della politica, purtroppo non nella direzione di un ritorno alla politica come politeia, ma in quella, opposta, della sua progressiva sostituzione con protocolli di gestione automatica mirati e personalizzati. Così, le statistiche raccolte ed elaborate da esperti e tecnici, stanno lasciando il posto all’elaborazione automatica di immense quantità di dati, i cosiddetti big data, raccolti da interfacce, sensori e dispositivi smart disseminati in modo sempre più capillare e che costituiscono il materiale da dare costantemente in pasto all’IA.

Si parla spesso di società guidata dai dati: «Le briciole di pane digitali che ci lasciamo dietro durante la nostra vita quotidiana – che rivelano più cose su di noi di qualsiasi cosa decidiamo di rivelare – forniscono un potente strumento per affrontare i problemi sociali» (Alex Pentland). La stessa sorveglianza sociale diventa «un cliente di prima qualità per l’IA» (Eric Schmidt).

Tradizionalmente gli statistici ponevano delle domande e raccoglievano i dati per rispondervi, formulando poi affermazioni “oggettive” a supporto dei decisori politici. Con l’avvento delle tecniche dette data science, big data analytics, data mining, sentiment analysis, ecc. i dati vengono acquisiti per primi, le eventuali ricerche, elaborazioni e previsioni giungono di conseguenza, e spesso in tempo reale, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di controllo e guida dei processi collettivi (elezioni politiche, costruzione del consenso, amministrazione del dissenso). La razionalizzazione della società operata dalla statistica classica ricorreva ad un modello di “uomo medio” rispetto al quale misurare le deviazioni. La data science invece stabilisce una guida senza mediazioni, che aderisce come un abito smart alla superficie dei comportamenti per produrli e anticiparli.

Ma con il venir meno dell’autorità della statistica e del ruolo mediatore dell’esperto pubblico non resta nulla che li sostituisca: gli individui atomizzati possono vivere in qualunque “comunità immaginaria” ritengono più allineata con ciò in cui sono disposti a credere. E, viceversa, l’IA predittiva sancisce nuove “recinzioni” sulla base di associazioni e comparazioni che spesse volte non hanno significato alcuno. Cerchiamo di chiarire questo punto. Voci, facce ed emozioni delle persone vengono oggi classificate attraverso l’apprendimento automatico, e le vite delle persone vengono profilate da algoritmi statistici sulla base dei quali vengono poi prese decisioni sulla loro vita: sono disponibili sul mercato software che consentono di assumere decisioni sulla base di correlazioni tra dati di ogni tipo, senza alcun riferimento al contesto o al significato, presupponendo la possibilità di prevedere se un cittadino commetterà un crimine, se un candidato per un impiego sarà abbastanza collaborativo, se uno studente abbandonerà gli studi prima del tempo, se una potenziale debitore restituirà un prestito o se una persona avrà bisogno di una particolare assistenza medica. Una dimensione totalitaria che prefigura una totale inversione dell’onere della prova, reintroducendo un criterio analogo a quello dei processi per stregoneria: si è colpevoli in quanto accusati. Inoltre, l’intreccio inestricabile di correlazioni significative e correlazioni spurie nei big data (queste ultime derivanti solo dalla numerosità e non dalla natura dei dati), assegna a questo tipo di decisionalità algoritmica una dimensione marcatamente irrazionale, perché basata sull’idea “psicotica” che tutte le connessioni siano significative, indipendentemente dal riconoscimento di nessi causali. Sul piano giuridico, come hanno fatto notare alcuni autori, tutto ciò fa sì che le decisioni predittive basate sui sistemi di apprendimento automatico siano costitutivamente discriminatorie – ben oltre le “discriminazioni culturali” incorporate nei dati, di cui si parla sempre – in quanto procedono trattando gli individui in base al loro raggruppamento in categorie costituite a partire da correlazioni rilevate nei dati di partenza e che tuttavia possono essere totalmente irrilevanti rispetto alle decisioni di cui si è oggetto. Tale caratteristica è strutturale, non è dovuta ad inefficienze o imprecisioni tecnicamente modificabili.

Per altro, ritenere di poter prevedere le azioni future di una persona vivente così come si può prevedere l’occorrenza di certe stringhe di testo in un database equivale a ritenere che la dimensione del tempo non fa parte dell’esperienza umana, e che il futuro equivalga al passato. Anche in questo senso, l’adeguamento alla gestione algoritmica delle cose ha un effetto di restringimento ed impoverimento di aspetti essenziali della natura umana: il potere dell’IA come tutore universale la rende capace di comprimere il futuro sul presente; viene occultato ciò che potrebbe avvenire per mostrare solo ciò che è già dato, anche se deve ancora avvenire. In direzione opposta alla propaganda che accompagna ogni nuova trovata intelligente, puntualmente dipinta come portatrice di nuove potenzialità per l’esperienza umana, stiamo assistendo all’annichilimento sistematico della possibilità che in futuro possa avvenire qualcosa di diverso da ciò che abbiamo già adesso. In questa chiave, anche le ormai diffuse preoccupazioni sulla “sostenibilità digitale”, intesa come garanzia di spazi di agibilità per le generazioni future, divengono meri ossimori.

 

D 5 – Abbiamo parlato di trasformazione dei rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, nonché del pervasivo controllo che le nuove tecnologie permettono…secondo lei sono queste due caratteristiche centrali delle cosiddette smart city? C’è un legame tra questi aspetti e le emergenze planetarie come quella sanitaria o climatica?

R Le emergenze che si susseguono ininterrottamente da alcuni decenni, saltando da una “crisi” all’altra senza soluzione di continuità, e con una velocità divenuta vertiginosa negli ultimi tre o quattro anni, hanno tutte ormai adottato una medicina comune: la spinta fanatica alla digitalizzazione di tutto (su cui anche si investe praticamente tutto, basti vedere la ripartizione delle voci finanziate dal PNRR).

Emergenza permanente e digitalizzazione sembrano due poli indissociabili che si alimentano a vicenda.

Una misura come il lockdown di massa durante l’emergenza Covid, ad esempio, non avrebbe potuto essere neppure immaginata senza un certo grado di digitalizzazione diffusa, ed ha a sua volta fatto esplodere il telelavoro (smart working), la didattica a distanza, le videoconferenze e il commercio elettronico, tutte pratiche oggi entrate a far parte di una nuova normalità. Nell’ottobre 2020 Vittorio Colao – dirigente di società di telefonia mobile e Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale nel governo Draghi – quando era a capo del Comitato Tecnico Scientifico a cui il governo italiano aveva affidato il compito di gestire la pandemia, ha affermato che: «stiamo accelerando la transizione digitale. Non è reversibile. Compreremo di più online, viaggeremo meno. Non si può salvare un mondo che non c’è più». Il mondo che secondo Colao la pandemia si stava portando via era quello dove era ancora ritenuto normale incontrarsi per discutere o seguire una lezione, uscire a fare la spesa o mettersi in cammino per andare a trovare qualcuno. Una smart city definisce invece un contesto nel quale tutte queste cose sono preordinate entro un quadro di possibilità accessibili virtualmente.

Una caratteristica basilare delle città che aspirano ad ottenere lo status smart è infatti  la smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale, divenendo così una location e così l’intero spazio fisico esiste solo in quanto è posto in corrispondenza con un’infrastruttura invisibile che ne determina in modo univoco le caratteristiche e la conseguente agibilità controllata. Chi è privato della possibilità di stabilire una “connessione” con tale infrastruttura, non “esiste” e, viceversa, tutto quanto lo circonda si riduce ad una spettrale città fantasma. Questo processo di distruzione/ricostruzione dell’ambiente abitativo ed urbano, con la sua logica del ranking basata su indicatori quantitativi delle prestazioni, introduce in modo più o meno surrettizio un nuovo “ordine morale” che assicura un disciplinamento delle città, e delle abitazioni che ne fanno parte, le quali per garantirsi finanziamenti e sovvenzioni non hanno altra strada che attuare le politiche prescritte dalle agende internazionali. Tutto questo, evidentemente, diviene realizzabile nella misura in cui viene distrutta l’originaria dimensione politica della città – come spazio della politeia. Tale ordinamento, poi, si estende senza soluzione di continuità agli individui che le abitano, aprendo la strada a sperimentazioni di credito sociale che vincolano la vita delle persone ad un “bene” predefinito e misurabile per via algoritmica.

Le smart city sono dunque certamente dispositivi di controllo sociale, ma lo sono soprattutto nella misura in cui tale controllo produce valore attraverso l’estrazione di dati. Come si è accennato più sopra, la digitalizzazione implica una trasformazione non tanto dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, ma della natura stessa dei due termini, una trasformazione di natura politica ma soprattutto antropologica.

 

D 6 – Viviamo nell’epoca delle prime applicazioni dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria genetica. Abbiamo affermate correnti di pensiero – le più famose riunite nei giorni scorsi a Davos – che propugnano l’integrazione dell’uomo alla macchina, attraverso nanomateriali e neuro-tecnologie. Come saranno gli uomini del domani? 

R Premetto che i partecipanti di Davos mi appaiono spesso come tanti piccoli “napoleoni”, convinti di essere depositari di un controllo assoluto su un mondo che invece in buona misura li ignora. Il sogno globalista statunitense sta infatti incontrando seri ostacoli per l’imporsi di strutture geopolitiche, incarnate da potenze regionali come Cina, Russia, India, e Iran, che, pur non limitandosi al tradizionale Stato nazione, respingono con determinazione l’universalismo guerrafondaio dell’Occidente a guida anglo-americana.

Nondimeno, alcuni scenari concepiti in quel contesto, e in particolare un’integrazione uomo-macchina sempre più spinta, contribuiscono pesantemente a configurare l’ideologia transumanista che guida l’attuale escalation tecnologica in gran parte del mondo. Il grado di sviluppo raggiunto dalle neuro-tecnologie e dalle nano-tecnologie rende oggi realizzabili una gamma crescente di innesti e ibridazioni, come l’impianto di un chip in un cervello umano realizzato pochi giorni fa dalla società Neuralink di Elon Musk. Tra le molte promesse dell’ideologia transumanista c’è ad esempio quella della Fondazione Terasem, impegnata nell’esplorazione e promozione di una tecnologia “geo-etica” sotto le cui cure potreste raggiungere una cyber-immortalità «conservando le proprie cellule vive, con gli orologi biologici fermi per un tempo indefinito e, […] dopo essere stati dichiarati biologicamente defunti, la tecnologia futura potrebbe essere in grado di farvi crescere in un nuovo corpo tramite l’ectogenesi [ovvero l’allevamento degli esseri umani in “uteri artificiali”] e il vostro file mentale potrebbe esservi scaricato, consentendovi di vivere a tempo indeterminato».

Al di là degli aspetti al tempo stesso messianici e potenzialmente criminali di tali scenari, quello che tale movimento tecno-ideologico prefigura mi sembra soprattutto un quadro normativo ed ingiuntivo: nella misura in cui tali interventi sulla vita si presentano invariabilmente come a fin di bene, chi non vi si affida non può che essere socialmente condannabile visto che mette la specie a rischio potenziale…Nello stesso tempo, affidarvisi equivale a mettersi nelle condizioni in cui il corpo-mente che siamo può essere messo in corrispondenza con una combinatoria finita di procedure e dinamiche automatizzate, ovvero nelle condizioni in cui le nostre facoltà, lente ed inaccurate, ma radicate nel linguaggio e nell’intelligenza autocosciente, si riducono a quelle, assai più veloci ed accurate, e al tempo stesso infinitamente più “stupide”, di una macchina che calcola. Così, ad uno sguardo animato da un minimo di realismo, un cyborg non appare come un essere umano con alcune facoltà amplificate, ma piuttosto come una macchina con funzioni antropomorfiche.

Ed è assai probabile che il prossimo futuro non vedrà un conflitto tra macchine e umani, ma soprattutto tra coloro che “usano” le macchine e coloro che resistono a tale ibridazione sistemica.

 

D 7 – Nonostante la velocità spropositata con cui avviene oggi il progresso tecnologico, è possibile individuare alcuni soggetti che mantengono le redini di questo progresso? Chi sono gli attuali padroni del vapore? In particolare, come italiani abbiamo assistito negli ultimi decenni al progressivo allontanamento dal territorio dei centri decisionali. Dall’UE alla NATO fino all’ONU e il suo braccio armato sanitario l’OMS, le decisioni che ricadono sulle nostre vite non sono sotto il nostro controllo. Quanto ha influito la tecnologia su questa involuzione della politica e che dobbiamo aspettarci per il futuro? Quali possibili direzioni di resistenza? 

R Mi sembra importante poter cogliere tali fenomeni non solo come somma di pratiche individuali, ma anche e soprattutto nel loro aspetto sistemico, senza limitarsi a una visione moralistica e individualizzante, per cui i problemi causati dalle tecnologie digitali deriverebbero dalle cattive intenzioni dei loro finanziatori, dei loro progettisti, dei loro utilizzatori o dalla concentrazione di capitale che le produce. Se, indubbiamente, di volta in volta si può individuare chi in varie forme spinge con particolare decisione lungo certe direzioni, difficilmente gli interessi, le intenzioni o l’ideologia di particolari soggetti o istituzioni possono da soli fornire chiavi interpretative per comprendere il tipo di mondo in cui viviamo. Il sistema tecnico, in particolare quello attuale, esprime il larga misura un potere in sé: così come la digitalizzazione ha distrutto lo spazio pubblico, ha anche sussunto a sé funzioni di governo, trasformando, come si diceva, la società in una community, dove il potere si esercita soprattutto attraverso meccanismi di condizionamento operante, fatti di incentivi, rinforzi, isolamento, punizioni. Il sogno di Burrhus Skinner di una società in cui il comportamento di ogni suo membro sia rigidamente controllato sembra dunque farsi realtà, perlomeno in alcune aree del mondo. E una realtà per molti aspetti peggiore di quella dei totalitarismi storici, perché attuata da uno Stato che, coadiuvato da organismi internazionali quali appunto UE, NATO e OMS, si erge a nuovo Leviatano e nello stesso tempo si ritira da qualunque ruolo di tutela verso i cittadini (lavoro, casa, sanità, istruzione ecc.), lasciandolo a dispositivi di gestione automatica. Come ha affermato Klaus Schwab: “gli esseri umani devono accettare di diventare una fonte di energia per le macchine IA”. La governance “predittiva” che sta imponendosi con la diffusione dell’IA opera al tempo stesso come datificazione e interpretazione algoritmica della realtà, e come prescrizione delle decisioni e degli interventi da mettere in atto. L’IA non solo supporta, coadiuva, amplifica, etc. ma decide, giudica, valuta, esegue diagnosi e prescrive prognosi.

Non c’è spazio per altro, non per il discernimento o l’azione umana, non per la politica. La società digitale tende ad annientare l’azione umana nella misura in cui dispone una generica positività che fa sparire tutte le forme oppositive, lasciando spazio solo a diversi stati dell’uguale.

Ed è solo un apparente paradosso che il nuovo regno del bene artificiale si stia inaugurando in un contesto sempre più antidemocratico, attraversato da sofferenze e brutalità senza precedenti. Il susseguirsi compulsivo di emergenze globali e la discesa nella barbarie associata a guerre e distruzioni, sembrano ormai elementi imprescindibili per la perpetuazione del “capitalismo assoluto” e del suo “casinò finanziario”, che mette in forma e sussume sotto di sé tutto quanto è possibile. Se la tecnologia digitale sta diventando il fronte più caldo negli scontri geopolitici, è anche perché il potenziale distruttivo dell’attuale fase “emergenziale” del capitalismo globalizzato è immenso e può essere guidato solo da un “tutore” deprivato di ogni possibile dimensione etica.

Così come l’economia finanziaria si mostra vieppiù immateriale ed incomprensibile, gestibile solo da una complicatissima infrastruttura algoritmica, allo stesso modo gli eventi globali, le crisi, le minacce, le emergenze, e le guerre, che oggi trascinano la vita di enormi masse di persone, sono anch’esse entità spettrali e incomprensibili, gestibili solo da imperscrutabili algoritmi. Tutto tende a funzionare in questo modo e contribuisce ad annichilire ogni dimensione politica, ogni coscienza individuale, ogni dibattito pubblico, a vantaggio di un nuovo fideismo pseudo-religioso e neo-medievale, dove tutti devono avere le stesse paure e le stesse speranze.

In questo scenario la critica e la resistenza appaiono inagibili. E non solo perché ogni protesta finisce fatalmente per alimentare e rafforzare il controllo, ma anche perché tendono ad essere sterilizzate a monte con l’annichilimento della dimensione politica entro la quale è anche solo concepibile un’azione collettiva che possa cambiare qualcosa. Sembra che il solo spazio per la critica si riduca ad esprimere opinioni surrogate e inoffensive, iconizzate dai like o dagli insulti sulle “reti sociali”, che poi contribuiscono ad addestrare e migliorare il sistema complessivo.

E credo sia altresì  importante rimarcare che da questa situazione non si può uscire con delibere e meccanismi di garanzia, né con gli appelli a “Internet libero” e ad un “digitale alternativo”, che partono dall’assunto illusorio che la tecnosfera sia solo un insieme di servizi per l’accesso all’informazione. L’idea stessa che abbia senso pensare ad una regolamentazione, o addirittura ad una riappropriazione degli “strumenti digitali”, non solo mi sembra largamente fuorviante, ma credo che contribuisca in modo importante alla normalizzazione dell’agire tecnico senza pensiero. La possibilità di non procedere in determinate direzioni, di non costruire certi sistemi e di ripensare alla radice le cose, non è mai contemplata proprio grazie al discorso “etico” che svuota preventivamente di significato le questioni di fondo, ponendo a priori le innovazioni tecnologiche come inevitabili, purché siano adottati opportuni “codici di condotta” che ne garantiscano, come un’etichetta su un prodotto di supermercato, il carattere benefico.

Piuttosto, penso che occorra ricondursi alla radice dei problemi, osservando che la fonte principale di incertezza che può rendere inefficace un sistema di controllo e previsione basato sull’analisi di grandi quantità di dati è proprio l’elemento umano, soprattutto nei suoi comportamenti sociali e nella dimensione dell’azione, nel prendere l’iniziativa in direzioni inaspettate, nell’entrare in rapporto con altri uomini, nella creazione del nuovo, nella capacità di produrre vicende e storie in grado di illuminare di significato l’esperienza. Nella misura in cui la vita umana si dispiega entro un contesto caratterizzato primariamente da comportamenti mirati al conseguimento di un utile predefinito, allora è pienamente concepibile che molto presto le macchine “faranno meglio di noi” in qualsiasi campo. Tuttavia, mi sembra che la presa di coscienza di questo elemento apra, proprio in questa fase storica, un’inedita opportunità: quella di poter distinguere con nuova lucidità tra ciò che è autenticamente portatore di autonomia e progettualità creativa e ciò che è potenzialmente un surrogato artificiale.

Da questa prospettiva l’IA è una rivoluzione che lascia maggior spazio vitale proprio a coloro che se ne sottraggono, facendo invece drammaticamente “piazza pulita” di coloro che pensano ed operano vedendo nei protocolli standardizzati il meglio della vita, semplicemente perché presto li eseguirà molto meglio di loro. Sarà dunque compito di chi mantiene salde le radici nella molteplicità autocreatrice della dimensione umana attivare processi di auto-educazione popolare e costruzione di concrete alternative, magari proprio a partire dal fronte più antico di esautoramento ed espropriazione da parte del Leviatano digitale, quello dell’agricoltura contadina e del lavoro artigiano. Altrimenti ci aspetta un mondo dove ragione e parole saranno ormai inutili perché caos e violenza ne avranno preso il posto.

Stefano Isola intervistato da Massimo A. Cascone

 

Stefano Isola, professore ordinario di Fisica Matematica presso l’Università di Camerino. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche su temi di sistemi dinamici, probabilità, epistemologia, storia della scienza e teoria musicale, nonché di alcuni libri e saggi divulgativi di storia e critica sociale. Il suo ultimo saggio A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, Asterios Editore, è stato pubblicato nel 2023 ed ha posto le basi per questa intervista.

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