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Per qualche misterioso motivo, questo post mi è semplicemente sparito… ho trovato un autosalvataggio tra le bozze, mi auguro che sia la versione completa. Non sono nemmeno ben sicuro di chi fine abbiano fatto i commenti…

Siamo a Firenze, nel breve periodo in cui fu la capitale d’Italia.

Il primo ambasciatore statunitense è George Perkins Marsh, un signore che ha questo imponente aspetto ottocentesco.

Mentre attende i vari ricevimenti e frequenta i salotti, trova il tempo per scrivere un immenso libro, che si chiama The Earth as Modified by Human Action, “Il mondo modificato dall’azione umana”, in cui analizza minuziosamente l’impatto spesso devastante dell’uomo sulla terra, sull’acqua, sulla varietà di vita.

Un libro pubblicato in italiano – 643 pagie – nel 1872, da Barbera, come L’ uomo e la natura, ossia La superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, di “Giorgio P. Marsh”.

Non c’era nemmeno la luce elettrica a Firenze, l’agricoltura industriale era appena agli inizi, e in cielo volavano solo gli uccelli.

C’erano in giro ben poche delle oltre 82.000 sostanze chimiche oggi in uso nelle industrie e ormai insediatesi nei nostri ormoni.

Marsh parte dalla constatazione di come siano state devastate e spesso desertificate le più fertili terre dell’Impero Romano, dal granaio libico alla Sicilia. Ma è interessante come lui riesca a cogliere la questione fondamentale: anche se

“Non possiamo sempre distinguere tra i risultati dell’azione dell’uomo e gli effetti di cause puramente geologiche o cosmiche… anche se non siamo ancora in grado di misurare la forza dei vari elementi di disturbo, o di dire quanto si possano neutralizzare a vicenda o essere neutralizzati da influenze ancora più oscure”

sappiamo oggi, come lui sapeva già allora, che sta avvenendo un sconvolgimento planetario, e che

“la distruzione delle foreste, il prosciugamento di laghi e paludi, le operazioni dell’allevamento e dell’industria hanno indubbiamente prodotto grandi cambiamenti nella condizione igrometrica, termometrica, elettrica e chimica dell’atmosfera”.

Ci vorrebbe una schiera di studiosi delle più diverse discipline per capire quanto ci sia ancora di valido nella montagna di prove che Marsh porta a sostegno di questa tesi; ma a pensarci quello che dice è semplice buon senso, ovviamente sprecato.

Un secolo e mezzo dopo, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ha aggiunto una piccola nota a piè di pagina a queste parole, pubblicando un dossier basato su

due anni di lavoro di 91 ricercatori, provenienti da 44 Paesi, che hanno esaminato 6mila studi in materia e valutato 42mila recensioni di colleghi e governi”

in cui si afferma che se non si riesce a tenere l’aumento della temperature globali medie al di sotto di 1,5° siamo destinati a una catena montante di disastri, qualcosa di ben peggiore del caldo che abbiamo subito quest’estate.

Lo studio dell’Ipcc, secondo alcuni, avrebbe il limite di considerare solo processi lineari, senza prendere in considerazioni gli imprevedibili momenti di svolta – tipping points – di singoli processi che possono creare retroazioni positive tali da far saltare ogni previsione.

Come tutti gli studi molto pubblici di questo genere, si conclude con un “non è ancora troppo tardi”, concetto che ritrovo da anni in vari contesti (Christiana Figueres, ex-responsabile per il clima delle Nazioni Uniti, ci dà tre anni ancora).

Il momento in cui il baricentro di miliardi di fattori, in massima parte del tutto sconosciuti, slitta irrimediabilmente oltre il punto di equilibrio, non lo sappiamo noi, come non lo sapeva l’imperatore romano che visse inconsapevole un attimo analogo.

Perciò possiamo definire le scadenze che ci fanno più comodo. L’Ipcc parla di “dodici anni”, guardacaso due anni per fare qualcosa subito, più i dieci anni che ci vogliono per rendere produttivo un investimento, e quindi motivare le imprese a fare effettivamente qualcosa.

Le profezie in campi così complessi sono scommesse casuali: in fondo, pochi decenni fa, gli esperti di allora non prevedevano il cambiamento climatico, almeno non nelle forme che la preoccupazione assume oggi.

Soprattutto, il cambiamento climatico è semplicemente uno dei tanti sintomi di un unico fenomeno, i cui esiti si potevano capire anche un secolo e passa fa.

In The Crown of Wild Olive – nel lontano 1866 – John Ruskin colse uno dei meccanismi fondamentali semplicemente guardando una sontuosa cancellata di ferro davanti a una piccola e inutile rientranza che conduceva alla porta di un pub a Croydon.

La decorazione doveva attirare i passanti, ma la nicchia era piena di mozziconi di sigaro e rifiuti.

Il pub di fronte, per non farsi battere, avrebbe dovuto costruirsi una cancellata altrettanto imponente, per cui alla fine i due pub si sarebbero ritrovati al punto di partenza; a differenza del capitalista che si era arricchito scavando minerali e vendendo cancellate di ferro ai due localari.

Ma anche con tutti i limiti di studi come quello dell’Ipcc, una cosa dovrebbe essere ovvia.

Il 97% degli esperti che concordano sull’esistenza di un serio e imminente pericolo legato al riscaldamento globale causato dall’uomo potrebbero essere tutti pagati dalla lobby dei poveri che si battono contro tutto ciò che rende ricchi.

Oppure potrebbero avere sostanzialmente ragione.

Prendiamo un tema che ci ha già interessato in passato, il trasporto aereo.

L’autore Jack Miles racconta di come abbia volato, assieme a sua moglie, da Los Angeles a Casablanca per una conferenza. Facendo un po’ di conti, ha scoperto che in due avevano immesso nell’aria così la bellezza di 7,6 tonnellate di CO2: oltre cinque volte (a testa) l’impatto in termini di emissioni CO2 del consumo di carne annuo da parte dell’americano medio.

Il carbon footprint di Jack Miles e sua moglie è così passato in un solo viaggio da 15 tonnellate a 22,6 tonnellate.

Dice Miles – se tutti i sette miliardi di esseri umani avessero un impatto simile, ci troveremmo davanti a un aumento globale della temperatura di 18 gradi Celsius ogni sette anni.

Che ovviamente è una cifra un po’ di fantasia, ma ci dà un ordine di grandezza, che a pensarci stronca tutto il senso del progressismo del Novecento. Che era, più o meno “l’intera umanità deve avere accesso al livello di  consumo dell’euroamericano di ceto medio”.

E infatti, il principale ragionamento contro chi parla – ad esempio – di riscaldamento globale è, “non può essere vero, perché significa negare ai bengalesi di viaggiare in aereo“.

Jack Miles in realtà ha affrontato il problema, decidendo di non volare più lui stesso, e invitando altri a smettere anche loro.

Ma una rinuncia individual non può certo risolvere la situazione.

Un problema di quelle dimensioni dipende solo dalle decisioni politiche o dei tribunali.

Quando le questioni diventano molto grosse, prendo il microscopio e guardo in piccolo.

Qui a Firenze, come in tutta Italia, ci sono quelli che Difendono la Costituzione contro il Rinascente Fascismo, in duello contro quelli che Difendono l’Italia dall’Invasione Islamica.

Ma a minacciare di riscaldare il mondo di 18 gradi ogni sette anni, non sono né i rinascenti fascisti né gli invasivi islamici, bensì i voli in aereo.

Uno si aspetta che i politici allora dicano, bene, abbiamo pochissimo tempo, dobbiamo salvare il futuro dei nostri figli, piantiamo due alberi nel giardinetto, cerchiamo di ridurre al minimo il traffico aereo.

Vediamo come i due schieramenti fiorentini affrontano la questione dell’aeroporto: è in ballo infatti un progetto per raddoppiare il numero di passeggeri, arrivando a 4,5 milioni l’anno (con relativa impronta CO2).

Il capo di quelli che ci Difendono dal Fascismo tuona:

““Sono qui per difendere Firenze da ogni tentativo di affossamento dei progetti di sviluppo del nostro territorio, a cominciare dall’aeroporto. Giù le mani dalla città: l’aeroporto di Firenze con la pista nuova a nuovo orientamento va fatta senza se e senza ma”

Il capo di quelli che ci Difendono dagli Islamici afferma deciso:

“La popolazione vuole la nuova pista – sottolinea Stella – e se qualcuno non la vuole è sicuramente contro lo sviluppo economico e le nuove prospettive occupazionali dell’area metropolitana. Mi ha colpito lo striscione esposto dalle categorie ‘Sì all’aeroporto. Facciamo volare il nostro territorio’. Il manifatturiero ha bisogno di porte internazionali. Firenze deve essere messa nelle condizioni di crescere, non possiamo più sopportare gap infrastrutturali che frenano la ripresa”.

I due contendenti hanno ragione: devono rappresentare la maggioranza numerica della popolazione, e probabilmente la maggioranza numerica almeno di quelli che fanno votare gli altri, in città, pensa che avere cinque turisti in più nel loro ristorante valga il costo di non avere più acqua corrente tra dieci anno in casa – anzi, l’aeroporto potrebbe far comodo per importare acqua dalla Cina.

A Brescia, dove l’aeroporto serve soprattutto a scaricare merci, quelli che ci difendono dagli islamici riassumono il concetto così:

Notate che i due temi messi insieme alla buona si riferiscono entrambi a due facce dello stesso moto globale: le merci cinesi che tre volte a settimana Alibaba scarica a Brescia però vanno bene, gli africani che magari sperano di diventare scaricatori no.

Il grande motore che inesorabilmente ci spinge verso la deriva, lo riassunse molto bene sempre Ruskin:

“Whatever we have—to get more; and wherever we are—to go somewhere else.”

“Qualunque cosa abbiamo – ottenerne di più; ovunque andiamo – andare altrove”.

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