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La Redazione

 

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Canicola

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A cura di Redazione CDC
Il 24 Luglio 2023
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Canicola

Di Alceste

Anche i migliori non sfuggivano talvolta alla tentazione di degradarsi volontariamente, di livellare le frontiere e le gerarchie, di tuffarsi in quella superficiale fanghiglia di comunanza, di intimità facile, di turpe promiscuità

Bruno Schulz, Le botteghe color cannella 

Roma, 20 luglio 2023

Caldo torrido, caldo africano, ondata di calore, Caronte, Flegetonte, Stige, fuoco, vecchi bruciati dal fuoco, l’Italia che arde, incendi, clima torrido, clima africano, rosso fuoco, picco di calore, temperature a terra, temperature record, caldo record, anomalia record, Italia bollente, bollino rosso, gran caldo, caldo boom, Fontana di Trevi, apocalisse. Fa caldo ragazzi, eccome se fa caldo. Un caldo diverso, però, assai più caldo di quello delle estati passate. A parità di temperatura, ça va sans dire.

Sì, signor giudice … confesso … lo faccio liberandomi finalmente l’anima da un peso insostenibile, e rimettendomi, al contempo, alla clemenza del Vostro giudizio  … confesso: i trentacinque gradi delle mie estati da ragazzino erano assai più fresche se confrontate coi trentacinque gradi di oggi. Purtroppo, nato e cresciuto quale plebeo, vissi nell’ ignoranza … ma ora, in attesa della condanna, severa quanto equa, perdonate una minuscola caduta nel ricordo. Si era a metà degli anni Settanta. Spensierato, come solo i bambini di allora potevano essere, senza nemmeno il sospetto della crudeltà, innocente come un uccellino, solevo sdraiarmi all’ombra, presso il balconcino della nostra cucina: in un palazzo popolare dell’infinito suburbio romano. La mattina, libero dagli impegni scolastici, che pur mi erano cari, io leggevo. Giulio Verne, non ancora Jules, fantascienza, Dracula, Frankenstein, Tex, saggi su Magellano e Cristoforo Colombo (rinvenuti nella sbrindellata e casuale biblioteca di casa), leggende cristiane, Dumas, Paperinik. Andava di moda, a quel tempo, il gioco del clik-clak, due palle di legno legate a un filo che si facevano cozzare violentemente e velocissimamente con un giuoco formidabile dei polsi. I lunghi pomeriggi, senza televisione, amavano riempirsi di tali ritmici rintocchi; dalle decine di balconi che davano sull’ampio cortile interno, sorta di salotto comune, ragazzini e adulti discorrevano amabilmente fra loro; poi, svaporate le ore più calde, ci si ritrovava fra noi, a inscenare farandole e scherzi infantili: allora, per qualche ora, tutto prendeva a risonare di schiamazzi e richiami; l’aria immobile si faceva gradatamente compassionevole; al tramonto s’avvertivano lieti i profumi della cucina: un fritto, della carne al tegame; si cenava, a volte, rinserrati come conigli, proprio su quei balconi; dopo, mentre mia madre risciacquava i piatti, amavo starmene da solo, coi gomiti appoggiati alla ringhiera scrostata. Aspettavo il consueto miracolo personale: le luci della sera. Quelle timide accensioni, una dopo l’altra, contro all’azzurrino del crepuscolo che, dolcissimamente, cedeva il campo alla notte, mi rapivano irresistibilmente, ogni volta. Soggiogato, riuscivo a dimenticare persino la fetta di melone, che mi rimaneva in mano, a mezzo sbocconcellata; l’umile spettacolo: flebili lampadine giallastre, abat-jour, soffusioni al neon, lampadari a goccia – tutto definiva le sagome di chi avevo pur visto, in pieno giorno. Ma quegli uomini e quelle donne, e i loro figli – Stefano Elisabetta Enrico Danila – mutavano, ora, in presenze nuove, fantasmatiche, seppur amiche. Un mondo sospeso, diverso; in cuor mio (ma lo compresi solo più tardi) speravo che rimanesse per sempre, gravido del dono dell’eternità. In sottofondo s’avvertiva il ronfare della città; e il pulviscolo dell’elettrico, lontano, verso il centro formicolante, da lì sfumato come un miraggio. Poi le tenebre infittivano; inaspettata, risaliva da terra una brezza fresca, a scuotere i rami dei pinastri del cortile; allora chiudevo gli occhi, a meglio goderla: il mondo era perfetto.

Nei tempi ultimi occorre divenire essenziali; farsi lontani; un sol corpo con un disprezzo totale, remoto. I lambiccamenti e la minuziosa indagine dell’attualità sfiancano, movendo al disgusto, tanto da indurre a una pericolosa equidistanza morale tra carnefici e vittime. È preferibile persino non leggere, smettere di affastellare minuzie e calembour, uscire dal flusso ininterrotto e terroristico di dati, freddure; e nozioni; e statistiche. Ecco, fatevi Amleto. La migliore riduzione cinematografica dell’Amleto (Grigorij Kozintsev, Gamlet, 1964): una sala presso il castello di Elsinore; sfarzosa, ricca di luci e d’un brusio festoso; si celebrano le nozze dell’usurpatore Claudio e della madre Gertrude; dame, e cavalieri, nobili, cortigiani e servitori inscenano i propri ruoli intrecciando dialoghi, ossequi, lazzi, blandizie, ordini: è il pulsare superficiale della vita, dal sottofondo fascinoso e lubrico; una sola figura è estranea a tutto questo, Amleto. Il principe danese, che pure non ha ancor ricevuto la rivelazione dallo spettro del padre, la sua voce del destino, la taglia obliquamente, pensoso e cupo (“Ogni cosa è contaminata“), come risucchiato da un piano d’esistenza impossibile da comprendere per chiunque; egli non vuole sapere altro, poiché già sa; e ha già deciso; il soliloquio mentale, muto; le macine della vendetta cominciano a stritolare il futuro; il padre? Solo un’occasione … fingersi pazzo? Una maschera come un’altra per affermare la verità … e ora, chi potrà fermare la strage?

La reviviscenza del mito degli zombi a Hollywood, nelle produzioni mondiali, persino le più scalcagnate … cosa significano queste orde spettrali, mutile, smagrite, depezzate, prive di fini e mai circonfuse dalla razionalità, che brancolano per città irreali di cui sopravvive solo il ricordo di una civiltà irrecuperabile; mosse esclusivamente da impulsi ciechi e ferini, incapaci di socialità, saziate solo da pasti infernali in cui si strappano brani di carne viva dai sopravvissuti? “A crowd flowed over London Bridge, so many,/I had not thought death had undone so many” annota Thomas Eliot parafrasando il passo di Dante Alighieri sugli ignavi: “dietro … venìa sì lunga tratta/di gente, ch’i’ non averei creduto/che morte tanta n’avesse disfatta”: disfatta, lat. dis-fare, corrompersi materialmente, guastarsi oppure sciogliersi, liquefarsi; o rinunciare; detto di esercito, mura, trincea. La terre guaste, la terra malata del Re Pescatore, la consunzione morale, intellettiva e carnale di una civiltà privata del Graal ovvero di ciò che le donava senso: limiti, profondità, forme, confini miliari. Le città italiane, una volta ancora in corrispondenza d’amorosi sensi con ciò che furono, sono popolate dalle prime orde incontrollate, contagiosissime: poveri e déracinées; il ritrarsi progressivo e totale del welfare, l’immigrazionismo, l’eviscerazione spaventosa dell’istruzione, il crollo repentino dell’apparato amministrativo: gruppi di ex umani disfatti, ignoranti, ottusi, mossi da bisogni primari o da aneliti di repellente stupidità (droga, chincaglieria digitale), deformi e cancerosi, con un vocabolario fàtico di cento parole, vestiti di stracci import d’infima fattura, gonfi di cibo d’ipermercato, il corpo profanato da tatuaggi, spilloni, tinture cinesi o appesantito da bigiotterie pakistane: si muovono senza una direzione, ignari del tempo e dello spazio loro concessi sulla Terra, consumando l’esistenza nella forma più bassa: a ciò li hanno ridotti i Draghi, i Monti, i supertecnici e tutta la risma dei traditori golosamente votata nei decenni, con la distrazione della sinistra e della destra, del progresso e della reazione … un esperimento di massa terrificante che ha annientato il cuore stesso della Civiltà, l’Italia, e muove guerra alle residue fonti spirituali: per devastare, solo per questo … onde rendere impossibile il ritorno all’Ordine Antico, più crudele e sensato, giustamente crudele, sommamente umano.

Le folle paradigmatiche ai funerali di Michelle Causo. I novelli revenants plebei, di cui è facile individuare minuziosamente gli scarti generazionali, si miscelano ai viziosi esponenti del vario patriziato italico: cascami del clero vaticano, gendarmi sciattoni, sottopanza della politica in camicia, operatori televisivi; e giornalisti ovvero le parodie viventi dell’intelligenza. I maschi, sudaticci e bolsi, a qualsiasi età; barbe mal fatte o mal curate, immancabili jeans, trippe, cellulari incorporati all’orecchio; solo un dirigente poliziesco, magro e distinto, giacca e occhiale da sole, vanta un certo aplomb: egli sovraintende, forse alla sicurezza; di chi, non si sa. Attorno gli si muove, scoordinata, una pletora di collaboratori in incognito: dai volti indefiniti e indefinibili, anonimi, ma con un sottofondo di arroganza: impossibili da ricondurre fisiognomicamente all’ordine poiché, almeno nell’immaginario, latori di uno sfacelo casual che nessun questore o commissario potrà mai più risanare. Le smilitarizzazioni a questo, peraltro, servirono: proprio a dissipare l’ordine; e l’identificazione delle polizie con la territorialità e il popolicchio: in vista di una loro sostituzione progressiva con mercenari privati.

I gazzettieri si muovono a gruppi; la dea centrale, in tacchi e tailleurino charmante, isterica e dalla labbra protruse a mo’ di becco di papera, causa botulino, il naso tagliato da chirurghi compiacenti, compiacenti alla pazzia, ovviamente, eccola lì … l’Artemide cavallina … a esigere gesta impossibili ai poveracci sottoposti (precari esterni prezzolati all’uopo) o a soffiare scuse nell’I-phone ai propri dirigenti (“Guarda, ho fatto tutto, non so cos’altro fare … ho beccato pure la madre … il nonno, ottimo … te lo mandano a breve … Giorgio! Giooorgiooo!! … scusa Carlo, qui si perde il timing … giooooorgioooo … ma mi vuoi rispondere? Quando arrivano i servizi a Carlo? Eh, quando … quattro minuti, tre? Sbrigati, per l’edizione, subito … nooooo, dieci … no, dieci … meno …”; altre, di minore rilevanza, si limitano a inseguire avidamente qualche proletario per farsi narrare pettegolezzi o weltanschauung straccioni (“una brava ragazza, l’ho conosciuta …”, “il mondo va così perché non ci sono più valori …”, “che te devo dì’, semo abbandonati da tutti …”). Un circo equestre senza cavalli, una sfilata in cui il cattivo gusto dei nuovi poveri, macerati da decenni nelle cloache televisive, meschinamente si rivela: la bara bianca, i palloncini a forma di M liberati verso il cielo indifferente, gli applausi ripetuti, le lacrime a comando … l’omelia del vescovo è di allucinante banalità, scipita, in-credibile … egli sbuca da un pertugio delle pareti, non annunciato, anonimo, insulso: si fa largo tra la folla; nessuno se lo fila, nonostante il codazzo pretesco sorregga vistosi labari di cui, però, ognuno ha perduto la memoria e che vengono distrattamente occhieggiati come crittogrammi alieni … “Quello che è successo parla di un mondo guasto, che brucia la giovinezza, che insegue illusioni, che non conosce quanto preziosa sia la vita …”, cicala; il tutto recitato in una chiesa nichilista, praticamente senza croci, dalle colonne squadrate di cemento grigio, in cui la luce esterna si riversa a fiotti eliminando qualsiasi soffusione … le sale comunali del Campidoglio, coi gonfaloni tarlati e stinti, hanno più tono.

Fra tutte le donne ho contato una sola gonna; le ragazzette tutte eguali, di taglia simile, le medesime couture, qualcuna graziosa seppur facile da dimenticare, hot pants, pantacollant, canottiere, scarpe ginniche … regnano il nero e il grigio … rari i verdi, impossibili da trovare i cilestrini o il rosso estivo, quei completi di panno leggero che assecondavano dolci i fianchi … i maschi vengono giù a cascata: fra loro i compagni di squadra del fratello … non parlano … sembrano collegati telepaticamente a una mente sovrana che li dirige: magrissimi, i capelli corti, rasati ai lati, magliette, pantaloncini, scarpe ginniche … formano un circolo chiuso, cupo, inetto alla comunicazione esterna, afono … antropologicamente invalicabile come il ring della figliolanza dannata di John Wyndham … non li comprendo, mai li comprenderò … mi separano da loro, più che una manciata di decenni, la distruzione della lingua comune, e di consuetudini una volta date per scontate … loro, nonostante tutto, sono il futuro, e io una leggenda enigmatica; non li riprenderemo certo con i discorsi e le intemerate, sono già lontani, prede facili delle guide del tramonto. Gli adulti sono zombi pencolanti: storpi, sdentati, frollati … il corpo sformato da enfie tumescenze di grasso che crescono a capriccio, come tumori incontrollabili … i crani afflitti da ricrescite forforose o da bisunte alopecie, braccia e gambe colorate come guerrieri pitti da fumetto … un lumpenproletariat che non aspira più alla rispettabilità piccolo borghese, ma, rassegnatosi a sé stesso, solo a trovare spicci per l’I-phone; ingovernabile ideologicamente eppure mansuefatto, ammollato dai batticarne della propaganda, pronto alla graticola, a qualsiasi graticola … i revenants accetteranno tutto per un boccone di transitor … facendosi persino usare come forza d’urto contro gli ultimi oppositori … in loro le riserve spirituali sono completamente disseccate: cinicamente si può sentenziare: sono inservibili.

Il migliore dei mondi possibili … il sol dell’avvenire … il paradiso della tecnica … da quando l’uomo si è messo in testa di migliorarsi non fa che cadere … la caduta, infatti, è degna del portatore di luce par excellence, Lux Ferens; così la dissoluzione che corre sul web.

Bill Gates vuole oscurare il sole: onde contrastare il climate change, stavolta nella veste da clown del riscaldamento globale (a corto di canicola, vengono di solito approntate le versioni autunno-inverno, declinate secondo le varie latitudini: bombe d’acqua, grandinate estreme, uragani, vortici tropicali). La verità o la logica qui non soccorrono e non devono, perciò, muoverci all’analisi. La partita, reale, viene giocata sui simboli. La solarità, intesa come definizione apollinea, dorica; il mondo della logica, della spiritualità, il fuoco: questo preme. Oscurare il sole equivale, quindi, nel loro basico linguaggio esoterico, a cancellare il tratto limpido della forma, di qualsiasi forma. Lo scontro fra mondo sublunare, flaccido, liquido, stregonesco, lunare, anarchico, hippie, democratico: quanto basta per sdoganare la feccia; e quello aristocratico, legato all’istituzione gerarchica, all’ordine, all’interiorità e alla guerra. Ma come può un imbecille di Seattle …? Lui è solo un prestanome. La terminologia usata, id est: la sceneggiatura, non è certo la sua; egli non fa che condividere i programmi ideologici di un’oligarchia che vuole soggiogare definitivamente e irreversibilmente l’umanità … quale ventriloquo parla, quindi, la lingua di Qualcun Altro … non per questo è meno pericoloso, anche perché, occorre dirlo, è nettamente più intelligente della media di chi, presuntamente, gli si oppone.

Gli eroi luminosi, da Perseo a Teseo, sconfiggono il mondo ctonio e lunare, spesso mostruoso. Essi fondano città, istituiscono rituali. Il Cristianesimo si abbevera a tali miti trasfigurandoli in una spiritualità nuova: il miglior fabbro di Dante, Arnaut Daniel, espia la colpa affinandosi nel fuoco purgatoriale (poi s’ascose nel foco che li affina); l’allievo di Dante, Thomas Eliot, contrappone il mondo del fuoco e della luce alle sordidezze della deità lunari, assimilate alle acque stagnanti, al ventre flaccido dei topi sulle rive mefitiche della città irreale: “Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione/strascicando il suo viscido ventre [slimy belly] sulla riva“. La contrapposizione strutturale fra rats e bones, tra l’umido impuro e la purezza affinata dal fuoco, il secco, sarà ritrovata dal linguista Alessandro Serpieri in larga parte dell’opera di Eliot. Non è, però, una particolare dicotomia letteraria, ma una sapienza universale da riesumare: per giudicare con equità.

Il ministro Gennaro Sangiuliano umiliato al Premio Strega da una sciocchina del PD. Giusto: venire a patti, transare ciò che si è, per salvare la capra e i cavoli, e mantenersi in bilico, senza fede, ovvero infidi o perfidi … ciò significa consegnarsi al nemico. Ma forse al ministro piace così.

Il Valdemar di Poe è tenuto artificialmente in vita dalla mesmerizzazione: quando cede l’incanto, egli patisce una liquefazione orrenda; l’uomo della folla si discioglie nell’anonimato poiché ha rinunciato alla personalità; Dorian Gray, come Valdemar, è uno zombi: cammina fra noi, ma è già disfatto; lo stesso accade a chi sussurra nelle tenebre (The whisperer in darkness), altra creatura sospesa orribilmente fra ordine e caos, così immaginata da Lovecraft, esperto sommo di dissoluzioni socio-antropologiche e metafisiche; le streghe di Machen sono risucchiate nell’Indifferenziato, come i loro paredri, disperati e dagli occhi senza luce. I Padri della Chiesa seppero prima di tutti; gl’Inglesi, però, prima di tutti sperimentarono l’orrore: furono, infatti, i primi apostati.

Necdum satiata: tale la ventenne Valeria Messalina, imperatrice, moglie di Claudio, nella sesta satira di Giovenale. Plinio, coetaneo di Valeria, narrerà di come si fece montare un’intera giornata, sfidando vittoriosamente una celebre prostituta dopo aver sostenuto venticinque assalti furiosi (“eamque nocte ac die superavit quinto atque vicensimo concubitu”). Per tale esuberanza la inserì come fenomeno sessuale nel decimo libro della Naturalis historia dedicato agli accoppiamenti ferini, tra serpenti e cammelli. Giovenale, più delicato, ne descrive la voluttà di degrado, impossibile da contenere: alcune complici le recano notizia che Claudio, più anziano di trent’anni, è addormentato; Valeria, febbricitante per incontrollabili fremiti, si alza lesta dal talamo imperiale; l’attesa deliziosa del peccato; un mantello notturno, la parrucca bionda a celarne la chioma corvina; un’ancella l’accompagna a un lupanare umido e caldo, dietro una vecchia tenda, in una “stanza vuota, riservata a lei sola”; e qui s’offre nuda, di fresco rasata, i capezzoli dorati, “facendosi chiamare Licisca, e mostrando quel ventre” che già aveva partorito il figlio Britannico, colui che mai diverrà imperatore. “Blanda riceveva chi entrasse da lei, chiedeva il suo prezzo; poi quando il lenone rimandava le ragazze, anch’essa allora partiva, ma triste, lasciando il più tardi possibile la sua stanza, ancor tutta bruciante per il prurito dell’utero teso; e ritornava alla sua casa, stancata di tanti, ma non sazia ancora [necdum satiata]; con le guance sozze, annerita dal fumo della lucerna, portava il lezzo del postribolo fin nel letto imperiale”.

Sarà Charles Baudelaire, colui che, di colpo, “farà invecchiare e retrocedere a uno stato di marginalità provinciale tutta la letteratura italiana”, genio purissimo di ogni nuance decadente, dall’ansia per le fracidezze erotiche agli afrori malsani della decomposizione morale, a celebrare l’umido mondo dei lupanari nel suo Sed non satiata:

Bizzarra divinità, bruna come le notti,
profumata di muschio misto all’avana,
opera di un qualche obi, Faust della savana,
strega dai fianchi d’ebano, figlia della notte buia,

preferisco all’oppio, alle notti, alla costanza
il liquore della tua bocca, in cui trionfa l’amore.
A te i miei desideri si volgono in carovana
e i tuoi occhi sono cisterne che dissetano i miei tormenti.

Da questi grandi occhi neri, spiragli della tua anima,
o demone impietoso, versami meno fiamme:
io non sono lo Stige che può stringerti nove volte,

e non posso, suvvia, megera libertina
per smorzare il tuo ardore e metterti alle strette
nell’inferno del tuo letto divenire Proserpina!

Leggere Horkheimer e non leggere Baudelaire … e quindi pretendere di capire la modernità … in Baudelaire, nei versi suoi di squisita turgidezza, è il segreto perfetto e conchiuso della prima decadenza occidentale. Le lusinghe della droga (oppio, liquore, vino), gli esotici profumi stordenti (muschio, avana), l’accenno al versante tenebroso della vita (notte, neri occhi) e alla frenesia del libertinaggio (l’ardore); gli stillanti umori dell’alcova (cisterne-occhi), l’estenuata consunzione del retaggio classico (Proserpina, Stige), il demoniaco; qui tutto parla di rilascio, abbandono, voluttà, sospiro; ciò che sta si discioglie in languori infiniti, dolcissimi seppur avvertiti come peccati senza ritorno.

E poi la descrizione della formicolante (fourmillante) metropoli, civitas nova del globalismo usuraio, rifondata in vista del Nuovo Ordine, ove “in pieno giorno gli spettri adescano i passanti”; Baudelaire vive in una Parigi che da città si acconcia al grande reset del prefetto della Senna Georges Haussmann. I fiori del male escono nel 1857, Haussman sventra la Parigi medioevale dal 1852 al 1867 organizzandola in lunghi boulevard per i friccichi ottusi della borghesia. Lo schema per distruggere l’antica Lutetia è il medesimo adottato per Londinium (1666): lì il fuoco, qui il piccone; il pretesto: le viuzze medioevali sono strette, malsane, insicure … l’inurbamento dalle campagne, l’industrializzazione … le solite scuse adottate anche per il climate change, a ben vedere. L’apostasia di Londra trascina il mondo: la Francia s’adegua, la colonia americana anche. Le capitali dell’Europa sacra si vendono al diavolo. L’architetto-prefetto Haussmann, nominato poi barone da Napoleone III, per i servigi (da servitore dello Stato, ovvio), vantava forse lontane origini ebraiche? Robert Moses, padrone segreto dell’architettura di New York, ebreo lo fu di sicuro. Non sapete chi è Robert Moses? Male: gli antisemiti da bar, invece di perder tempo con le figurine della Wehrmacht, si dedichino ai veri personaggi apicali della postmodernità. Gli si riveleranno nemici nuovi.

Roma, Roma mia! Sventrata anch’essa, dal lontano 1870. Già ricordai, a suo tempo, l’invettiva di Luigi Pirandello: “Roma … Roma … era un’acquasantiera, è ridotta a un portacenere”. E ora a un negozio di souvenir; non si contano, oramai, i cialtroni che sgraffignano pezzi di Colosseo … decenni di sangiuliani ci hanno confinati al ruolo di straccioni persino nell’immaginario della feccia turistica.

La per-dizione rinnova sé stessa in una voluttà insaziabile; l’Abisso reclama con crescente forza gravitazionale; le prime deformazioni, quindi la disgregazione totale. Il prezzo sale a ogni stazione di tale lubrico Golgota: 2, poi 4 … 8 … 16 … sino a trenta … denari … si cedono libbre di carne morale sempre più pesanti e sanguinose … l’orizzonte degli eventi si fa lontano, insignificante, sin a scomparire, into the void. Lo stesso Baudelaire, ne Il gusto del nulla (Le goût de néant), oggettiverà con precisione tale processo psicologico regressivo: “Spirito affranto …/per te non han più gusto né l’odio né l’amore …/L’adorabile Primavera ha per me perduto il suo odore! … valanga, vuoi portarmi con te nella rovina?” (“Avalanche, veux-tu m’emporter dans ta chute?”) ove la rinuncia, la fradicia neghittosità e l’intestina volontà di autoannientamento paiono descrivere le decolorazioni depressive dell’umanità degli ultimi giorni.

La perdizione non è che il capriccio. L’abbandono della pudicizia … 2 … la preterizione del principio di non contraddizione … 4 … fa quello che vuoi … 8 … tutto è possibile … 16 … ogni cosa: pornografia estrema, inversioni, sessualizzazione del mondo infantile, pedofilia, incesto … perché no, alla fin fine?  Perché no? La verità scacciata in nome del relativismo, la centralità in luogo dell’eccentrico, l’euritmia aborrita a favore del caos.

La frase “fa invecchiare e retrocedere a uno stato di marginalità provinciale l’intera letteratura italiana” è di Pier Paolo Pasolini, in un saggio che potrete agevolmente ritrovare in Descrizioni di descrizioni. In esso Pasolini lamenta la miserabile grettezza dell’intelligencija nostrana, più attenta alla mesata che all’arte, tutta avviluppata in minuscoli giochi di potere per sbarcare il lunario. Pasolini qui definisce la figura squallida del letterato italiano da salotto, o da riporto, già additata al disgusto da Federico Zeri nella coda in un’intervista concessa ad Antonio Debenedetti, segnalatami meritoriamente da un lettore: “L’Italia dei millecinquecento premi letterari … per cui abbiano oggi in Italia tre capolavori al giorno da leggere … lei li conosce? Però è il paese che ha fatto morire Morselli suicida … e che si era dimenticato nel cassetto il manoscritto de Il gattopardo, poi premiamo tre capolavori al giorno … libri orrendi vengono premiati … libri da vomito …”. Tutti credono di sapere chi fosse Pasolini … a sinistra in quanto santino … a destra in quanto detestabile santino … pressappoco … critico letterario d’eccezione, insuperabile annusatore della contemporaneità … cineasta rozzo e potente … mediocrissimo, tuttavia, quando sentiva in dovere di consegnarsi alla stolida contemporaneità … più per non dar uggia agli amici che per altro … l’omosessualità sadomasochista, di cui conservo testimonianze di prima mano, fu gioco dissolutorio di cui egli, per primo, avvertiva il fumus suicidario; tanto che, da ultimo, disgustato e inaridito dalla delusione, conscio della fine dei tempi, e dell’arte e della creatività italiane, imboccò la strada del martirio … la parabola intellettuale fu quella, magnificente e terribile, che individuava il più cocente disinganno … tradito e schifato da tutti, dal popolo, dal mondo patrizio, dallo Stato, dal partito, dai giovani, Pier Paolo Pasolini, in odore di nobiltà (ravennate o faentina), si recò come un Cristo del Mandrione verso l’unico destino che lo risarcisse del tradimento … come in un duello già perduto … il mare, la spiaggia, il grembo equoreo … a Ostia, ove si spense Santa Monica, mamma di Agostino; qui fu crocifisso, inevitabilmente.

Il figlio di Georg Soros, Alexander Soros, eredita dal famigerato papà venticinque miliardi di dollari. Alexander, già ragazzo scapestrato, tra feste, starlets e amici NBA, ha messo la testa a posto: pare sia evoluto un uomo d’affari modello; meticoloso, occhiuto, lungimirante. Il suo cuore batte per la libertà. La Open Foundation , infatti, organizzazione senza scopo di lucro, è per il progresso, l’enviromentalism, come la chiamano quelle popolazioni barbare. Di qui il loro appoggio a tutte le cause più avanzate e sentite da figli del popolo di tal fatta: negritudine, uranismo polimorfo, diritti green, animalismo et cetera. Poiché addirittura più radicale del papà su tali questioni, egli si pone in diretto contrasto con lo spauracchio dell’America progressista: Donald Trump. E così via. Sin qui le amabili menzogne ripetute, con minime variazioni e qualche permutazione, non degna di nota, dalle gazzette globaliste nelle loro multiformi ricadute nazional-stercorarie. Poi qualche verità: Alexander si batterà per il diritto di voto e l’aborto. Qui siamo al cuore del problema. Il diritto di voto ovvero l’inganno illuminista par excellence; e l’aborto, il taglio orizzontale fra generazioni; il taglio verticale nella famiglia; l’odio instillato nell’unica istituzione che il Potere davvero teme poiché basata su legami di sangue difficilmente distruttibili. I legami di sangue e l’amicizia che nasce dalla guerra e dallo scontro contro l’Altro: questi sono i duri macigni che i dissolutori di ogni tempo si sono  trovati di fronte. La libertà della donna, declinata come femminismo, e la pace perpetua, defecata in ambito tedesco, furono i primi grimaldelli usati per lo scasso; seguirono, a pioggia, infinite variazioni sui temi: la donna vittima, i diritti della donna, il lavoro e la donna, la donna e il divorzio, il corpo della donna, la soppressione del feto che mina i diritti della donna … e così via. E poi la pace: pacem in terris, soldato blu, i comunisti e la pace, la pace dei sensi, facciamo l’amore non facciamo la guerra, fiori nei vostri cannoni et cetera.

Come ripeto, assai noiosamente, occorre sfoltire, ridurre ai minimi termini. Non lasciatevi abbagliare dalla tumultuante attualità. La complessità, di cui amano fregiarsi alcuni falsi esegeti, è quasi sempre simulata per occultare il cuore dei problemi. Sono pifferai, a volta persino in buona fede; alcuni ventriloqui, infatti, credono addirittura alle corbellerie che dicono, non comprendendole nella loro riposta intimità. La guerra nasce dalla fede cioè dal tratto esclusivo di ognuno di noi: il contrario della globalità, della transazione con altre fedi: l’opposto della spersonalizzazione; il sangue quale unico vincolo in cui riporre senza esitazioni tale fede: di qui l’attacco al ruolo della madre. Il resto è pulviscolo. Provate a gettare sul tavolo del dibattito tali asserzioni: io sono ciò che sono e mi definisco contro l’Altro; sopprimere la propria stirpe è il più grave dei reati. Prima cercheranno di intorbidare il dibattito: voi rimanete calmi nelle vostre trincee; insistete; poi impazziranno di rabbia; resistete; vi perseguiteranno. I tempi, infatti, esigono martiri.

Leggo sul controverso periodo seguito alla caduta di Micene e chiamato, impropriamente, Medioevo Ellenico: “Lunga fase di povertà, ristagno sociale e isolamento culturale. Scomparsa della scrittura che ricomparirà nell’VIII secolo”. Anche oggi la scrittura è, di fatto, scomparsa, e con essa la memoria degli ultimi trent’anni. La dematerializzazione, in combutta con la decentralizzazione, ha aperto una voragine (der. lat. vorare, divorare) inghiottendo testimonianze e presenze di almeno due generazioni. E si continua: con i cloud, le mail, i social, le AI. Cosa resterà di tutto questo? Un pugno di cenere, nel migliore dei casi. Così vogliono, infatti. Si cancellino memoria e desiderio, pulsioni vitali verso il passato e il futuro, ci si acconci al presente, sbriciolato in attimi insulsi, osceni.

Una volta era il cinema, disciplina minore, i cui picchi, però, lambivano l’arte. Poi arrivò la massa di telefilm e sit-com, la più ciclopica opera di propaganda mai tentata. Dilatata artatamente in decine di puntate e stagioni, l’intensità drammaturgica, comica o tragica, viene a sfilacciarsi, a diluirsi in topoi sempre più triviali; la serialità cede il passo al nemico par excellence, il didascalismo; lo squallore degli inserti polcor, reiterati, con accortezze più o meno subliminali, sino a ghermire il senso stesso dell’opera, condanna ogni cosa alla rilevanza dell’attimo. Milioni di ore di girato rimarranno inservibili sino all’inevitabile dimenticanza. D’altra parte chi ricorda più i mille feuilleton dell’Ottocento i cui autori scrivevano per qualche spiccio a parola? Chi ricorda i ferri, il tavolo operatorio, gli stracci insanguinati della creazione di Frankenstein? Perché questa invasione è un esperimento; e la Creatura siete voi.

L’università, la scuola, la cultura … devono aprirsi al mondo del lavoro e della produzione, degli stakeholders, della vivacità degli attori turboglobali. Sempre più, ci si apra! E le porte si aprirono, mercé le solite riforme dei noti delinquenti apolidi. I maestri scomparvero, i diciassettenni, mutati in facchini, furono travolti dalle casse di merci inutili (se ordino il cuscino da piscina su Amazon risparmio settanta centesimi!) e le università si acconciarono a esaudire i committenti miliardari: sino in fondo, sino alla feccia, a negare il principio di non contraddizione, il secondo assioma della termodinamica e i trentacinque gradi a luglio eguali ai trentacinque di mezzo secolo fa; a negare finanche la Realtà, questa importuna bricconcella.

Brucia la Venere degli Stracci, parto di un tal Michelangelo Pistoletto. Cosa rappresenta? Nessuno lo sa veramente. La consueta vampirizzazione dell’arte tradizionale (Bertel Thorvaldsen, in tal caso) che s’accoppia a una sciocca stravaganza, gli stracci: il risultato dissacratorio (nettezza classica versus cialtroneria da arte povera) vien poi avviluppato da un’estenuante giro di chiacchiere progressiste, a giustificare l’ingiustificabile; e il brutto. A Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni, la medesima profanazione: Vita dulcis, paura e desiderio nell’impero romano. Originali classici, fra cui non poteva mancare l’ermafrodito addormentato, sbattuti frammezzo a neon e video epilettici; e copie, probabilmente in gesso o in resina, ridicolmente bruttate con cosmetici frou frou e maquillage da porno-fetish. Povero Adriano, già ridicolizzato dall’elefantessa lesbica della Yourcenar. La chiacchiera, ovviamente, la fa da padrone: “Con queste installazioni geniali gl’importanti artisti, Francesco Vezzoli e Stéphane Verger, vogliono significare …”. Importanti? Ma chi li ha mai sentiti … a occhio sembra di stare nella villa farlocco-neoclassica di un invertito miliardario di Bel Air … non c’è niente da fare, si potrebbe addirittura diventare omosessuali (pay for gay), ma ricchioni no: a me, poi, manca proprio la voluttà del kitsch, la moina del cattivo gusto, la mossetta da Ninì Tirabusciò con la tutina d’organza rosa, lo scoppio argentino della creatività isterica più stupida.

Più sai l’italiano più cose capisci. L’ortografia reca la logica. Per questo mi sto gettando a capofitto nel mio ultimo progetto: disimparare l’inglese. Aprirò corsi riabilitativi per disintossicare gli elementi ritenuti più irrecuperabili.

Noto una nuova effervescenza nei servizietti segreti italici. Fondi illimitati usati come esca per penetrare nella realtà viva di associazioni, movimenti, anche apparentemente minuti, in modo da individuare i residui elementi di valore: onde corromperli (bastano una manciata di monete: una volta accettate si entra nel gioco e non se ne esce più) o disattivarli (ricatti di varia natura: col digitale è un gioco da ragazzi inventarsi un’accusa infamante o una cartella esattoriale impagabile). Si noti, ancora una volta, l’autentica etimologia costituzionale di servizi e servitori: essi, infatti, sono al servizio; di chi? Dello Stato. Lo Stato, però, non s’identifica col popolo e men che meno con la Patria: gli Italiani, in parole povere, ne sono estranei. Essi, perciò, servono esclusivamente l’apparato statale, un’accozzaglia di ascari ben nutriti, a sua volta già infiltrato e asservito agli Usurai. Gli “uomini dello Stato”, arricchiti negli ultimi vent’anni da qualche esuberante gallina in nome del politicamente corretto, si definiscono, per questo motivo, servitori: qualora più non lo servano ciecamente o abbiano dei rimorsi verso chi gli paga lo stipendio (l’anzidetto popolicchio), vengono eliminati: incidenti d’auto e infarti sono il mezzo usuale; anche le bombe, tuttavia, possono risolvere l’increscioso problema suscitato dall’eretico di turno. Non esistono, e lo ripeto: non esistono, servizi segreti deviati o deep state o trame eversive. È tutto alla luce. L’apparato statale, molto semplicemente, si trova al servizio di Qualcun Altro: e non siamo noi.

Cosa chiedo a un interlocutore? Poche cose. Il volo d’aquila, innanzitutto. I particolari mi sono venuti a noia, così come le pedanterie filologiche. “Ecco”, faccio a un poveretto, una delle mie vittime, “spiegami …”. Oramai sono una macchietta, giro con riproduzioni e fotografie plastificate che sbatto sotto il naso di chiunque. “Voglio solo che mi spieghi … e basta … poche parole, niente rigiri … perché sino all’ultima guerra i nettasuola, i ferri per pulirsi le scarpe, erano forgiati così … e ora gli Italiani non riescono a fare a modo nemmeno una forchetta … spiegami, dai …”. Ma quello non sa spiegare. Dovrebbe rendere conto di almeno due secoli di diseducazione, e a questo sono pronti i pochissimi. “Cosa spingeva questi Italiani a perdere tempo e soldi così … dimmelo … ferro battuto, ghirigori, simmetrie … per staccare un po’ di fango dalla suola! Chissà quanto sarà costato questo oggetto, nemmeno dei più arzigogolati … in un villino secondario alle porte di Roma … quali esigenze muovevano questi uomini? Non è nemmeno questione di censo, a casa i miei pezzenti mangiavano con posate istoriate la domenica … allora? Rispondi! … Dì qualcosa …!”.

La risposta è che, nel calcolo preciso e inconfutabile che rende dignità alla vita, la Bellezza occupa una parte non più considerata: e che fa sbagliare i calcoli degli utilitaristi da salotto. La Bellezza ristora, rinfranca e, soprattutto, è pietra di giudizio per la Verità. Siamo stati dis-educati a Essa e, perciò, erriamo nei nostri giudizi. Il ponte di Genova è crollato perché brutto. Ciò che affermo sembra folle, ma si ragioni: cos’è la Bellezza (l’euritmia, la simmetria) se non il distillato esperienziale dei millenni che, istintivamente, ci fa propendere per la decenza di un comportamento e la giustezza di un’analisi o ci fa approvare immediatamente il volto della fanciulla di Petrus Christus o appagare nell’ammirazione per le proporzioni dell’arco romanico a tutto sesto? Per tale motivo il popolo minuto o i bambini, le residue e minoritarie parti incorrotte dell’umanità, non hanno bisogno di ciarlatanerie per affermare che una cosa è bella: lo avvertono a pelle, pre-sentendo nel sangue, senza parole, al di là della ciancia che costituisce, invece, il midollo dell’inganno postmoderno … Senza la Bellezza, che si esplica, a volte, in un tratto apparentemente inutile e dispersivo, ogni fatto o cosa muore. Lo sa Bergoglio, ovviamente, da scaltro nichilista. Ridurre il colonnato e la piazza di San Pietro a un immondezzaio è un piano davvero gesuitico di distruzione: transenne, barboni, turisti in mutande, dispenser, metal detector, pulotti con la trippa, vigilesse col tacco 12, laidi madonnari ebrei, baretti e tavole calde costituiscono il perfetto habitat per svilire, depauperare, lordare, imbruttire. Quanto potrà resistere l’architettura della Cristianità a fronte di tanto sfregio, si sarà chiesto, giustamente, il pontefice al contrario, fregandosi le mani? Ben poco, gli avrà risposto, ridacchiando, la sua ultima creazione, un macilento uranista suo connazionale, spolpando una bistecca di filetto sceltissimo.

A un chilometro e mezzo da San Pietro è la Pineta Sacchetti, già Pineto Torlonia. La pineta è lì da circa 1500 anni, continuamente curata e ripiantata dai vari proprietari che si sono succeduti, quasi sempre istituzioni ecclesiastiche o famiglie patrizie. Qualche settimana fa il competente verdetto di un panzone comunale: ha un anno di vita al massimo, poi seccherà completamente. Colpa del blastofago, parassita del pino. Forse è così, ma la spiegazione sa di scusa e non convince. Riformuliamo: Roma si sta liquefacendo per colpa della democrazia. Sino al 1945 la pineta era folta e in perfetto stato; l’istinto dei patrizi romani (i Colonna, i Borghese) era quello di conservare: in nome di una tradizione che doveva pur dirgli qualcosa poiché, al contempo, tutelava loro stessi e il proprio ruolo. Nel dopoguerra gli apolidi, già infiltrati, ebbero via libera: già dal 1946 si ebbero i primi tagli, poi gli appetiti e il menefreghismo degli uno-vale-uno iniziarono la lenta erosione: il blastofago è solo l’occasione, l’estremo sospiro.

Al reparto occasioni del supermercato i primi pezzi sono quelli dei pinoli siberiani: 5 euri a busta; ogni busta 200 grammi. “PREZZI BASSI”, strilla la targa delle offerte.

Di Alceste

Fonte: https://alcesteilblog.blogspot.com/2023/07/canicola.html#more

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