DI MARK LEVINE
tikkun.org
Ahed Tamimi ora è solo un numero. Solo una delle migliaia di palestinesi imprigionati illegalmente da Israele, quando siamo a metà del suo cinquantunesimo anno di occupazione. Per la precisione 6.154, 59 delle quali donne, 250 bambini, ed ora un altro. Ahed è in prigione perché ha “schiaffeggiato” un soldato israeliano che stava occupando casa sua. Poco prima, lui o un commilitone aveva sparato in testa a suo cugino con un proiettile di gomma, mandandolo in coma. Ahed, assieme a suo cugino e poi a sua madre, è uscita ed ha iniziato a gridare al soldato di andarsene, e lo ha spinto. Lui sembrava reagire. Ha continuato ad urlare e a picchiarlo ancora diverse volte, mentre sua madre filmava la scena.
Apparentemente, Ahed è una minaccia esistenziale per lo stato di Israele, e forse con ragione. I commentatori israeliani si sono infuriati per il video diventato virale, lamentandosi del modo in cui ha sbeffeggiato i soldati. Questi hanno mostrato un notevole controllo nel non picchiarla con il calcio dei propri fucili, o semplicemente nel non spararle contro. Non molto tempo dopo, è stata sequestrata dalle forze di sicurezza e da allora è stata accusata di aggressione e la sua detenzione è stata estesa. Non si sa ancora di cosa sarà accusato il soldato che ha sparato a suo cugino (e non si saprà mai). La prima volta che incontrai Ahed Tamimi è stato circa cinque anni fa, quando aveva più o meno 11 anni. Non era ancora famosa (o famigerata, a seconda dei punti di vista); era prima che il video di lei che minaccia un soldato israeliano con i suoi minuscoli pugni, senza paura e piena di rabbia, finisse su internet. Ma era già chiaro cosa sarebbe diventata: una combattente. Era un’eroina in divenire, una stella pronta a diventare una nova. Non ancora del tutto esplosa, ma era solo una questione di tempo e poi nulla avrebbe potuto fermarla. Non i suoi genitori, non il resto della sua famiglia, neanche gli israeliani, a meno che non l’avessero uccisa.
Nabi Saleh ed il Rinascimento della resistenza civile
Come tutti gli altri che vengono ad incontrare Ahed, ero nel suo villaggio, Nabi Saleh, per assistere alle manifestazioni settimanali contro l’Occupazione. Nabi Saleh è un piccolo e pittoresco villaggio nella Cisgiordania centrale, che domina una valle con un’importante sorgente. In un mondo normale, o perlomeno in uno migliore, la visiterei coi miei figli, facendo escursioni sulle colline, nuotando nella sorgente per poi finire con una bella cenetta in un ristorante a conduzione familiare. La maggior parte della Cisgiordania è così straordinariamente bella che potrebbe competere con la Svizzera sia per i panorami che per il cibo. Ma il mondo, e certamente la Cisgiordania, sono ben lungi dall’essere normali; ed al momento non vorrei portarci i miei bambini, o perlomeno non ancora. Sono troppo giovani per sperimentare ciò che Ahed e gli altri ragazzini del villaggio, e di ogni altro metro quadro di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est (per non parlare dei troppi campi profughi, da Tripoli a Yarmouk), vivono da oltre mezzo secolo.
Invece di essere un centro turistico, Nabi Saleh è un centro di resistenza, uno dei luoghi più importanti del pianeta, il sito del vero Armageddon (Meghiddo) per l’anima dell’umanità. No, non sto esagerando. In un forte articolo scritto dopo l’arresto di Ahed, Lisa Goldman scrive che Nabi Saleh è dove lei ha “perso il proprio sionismo”. È impossibile non perdere il tuo sionismo quando hai fatto esperienza di Nabi Saleh. Il male e la brutalità dell’Occupazione bruciano qualsiasi fantasia di un mitico sogno liberale sionista con cui potresti essere arrivato. Ma spero che la Goldman non abbia perso solo una parte di sé stessa. L’esperienza è ben più profonda. Perdendo il tuo sionismo, e, ad essere onesti, qualsiasi fantasia di un nazionalismo umano di qualunque etnia o credo, ti apri a qualcosa di molto più potente di un’identità etno-religiosa superata.
Nabi Saleh è stato il luogo in cui ho ritrovato la mia umanità. È diventato il battito del cuore di Sion – la Sion di Matrix, il punto di riferimento post-apocalittico per la visione di ciò che rimane dell’umanità dopo la sua distruzione. Non del sionismo esclusivista in senso nazionalistico, religioso e razziale del mondo reale. In effetti, l’unica volta in cui sento speranze quando sono in Israele o nei Territori Occupati è quando sono a Nabi Saleh o in uno degli altri centri di resistenza, dove i palestinesi, assieme ad attivisti internazionali e israeliani, lavorano assieme con un unico obiettivo: fermare l’occupazione, anche a prezzo del proprio stesso benessere e persino della vita (gli attivisti israeliani e internazionali sono stati regolarmente picchiati durante queste proteste).
Teatro della Resistenza
Insieme al villaggio di Bil’in, e più recentemente al quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, ed una mezza dozzina di altre località della Cisgiordania come Atwani e la Valle del Giordano, Nabi Saleh è stato il sito di regolari proteste contro l’occupazione per gran parte dell’ultimo decennio. Ciò che rende queste proteste così importanti è che sono diventate il banco di prova per la resistenza civile militante contro l’Occupazione. Forse lo strumento più importante lasciato ai palestinesi per contrastare (tornare indietro è un sogno lontano) l’invasione territoriale in continua espansione di Israele attraverso la maggior parte della Cisgiordania che rimane sotto il suo diretto controllo.
Uso il termine resistenza “civile” piuttosto che “non violenta” perché le proteste non sono affatto prive di violenza. Si svolgono così: ogni venerdì decine di persone si radunano al centro del villaggio, prendono i propri cartelli fatti a mano, iniziano i loro canti e marciano uniti – vecchi e giovani, palestinesi ed ebrei (della diaspora e persino israeliani), gente del posto ed “internazionali”. Si dirigono verso la zona di collina tra la cima del villaggio e la strada della valle e la sorgente in basso, che è ambìta dal vicino insediamento di Halamish (difatti, solo sei settimane fa, in ottobre, il governo israeliano ha emesso ordinanze per appropriarsi di ancor più terra del villaggio per espandere l’insediamento).
Ma quando i manifestanti si avvicinano alla cima della collina, questa, che di solito è ancora vuota, improvvisamente si riempie di soldati israeliani, in basso lungo la strada che conduce ad un vicino accampamento militare. E poi inizia la performance. I soldati dicono ai manifestanti di tornare indietro; loro si rifiutano. Minacciano di lanciare gas lacrimogeni; la gente avanza. O parte il gas lacrimogeno o alcuni dei bambini iniziano a lanciare sassi (raramente si avvicinano ai soldati, armati e completamente protetti), ma entro pochi secondi la “produzione” è in pieno svolgimento. Dico “produzione” perché Nabi Saleh è puro teatro; scegliete: teatro degli oppressi, dell’assurdo – un teatro “dialettico” o “epico”, del tipo di Piscator e Brecht, che desideravano disperatamente creare un teatro politico che potesse meglio rappresentare dal basso l’intenso fermento dell’Europa tra le due guerre.
Se è una buona giornata, nessuno si fa troppo male. La gente protesta, i bambini lanciano pietre e provocano i soldati a ben oltre 100 metri di distanza. I soldati, se non sono di cattivo umore, non scaricano dozzine di colpi di mitraglia alla volta, e qualche volta la gente arriva in fondo alla collina, dove si siede e canta a pochi metri dalla strada, mentre gli internazionali e la famiglia Tamimi fanno video e foto. Alcuni cercano di attraversare la strada per raggiungere la sorgente, cosa che accade di rado perché i soldati inevitabilmente li afferrano e li respingono. Quando qualcuno riesce a passare, è come segnare il touchdown vincente al Super Bowl.
Ad un certo punto Ahed o uno dei ragazzi più grandi si alza e va verso l’israeliano che comanda e parte con un monologo, contro l’occupazione e la sua presenza sulla sua terra, eloquente quanto uno di quelli di Martin Luther King contro le leggi Jim Crow. Ahed non ha paura, NESSUNA PAURA. I suoi capelli da soli, che da queste parti non si vedevano dai tempi di Sansone, potrebbero reggere il confronto contro uno squadrone, se non un plotone, di soldati israeliani. Penso che questi ultimi abbiano in realtà un riluttante rispetto per lei e la sua famiglia. Sono nemici, ma sanno cosa ci fanno lì, e sanno che Ahed e la sua famiglia stanno facendo esattamente quel che farebbero loro nella sua posizione, se ne avessero il coraggio.
Ma se è pomeriggio inoltrato e lo Shabbat ed il fine settimana stanno facendo capolino, le micce dei soldati diventano invariabilmente corte. Ad un certo punto, il comandante chiama o fa un segnale al padre di lei o ad un altro anziano della famiglia e fa loro capire che è ora di andare a casa, il gioco è finito. Di solito, gli adulti cercano di disperdere la folla a quel punto. Gli attivisti internazionali e gli israeliani, così come i palestinesi più anziani, di solito iniziano a risalire la collina, più o meno senza fiato per i gas lacrimogeni, e con i vestiti usurati. Uno o due potrebbero essere ingobbiti o avere grandi lividi per esser stati colpiti da proiettili di acciaio rivestiti di plastica, ma se non hanno sparato loro da distanza troppo ravvicinata, o negli occhi, la ferita non è troppo seria. I bambini restano in zona e lanciano qualche altro sasso, ma il tutto si esaurisce abbastanza presto. Solidarietà ed amore pervadono l’aria, almeno tra i difensori di Nabi Saleh. Se siete dei sognatori, in questi momenti di quiete potreste intravedere un futuro post-coloniale e post-apartheid per la Palestina/Israele. È la cosa più vicina a Selma che la maggior parte degli americani là potrebbe mai sperare di vedere, ed in questo senso è davvero come rivivere la storia. Perché Nabi Saleh è, in un certo senso, Selma.
A volte, tuttavia, gli israeliani sono di umore particolarmente cattivo, e allora si scatena l’inferno. È difficile descrivere l’esperienza di finire intrappolati in uno di questi attacchi. Più lacrimogeni di quanti si possa immaginare, proiettili di gomma, proiettili veri che sfrecciano accanto a te (e, se sei sfortunato, che finiscono dentro di te), rumori di granata che possono farti scoppiare il timpano a metri di distanza. Membri della famiglia di Ahed sono stati uccisi in questi attacchi; ad uno è saltata metà testa per una scarica di gas lacrimogeno, sparatogli da distanza ravvicinata.
Ogni anno sembra che il gas peggiori. L’ultima volta che ci sono stato lessi male il giro del vento e mi persi in una nuvola e, per la prima volta lì, mi sentivo come se stessi per morire. Il gas mi paralizzò, non potevo né respirare né muovermi, e affondai letteralmente a terra osservando la mia vita andarsene. Per fortuna, una piccola mano aprì la foschia dall’alto, mi afferrò e, con una forza che ancora non riesco a comprendere, letteralmente mi tirò su per la collina. La mano apparteneva al cugino di Ahed, Muhammad, ai tempi intorno agli 11 o 12 anni. Lo stesso Muhammad a cui hanno sparato alla testa il giorno in cui Ahed ha affrontato i soldati israeliani.
Una volta terminata la performance, la gente torna a casa, o nelle altre città della Cisgiordania, o in Israele. Altri, tra cui noi, godono il rituale della cena con i Tamimi ed una notte trascorsa a dormire sul pavimento del loro soggiorno. In questi tranquilli momenti serali, Ahed e gli altri bambini sembrano davvero ragazzini normali, ballano e giocano, parlano, imparano l’inglese con gli ospiti, quando non sono seduti pazientemente per interviste interminabili con attivisti e giornalisti. Nel frattempo, suo padre Bassem e lo zio Bilal caricano immediatamente su internet video e foto di giornata, per assicurarsi che esista una registrazione permanente delle proteste. Il più delle volte è una visione piuttosto banale, ma a volte catturano l’orrore della morte dei membri della propria famiglia.
Se sono fortunati, il sabato e l’inizio della settimana successiva sono calmi e la vita ritorna normale, almeno fino al venerdì dopo, quando ricomincia di nuovo. Ma spesso non va così liscia. Se scorrete i video sul canale YouTube di Nabi Saleh troverete innumerevoli video di incursioni di mezzanotte da parte di soldati israeliani, di attacchi con “acqua sporca” che viene spruzzata senza motivo in tutto il villaggio e persino all’interno della loro casa, di membri della famiglia che vengono trascinati via in custodia senza alcun motivo. Quasi tutti nella famiglia sono stati picchiati, arrestati e a qualcuno hanno anche sparato. Ahed e le sue coetanee, così come le donne del suo villaggio, sono di solito lasciate a combattere i soldati israeliani perché se un uomo adulto dovesse avvicinarsi verrebbe ucciso a colpi di pistola senza pensarci due volte.
Credetemi quando vi dico che non avete idea di come sia la vita per la gente di Nabi Saleh, anche se avete passato molti venerdì con loro. O per la gente di Bil’in, o la Valle del Giordano, o Jenin, o le colline di Hebron. Figurarsi Gaza. Stanno combattendo per il loro futuro, per le loro vite. Questa è la Palestina.
Mia figlia e la loro figlia
Il primo venerdì che ho passato con la famiglia Tamimi mandai a mia figlia, che all’epoca aveva circa 8 anni, una foto di Ahed, con la didascalia “Questa è la ragazza più coraggiosa che abbia mai incontrato e spero che tu diventerai come lei”. E lo dicevo convinto, anche se fino a quando Trump non è stato eletto presidente, non pensavo che avrebbe dovuto affrontare i poliziotti qui come Ahed affronta i soldati lì. La notte in cui Trump vinse le ricordai di quel messaggio e le feci sapere che avrei dovuto portarla a prepararsi a Nabi Saleh prima di quanto avessi sperato. Io non stavo scherzando e lei non stava ridendo.
Agli israeliani piace criticare il ruolo di Ahed dicendo che è una bambina impegnata nella lotta contro l’occupazione, così come hanno criticato i giovani che lanciavano pietre durante l’Intifada. Dicono che mettere i bambini in prima linea è segno che i palestinesi odiano gli israeliani più di quanto amino i propri figli. Come molti argomenti israeliani, questo sembra ragionevole fino a che non lo si analizza da un po’ più vicino. Iniziamo con l’ovvia domanda: se gli israeliani amano così tanto i loro figli, perché li mandano a fare gli occupanti, anno dopo anno, decennio dopo decennio? A sparare, arrestare, torturare ed uccidere palestinesi, tra cui migliaia di bambini? Perché vendono le anime dei propri figli per un pezzo di terra che è già abitato da qualcun altro che è lì da secoli, quando hanno già conquistato la maggior parte dei territori decenni fa?
E se gli israeliani sono così preoccupati per i bambini palestinesi, come mai danneggiano e uccidono così tanti di loro anno dopo anno? Per favore. Vorrei essere chiaro: non voglio che i miei figli siano in alcun modo vicini alla violenza e all’odio che ho visto in Israele/Palestina. Ma se fossi costretto a scegliere, manderei mia figlia a combattere contro un’occupazione brutale molto prima di quanto non la manderei a farla rispettare. Posso capire perché Bassem osservi piangendo con orgoglio mentre sua figlia diventa un leader della lotta palestinese davanti agli occhi del mondo. Quel che non riesco a capire è come gli israeliani possano vedere i loro figli arrestare, picchiare, sparare o comunque umiliare ed opprimere la famiglia di Ahed e l’intero popolo palestinese. Come avvertì Michael Lerner due decenni fa, il loro “giudaismo da coloni” è una delle più gravi minacce al giudaismo dai tempi dell’Olocausto. Se questo è il giudaismo, Hitler ha vinto. Chi non lo capisce, non sta prestando attenzione.
Non c’è modo di fermare lo spettacolo
Ma tutto ciò è fuori tema, perché nessuno sta inviando i propri figli a fare alcunché. Sono loro che vanno. Stanno crescendo nel bel mezzo di un’occupazione inimmaginabile e senza fine. Vivono senza speranza e con traumi e violenze inferiori solo a quelli di alcuni posti ancor più sventurati come Siria, Yemen, Rohingya o Nigeria orientale. L’unica speranza che hanno è quella di combattere, in qualunque modo possibile, contro l’occupazione. “Resistere è esistere”, dicono da tempo gli zapatisti (ed anche i palestinesi) – “morir para vivir” (morire per vivere). È un tema comune ovunque l’oppressione domini la terra. Come ho scritto sopra, nessuno può controllare Ahed; non quando aveva 8 anni, e non quando ne avrà 18.
I suoi genitori potrebbero incatenarla al letto, ma sono sicuro che troverebbe un modo per liberarsi. Potrebbe benissimo spezzare da sola le catene di un’occupazione di mezzo secolo se gli israeliani non stanno attenti (e lo sanno, ed è per questo che ora stanno cercando di tenerla lontano dai media). La gente la sta già immaginando come la prima vera presidentessa della Palestina. Altri si preoccupano che l’attenzione ed il clamore che le vengono rivolti siano pericolosi e destinati a ritorcersi contro. Penso che sia più probabile che lei diventi il primo Primo Ministro di Israele/Palestina; gli israeliani sarebbero fortunati ad averla.
La gente sta accusando Ahed ed i Tamimi anche di aver “messo in scena” o comunque pianificato le proprie proteste. Certo che lo fanno. È proprio questo il punto. Sanno che l’unico modo per avere una possibilità contro gli israeliani è di seguire la sceneggiatura, secondo le regole di ingaggio che ambo le parti hanno deciso di accettare. Lo script permette ai Tamimi ed ai loro sostenitori almeno di rallentare l’inesorabile acquisizione della loro terra. Gli israeliani ottengono di usare la propria relativa “moderazione” per mostrare quanto morali siano. Tranne quando sparano a suo cugino, ovviamente. E tutte le altre sparatorie, percosse, arresti e così via. Ed ora, naturalmente, l’arresto di Ahed (quando sono venuti per il cugino l’anno scorso, lei e sua madre sono state protagoniste di un altro video virale, in cui hanno afferrato il soldato e allontanato Muhammad da lui, strappandogli il passamontagna nella colluttazione).
Ahed, infine, sta subendo critiche per aver detto in un’intervista che sostiene tutte le forme di resistenza, inclusi persino gli attentati suicidi. Al momento in cui scrivo, non ho visto né sentito l’intervista in cui lei avrebbe fatto il commento, e mi è stato detto che le sue parole sono state tradotte od estrapolate dal contesto; che lei sostiene che la gente non si sarebbe dovuta sorprendere delle azioni intraprese dai palestinesi, non appoggiandone una specifica. Supponendo però che l’affermazione sia vera, io di certo non sono d’accordo e se la vedessi di nuovo glielo direi. So anche che non è affatto la posizione della sua famiglia o del villaggio. Nabi Saleh potrebbe facilmente diventare una fabbrica di kamikaze come Nablus, Jenin, Falluja o Raqqa. Ma usare tale violenza è semplicemente estraneo all’idea di resistenza civile che i Tamimi ed altri palestinesi hanno sviluppato, sanno perfettamente che è controproducente e moralmente dubbia.
Eppure anche questo commento deve essere contestualizzato prima di essere condannato, ricordando che qualunque sia il peso storico appiccicatole addosso, Ahed rimane una ragazzina che ha vissuto tutta la sua vita sotto l’Occupazione. E nonostante le innumerevoli volte in cui ha ripetuto il mantra della resistenza civile, a volte sei semplicemente troppo incazzato, a volte non riesci a restare fedele alla sceneggiatura, anche quando più o meno ci credi. Ricordiamo cosa ha ammesso l’ex primo ministro Ehud Barak durante l’Intifada di al-Aqsa: se lui fosse stato un giovane palestinese, si sarebbe unito ad un gruppo terroristico. In altre parole, non protesterebbe a Nabi Saleh; si sarebbe fatto saltare in aria a Gerusalemme o Tel Aviv già molto tempo prima.
In realtà, la famiglia Tamimi ha una lunga storia di resistenza non violenta contro un’occupazione che ha rubato la loro terra, brutalizzato la propria gente, distrutto le loro case, arrestato ed ucciso la propria famiglia. Se si vuole condannare il commento di Ahed, allora si deve condannare in modo molto più infervorato la vera violenza che l’ha causato.
Malala o Mandela?
Non molto tempo dopo il suo arresto, lo studioso Shenila Khoja-Moolji ha giustamente chiesto perché il mondo abbia mostrato un forte sostegno per Malala Yousafzai, ma non per Ahed. Entrambe sono giovani donne che hanno affrontato incredibili violenze ed oppressioni, ed entrambe condividono la stessa grinta e determinazione. Ma è anche chiaro che Ahed è una persona molto diversa, con una storia diversa. Ha sofferto meno fisicamente, perlomeno fino ad ora. E però non ha avuto il lusso di essere “salvata” dal suo ex colonizzatore. Di essere portata nel Regno Unito per le cure e per ricevere cittadinanza e premio Nobel. Di essere celebrata in tutto il mondo come simbolo di ciò che una donna musulmana può e dovrebbe essere. E, naturalmente, Malala si è opposta al nemico mortale dell’America, i talebani, mentre Ahed sta combattendo il beniamino dell’America, Israele. Finché non si capisce quanto il trattamento riservato ai palestinesi da parte di Israele rispecchi il modo in cui i talebani trattano le donne – nessun diritto, confinamento permanente a carceri sempre più piccole, violenza ed omicidi senza riguardo al diritto internazionale o alla moralità – non c’è alcuna possibilità che Ahed possa essere vista nella stessa luce di Malala.
Dio benedica Malala. Ho comprato il suo libro per mia figlia. Abbiamo visto il documentario. Spero che cresca col suo coraggio e la sua determinazione. Ma Ahed non ha questa possibilità. Lei non potrà ricominciare da zero. Probabilmente non avrà nemmeno un visto per andare nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Non venderà milioni di libri. E gli israeliani probabilmente la condanneranno per aggressione e la metteranno in prigione per anni, sperando che il mondo si dimentichi di lei. Anche se lo facessero, non la spezzeranno mai. Non sarà Malala, ma Ahed potrebbe benissimo finire per essere come Mandela. Questo diventa chiaro nel momento in cui la incontri.
Ed è nostro compito, il lavoro di ogni persona con coscienza, sostenere lei, la sua famiglia e tutti i palestinesi e i loro alleati israeliani ed internazionali. Questi combattono per un futuro in Terra Santa in cui i palestinesi possano respirare aria pura, senza lacrimogeni, acqua sporca, o odore di sangue e lacrime attorno a loro; e, cosa altrettanto importante, dove gli israeliani possano reclamare la propria umanità.
5.01.2018
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG