Cosa vuol dire essere donna ed essere uomo, oggi?

Comoda “false flag” del pensiero dominante, l’etichetta del “patriarcato” non aiuta a leggere correttamente una contemporaneità dai tratti complessi, abitata da uomini e donne diversi da quelli del passato. In cui il Femminile e il Maschile sono in crisi, ma per motivi del tutto nuovi.

Di Alessia Vignali per comedonchisciotte.org

 

L’ennesimo femminicidio dei nostri giorni viene letto a reti unificate come il frutto di un patriarcato da cui non ci siamo liberati. La categoria “patriarcato”, con entusiasmo re-importata da un’America per la quale è divenuta di gran voga (e in qualche regione degli USA, forse, davvero è ancora applicabile) è oggi usata a mo’ di “olofrase” per spiegare qualunque fenomeno sociale o relazionale, mentre di fatto funge da comoda “falsa bandiera” di regime per impedire un pensiero più realistico.

Sull’inadeguatezza del termine “patriarcato” per categorizzare la società di oggi si sono già espressi intellettuali del calibro di Massimo Cacciari.

In una recente intervista alla trasmissione “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber, il filosofo ricordava come la civiltà occidentale sia nata sull’idea di “patria potestas” risalente all’invasione dorica di 1500 anni fa; una “robetta” di duemila anni che durò, però, solo fino al Rinascimento, e della cui erosione si trovano tracce già in Shakespeare, dal “Re Lear” all’”Amleto”.

Col tempo questa crisi si è approfondita, l’epoca storica della famiglia borghese già segna una grave crisi della cultura patriarcale e via via si approfondisce, determinando una crisi altrettanto culturale e antropologica. Sto parlando del venire sempre meno, e con drammatica rapidità nell’ultimo periodo, del ruolo della figura maschile nella famiglia”. (…) Tragedie come quella di Giulia Cecchettin credo siano proprio il frutto, nelle personalità più deboli e fragili, del venire meno di questa loro centralità, di questa loro figura di riferimento, di questa loro legittimità”.

Verrebbe voglia di seguirlo su quest’ultima osservazione, dato che gli autori dei femminicidi si lasciano sfuggire frasi sconcertanti, dalle quali molto si evince, tranne che provengano da “maschi alfa”. A titolo di esempio citiamo la seguente, il cui autore è Alessandro Impagnitiello, assassino con 37 coltellate della fidanzata incinta, dopo aver tentato di avvelenarla:

“Il mio più grosso timore era che quel bambino potesse farmi perdere Giulia, l’esclusivo scopo del veleno era di provocare un aborto di Giulia, interrompere l’arrivo di questo bambino. Quando seppi dell’arrivo del bambino per me fu un periodo altalenante, di indecisione: l’acquisto di una casa, la difficoltà ad accettare il mio lavoro e l’arrivo di un bambino non avrebbe semplificato le cose”.

Non proprio parole da “patriarca”; piuttosto, parole da bambino.

E qui, da psicoterapeuta mi soffermerei. Gli autori di questi crimini non sono, infatti, i portatori della “maschilità tossica” di cui tanto si parla, ma soggetti rimasti all’età mentale di un infans inferiore ai tre anni. Persone che, letteralmente, non hanno una mente. Non hanno potuto apprendere la regolazione degli istinti, non hanno costruito una matrice capace di ospitare i pensieri, anzi: sono rimaste all’impossibilità di elaborare un pensiero.

Ci si dovrebbe chiedere, dunque, cos’abbia provocato non una maschilizzazione tossica, ma una grave infantilizzazione di questi soggetti, (“i più deboli”, come giustamente li chiama Cacciari), negli ultimi sessant’anni (visto che gli autori italiani dei femminicidi hanno dai sessant’anni in giù).

E occorrerebbe anche chiedersi se tale infantilizzazione della mente non riguardi un po’ tutti noi, ovviamente in minor grado. Attenzione, sto postulando una società in cui la psicopatia è diffusa, e potrei anzi produrre un titolone ad effetto, come quelli dei giornali di moda: “la psicopatia è il nuovo narcisismo!” (intendendo con questo dire che stiamo forse passando da una forma narcisistica della società a una forma diffusamente psicopatica).

Da sessant’anni circa a questa parte, l’Italia ha assistito al “miracolo economico” e, parallelamente ad esso, proprio a quell’emancipazione femminile che oggi si vuol vedere come non del tutto avvenuta. Assieme a larga parte dell’occidente abbiamo condotto la decostruzione dei ruoli sessuali tradizionali alla ricerca, da parte di uomini e donne, di un modo di relazionarsi meno dettato da norme culturali storiche e più sgombro da malate dinamiche di potere. Dopo il Sessantotto, come in maniera preveggente notò Jacques Lacan, abbiamo però riscontrato l’”evaporazione del padre” assieme al tramonto del metaforico “potere del fallo”: sono crollate tutte le valenze di quella figura “in nome della quale” erano sorte leggi, limiti, differenziazioni, gerarchie, tabù, ideali morali e “in nome della quale” si operava nel mondo, seguendone le tracce e l’esempio. La postmodernità ci ha poi portato, indicò Lyotard, il tramonto dei “grands recits”, le narrazioni che per secoli erano state trama e ordito della civiltà, avvalorando la tesi lacaniana del tramonto non solo del padre, ma di un qualunque sistema valoriale di “orientamento e devozione” a guida dell’umanità.

Già queste considerazioni basterebbero a far intuire il configurarsi di una società ben diversa da quella patriarcale, una società, semmai, fondata su valori ad essa antitetici. Mi verrebbe piuttosto, perdonatemi l’azzardo, da ipotizzare l’avvento una “ideologia matriarcale di ritorno” che, al contrario del matriarcato primigenio postulato per primo da Bachofen, ne presenti spesso i tratti “deleteri” anziché quelli pregevoli, proponendo a singoli e comunità una specie di “Grande Madre” archetipica non più arginata nel suo strapotere dalla presenza significativa di un padre (sia esso inteso in senso referenziale che metaforico).

Quello che la nostra società non rappresenta più è la valorizzazione e la possibilità per il Femminile di farsi “Madre Sufficientemente buona” capace di dare al figlio il dono del senso di sé e della vita e di consentirgli il godimento dell’”essere”, dunque il viàtico per la sua originalità e autonomia. Un Femminile, inoltre, che ami il Maschile del partner prima ancora del figlio (per non farvi pensare male, aggiungerò qui fuori tema che anche il Maschile, in un mondo ideale, dovrebbe amare il Femminile della partner prima ancora del figlio).

Per Bachofen e altri studiosi che oggi ne riprendono le tesi, le società patriarcali vigenti almeno dai tempi dell’Antico Testamento furono precedute da società matriarcali, nelle quali centro della società e della famiglia erano la donna e la madre.

Vi parlerò di Bachofen nonostante le sue tesi relative all’esistenza della ginecocrazia non siano poi state validate, perché esse costituiscono una buona introduzione al “principio femminile e a quello maschile” che affascinò generazioni e provocò il pensiero di autori del calibro di Marx ed Engels per primi.

Erich Fromm, attento lettore di Bachofen, sottolinea come per questo autore il principio matriarcale sia quello della vita, dell’unità e della pace. “La donna, prendendosi cura del bambino, estende il suo amore al di là del proprio io ad altri esseri, ed elargisce tutti i suoi doni e la sua immaginazione al fine di preservare e migliorare l’esistenza di un altro essere umano. L’istinto materno non si estende poi solo al bambino, ma si attiva anche nell’uomo adulto come sentimento sociale, come amore per l’umanità, e rappresenta una delle più importanti fonti dello sviluppo sociale.

L’amore materno costituisce la fonte da cui scaturisce ogni forma d’amore.

Per la sua qualità, esso non si identifica con la sessualità, la quale è più assimilabile all’istinto egoistico della fame. La sessualità ha più punti in comune con la crudeltà che con l’amore; la sua assimilazione all’amore è un prodotto altamente sofisticato dello sviluppo culturale”.

Per tornare al matriarcato delle origini per come postulato da Bachofen, esso si fondava interamente sulla naturale produttività della donna, sul fatto che lei sola sapeva generare la vita, il che veniva inteso come qualcosa di quasi divino. In una società relativamente primitiva, che si fondava sull’agricoltura e sull’allevamento, la sicurezza e la ricchezza non dipendono essenzialmente da fattori tecnici e razionali. La produttività della natura, cioè la fertilità del terreno, l’azione dell’acqua e del sole erano gli elementi che decidevano della vita o della morte dell’uomo. Il punto cardine dell’economia, sottolinea Fromm, è quella misteriosa forza della natura di generare da sé cose sempre nuove, di vitale importanza per l’uomo. A possedere quella misteriosa forza della natura di generare produttività naturale era soltanto la donna. Aveva quella capacità, da lei condivisa con la natura intera, da cui dipendevano la vita e l’esistenza umana.

Il matriarcato non conosceva l’istituto del matrimonio né leggi né principi né ordine: era uno stato di vita paragonabile alla crescita selvaggia della vegetazione di una palude. In base alle prove simboliche rinvenute d Bachofen, in essa vigevano la pietà, la generosità, la benevolenza. La proprietà privata era inesistente. Infine, la fratellanza e l’uguaglianza erano valorizzate, perché ogni figlio è uguale all’altro per la madre, di egual valore nella sua diversità e originalità. Gli aspetti negativi del matriarcato sono la scarsa razionalità – tutto si regge sull’istinto, non sulla ragione e sulla giustizia – e la mancanza di progresso: i tempi ciclici delle madri si ripetono sempre uguali, lo strapotere delle madri sul figlio, se non arginato, lo rende appendice sterile di lei presso il suo grembo.

Viceversa, il patriarcato instaura il governo del padre, rappresentante dei principi del diritto, della ragione, della coscienza e dell’organizzazione gerarchica. In positivo si conseguono la legge, la scienza, la civiltà, la crescita intellettuale. In negativo l’ineguaglianza: i figli non sono uguali per il padre, il padre della proprietà privata sceglie il figlio più simile a lui, il più capace e gli affida la continuità nel tempo delle sue proprietà. E poi l’oppressione e la disumanità.

A questo punto, il contributo per noi interessante di Fromm è aver introdotto il concetto di “invidia maschile della potenza generatrice femminile”, che si colloca psicologicamente alla base del crollo del sistema matriarcale e del desiderio di sottomissione della donna da parte dell’uomo, nel momento in cui trionfa un sistema economico-sociale intriso di patologia.

Egli osserva che nella società antica l’uomo si sarà sentito un menomato, privo com’era della più importante, decisiva potenzialità, la facoltà di riproduzione naturale.

L’invidia, come pure l’ammirazione, dovettero essere tanto maggiori quanto minore era il ruolo attribuito alla fecondazione, al principio maschile. Ci volle molto tempo prima che gli uomini giungessero a comprendere il nesso tra coito e gravidanza, a capire che la donna non può generare un figlio da sola, senza un intervento esterno. Nell’idea dell’Immacolata Concezione, che si ritrova in tanti miti e religioni fino al cristianesimo, si è mantenuto questo antico credo”. Vi è poi traccia del sentimento annichilente dell’invidia maschile per la creatività femminile tanto nell’Antico Testamento, nel quale è il maschile a creare anziché il femminile, quanto nell’ Enuma Elis, il mito babilonese della creazione ad esso antecedente.

Fu il ricorso alla produttività razionale, l’ingresso potente della tecnica nella vita dell’uomo a invertire la rotta e a offrire al maschio la possibilità di una “rivincita”.

Si cominciarono via via a sottovalutare sempre più i fattori naturali, così come un tempo li si era sopravvalutati. “Si attribuì allo spirito, al principio produttivo maschile, un’influenza incondizionata, illimitata.”

La millenaria “guerra tra i sessi” non poteva, dunque, che produrre oppressori ed oppressi, rivendicazioni dei vinti, e così via. Un’ideologia che nasca “in opposizione”, se non matura seri anticorpi di autocritica, reca a volte in sé un qualcosa di passivo, “lavora in difesa e non in attacco”, rimanendo succube dei valori degli ex dominanti. Un “mondo davvero nuovo” per il Femminile ed il Maschile, che dia ad essi ciò che gli spetta in termini di valorizzazione e pieno sviluppo del potenziale, è ancora al di là da venire.

La fase attuale vede la donna di nuovo al centro di forti rivendicazioni. Le leader del mondo occidentale Meloni, Schlein, Von der Leyen, Le Pen ecc. ecc. sono apparentemente testimonial del “nuovo potere al femminile”, ma quanto contribuisce davvero, questa giusta eguaglianza, all’espressione dell’ancestrale “principio femminile?”.

Dirò una cosa banale: l’attenzione della donna è andata verso la conquista di ciò che prima era dell’uomo ma non verso una posizione pienamente originale, valorizzante il suo potenziale.

Parallelamente alla parificazione che correttamente e finalmente la eguaglia al maschile,

conferendole le stesse possibilità d’autorealizzazione nel mondo del lavoro, assistiamo al sotterraneo emergere di un femminile arcaico tellurico, ctonio, tanto più pericoloso quanto più rimosso. È il “matriarcato di ritorno”, quello però negativo, di cui parlavo qui sopra. La donna rivendica amore, potere, riconoscimento e consistenza  nelle relazioni con l’uomo e con i figli, ma non sa nemmeno di farlo. Dunque lo fa male, lo fa in privato e spesso a spese dell’armonia dei rapporti.

Non ricorda più quali siano i suoi “grandi poteri”, quelli ancestrali delle Bene Jesserit, quelli delle Dee della creazione del matriarcato irenico immaginato da Bachofen. Questi poteri sono stati culturalmente svalutati e svuotati di senso, oggi più che mai, in un processo che a livello intrapsichico ed inconscio forse ancora c’entra con l’invidia maschile e con l’autoinvidia. Ecco perché la donna cerca altrove, fuori da sé, le fonti del suo potere. Così, non sarà però mai soddisfatta. Sarà magari potentissima, ma non soddisfatta.

Nel “combinato disposto” tra il pareggio con l’uomo nel mondo della razionalità, del diritto, del lavoro, della legge in cui di fatto la donna può farsi valere, e la contemporanea ’“evaporazione del maschio”, ciò che emerge tra le pareti domestiche sono talora gli  aspetti scissi di un Femminile infelice, sacrificato, avido d’amore e di vita, bisognoso di trovare un suo spazio “costi quel che costi”.

Nel quotidiano intersoggettivo delle famiglie il padre è oggi spesso assente, poiché magari  ha divorziato dalla madre, oppure poiché quando c’è è incerto sul ruolo da assumere, un ruolo maschile culturalmente non sostenuto e meno chiaro che mai.

“Lui” è in difficoltà rispetto al porre con autorevolezza al figlio regole, limiti e confini che non sono mai stati criticati e messi alla berlina come ora, dalla società. Ci si potrebbe chiedere: “perché pensi che sia il Maschile a dover porre questi limiti?” La risposta è semplice: nella vita del figlio la madre viene per prima perché lo genera; il suo amore per il figlio è “incondizionato”, motivo per cui è in difficoltà sul fornirgli dei limiti fondamentali per la vita. Il padre è un po’ quello che “viene da fuori” a interrompere la simbiosi della diade; non conosce nel profondo il figlio, può permettersi quello sguardo “da esterno” capace di vederlo nella sua finitezza, di indirizzarlo se fa errori. Solo lui può aiutarlo a diventare “bravo”, a conoscere la frustrazione delle realtà per poterla superare.

“Ma guai a essere normativi!”, secondo i parametri di oggi. Oggi il padre non riesce più a dire con serenità il famoso, sacrosanto “si fa così” al posto del “fai come ti pare”.

Degenerando nell’ipertrofia, il Femminile patologico è talvolta apparentemente generoso con il figlio, ma talmente protettivo da anticiparne i desideri, il che ne inibisce il pensiero; è inoltre una madre tanto avida di vita da sostituirsi a lui per identificazione nelle esperienze, fino a impedirgli il suo “farsele da solo, sbagliando”. Sono le madri che vanno in discoteca coi figli; ma sono, anche, i padri “mammi” o “amici” che si ubriacano con il figlio ai suoi 18 anni, privandolo così del diritto a una prima esperienza di trasgressione lontano da lui, a un’esperienza “solo sua”.

Infine, abbiamo a che fare con una donna talmente assetata d’amore, talmente deprivata di quello dei genitori e del compagno con cui ha relazioni precarie che non può che nutrirsi dell’amore del figlio per sé stessa, finendo per depotenziarlo tanto da… riassorbirlo metaforicamente nel suo stesso grembo. Ha bisogno del figlio per darsi uno statuto di potere e per sentirsi amata, ma il suo comportamento è anche una metafora di ciò che sta diventando la nostra civiltà.

Mentre nutre di oggetti e gadget, mentre seduce e tramortisce al biberon dei social, mentre promette inclusività e rimuove meritocrazie, quest’ultima depriva profondamente i suoi membri di un qualunque significato.

Tornando a chiederci “cosa sia successo” dagli anni Sessanta in poi e perché le persone oggi stiano tanto male da dover fare largo uso di psicofarmaci, droghe, alcol e siano a volte tanto psicopatiche da uccidere la donna da cui dipendono come bambini, dovremo dunque tornare a loro, le madri.

Per fare un uomo o una donna ci vuole una madre.

Ed è qui il “vulnus” primario, generatore della sequela di psicopatologie dilagante. Non c’è posto per le madri nella nostra società, nella quale esse non vengono i nemmeno capite! Debbono tornare a lavorare presto, dopo la maternità, per la loro infelicità e per quella del figlio. Non solo: per costruire una mente occorre una costante assistenza nei primi anni di vita del figlio, un “maternage” che crea la piattaforma dell’identità futura del soggetto.

In quei tre anni, dopo i quali “les jeux seront faits”, una madre che comincia a conoscere in profondità suo figlio avrà memoria di lui per lui e gli farà capire “chi è” per sempre. Lo consegnerà a sé stesso per sempre, dandogli il dono più prezioso, quello del significato della vita. Il significato della vita non si dà senza la consapevolezza di essere stati amati, dunque di essere un valore “in sé”.

Una società che non ricordi questo non potrà che produrre cittadini che si sentono traditi fin dalla culla. Questi ultimi, come da concettualizzazione del teorico psicodinamico Guido Crocetti, spesso e volentieri sviluppano la psicopatia che porta alla truffa, all’uso dell’altro, al delitto, all’inganno, alla prepotenza. Per dirla con Erich Fromm, alla necrofilia. L’esercizio del potere sull’altro, la sua sottomissione è infatti l’unico modo che un soggetto derubato di sé, che pertanto odia la vita e gli uomini, ha di rapportarsi agli altri.

In altri termini, la madre assente dei primi anni di vita non solo è infelice e sacrificata, ma non può che generare figli nella migliore delle ipotesi infelici (sentono che c’è qualcosa di più importante di loro che gliela porta via, pertanto sentono di valere molto poco!), nella peggiore profondamente malati.

Vero femminismo sarebbe lottare per ottenere il diritto civile di una maternità vivibile h. 24 per i primi tre anni di vita! Nessun bambino potrà mai sapere chi è, se affidato alle tante operatrici del nido, per quanto professionali esse siano.

Vero femminismo sarebbe pensare a dove sia sparita la donna come rappresentante della forza primigenia della natura, della realtà e non dei costrutti dell’uomo; recuperare la sua unica capacità d’amore e la sua naturale affermazione della vita; valorizzare il ruolo sacrale di sacerdotessa e guardiana dei misteri che forse ricopriva, stando a Bachofen, nella comunità primitiva.


Di Alessia Vignali per comedonchisciotte.org

23.06.2024

Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista.


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