Una sindrome di Stoccolma verso il cinema mainstream ?

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DI JOE H. LESTER

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Mi chiedo come mai sia tanto attratto dal cinema, soprattutto da quello mainstream, come possa la mia sospensione dell’incredulità tollerare certi blockbuster (dalle locandine con predominanti blu e arancio) in cui magari il mostro gigante abbatte grattacieli, fa esplodere autobotti, schiacciando con noncuranza autovetture e figuranti. Un po’ mi è venuto in soccorso il simpatico Colossal di Nacho Vigalondo con Anne Hathaway. Ho preso coscienza che provo piacere nel vedere catalismi e macerie perché vorrei produrle io. A causa dei nostri traumi e delle nostre frustrazioni, ci immedesimiamo più volentieri in quel mostro distruttivo piuttosto che nello scialbo e umano protagonista di turno che alla fine risolverà la situazione. È lo stesso meccanismo per cui ancora ridiamo di Stan Laurel e Oliver Hardy, poiché oltre a castigare così la loro rigidità, non solo fisica, ma sociale (come sostiene Bergson ne Il riso), Stanlio e Ollio, anche solo nel tentativo di consegnare un pianoforte, distruggono tutto il circostante. È catartico e ci piace. Ed ecco la risposta: il cinema, come tutta la narrativa, ci attrae poiché, oltre a intrattenerci e distrarci, come il sogno ci aiuta a rielaborare le ansie del quotidiano, a esorcizzare la consapevolezza del totale non-senso dell’esistenza. Che sia uno spreco di tempo? Forzatevi a non sognare. Qualcuno non lo ricorda, ma tutti sogniamo, è un fenomeno psichico naturale, quindi si può dire che esiste un narratore nell’inconscio di ognuno di noi, in maniera simile a come intelligentemente viene rappresentato in Inside Out (regia di Pete Docter e Ronnie del Carmen), nella scena della “Dream Productions”: una vera e propria casa di produzione cinematografica interna al cervello.

Sul nostro innato bisogno di creare storie, non credo di aver bisogno di insistere; assodato l’incipit de Il mito di Sisifo (Camus), “vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”, riassumendo brutalmente Schopenhauer secondo cui la mediazione tra la Volontà di vivere priva di finalità e la Rappresentazione sarebbe possibile solo a personaggi come il santo ascetico o l’artista, mi viene in mente una recente frase di Daniel Pennac riportata nell’ultimo romanzo del ciclo di Malaussène: “Quando dalla società non ti aspetti più niente, ti resta pur sempre la creazione!”.

E in ogni caso, per i più cinici e scafati resistenti al patto finzionale tra spettatore e prodotto audiovisivo: possibile che queste “briciole per l’anima” (della pagnotta e tutto il forno sappiamo ne beneficiano le grandi major e le oligarchie che le pilotano), queste benzodiazepine sociali abbiano poi qualche effetto realmente positivo, che in fondo contengano qualcosa di buono, oltre essere soltanto intrattenimento e distrazione? O la mia è semplicemente una variante della sindrome di Stoccolma? Certo, “panem et circenses” dicevano i latini – “Panem”, guarda un po’ come l’immaginaria nazione degli Hunger Games, (il 1984 young adults) – ma è forse possibile trovare qualche messaggio anti-sistema anche nel cinema mainstream? Ci sarà mai qualche glitch realmente funzionale, posto lì consapevolmente da uno sceneggiatore o da un regista “idraulico sabotatore”, un po’ come l’Archibald “Harry” Tuttle di Robert De Niro nel fondamentale Brazil di Terry Gilliam? Che un pizzico della deontologia di Dalton Trumbo e compagni sia sopravvissuta nella categoria degli sceneggiatori statunitensi applicata persino al cinema mainstream? A mio avviso assolutamente.

Magari non servirà a nulla esplicitare certe dinamiche, poichè la società dello spettacolo assimila e digerisce ogni idea e azione tramutandole in nuovo spettacolo (uff, sì, ancora Debord), ma dannazione, almeno conforta sapere che ancora esistono i sottotesti, e che talvolta resistono proprio dentro il linguaggio che li dovrebbe rifuggere!

Mi ha sempre impressionato come alcune pellicole, dall’origine ben più che commerciale, abbiano il coraggio di raccontare una determinata scomoda verità con un’incisività che molte volte il cinema d’autore nemmeno sfiora (forse per mancanza di mezzi e possibilità). Per esempio una pietra miliare dell’immaginario collettivo, a breve sottoposta a sequel, come Mary Poppins, a ben rifletterci ha la schiettezza di proporci come vero e proprio antagonista del film la famosa e generica British Bank da cui salvare George Banks e famiglia. I cattivi = le banche. O che il superhero movie Iron Man 3 di Shane Black (regista in realtà molto raffinato, assolutamente consigliato il suo The Nice Guys) ci racconti una dinamica probabile, presentandoci Ben Kingsley nei panni de il Mandarino, villain a capo di un’organizzazione terroristica, iconograficamente un sunto dei vari spauracchi americani, Bin Laden in primis, che scopriremo (SPOILER!) essere in realtà un attore un po’ scemotto pagato per interpretare quel ruolo e fare presa sull’immaginario statunitense. Mi direte che è normale, la Disney (a cui appartengono le due proprietà sopracitate) è meta-capitalista, anzi meta-imperialista, come tutta la società dello spettacolo in fondo, ma in maniera forse più efficace: è la spietata consapevolezza di una piovra mediatica che arriva a riflettere sulla propria natura. Eppure potrei fare centinaia di esempi simili.

Dopotutto anche il grande Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, colui che ha codificato il moderno linguaggio cinematografico adottato poi da tutto l’Occidente (il montaggio verticale per dirne una), il maestro cui lo stesso governo sovietico concesse ampi finanziamenti per realizzare Ottobre (1928), pellicola commemorativa per il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, quando nel 1930 un contratto con la Paramount Pictures lo spinse fin negli Stati Uniti, pare proprio (risulta dai suoi scritti) si trovò in sintonia con Walt Disney anziché con il tematicamente più vicino Charlie Chaplin. E Ėjzenštejn era un puro su cui non si scherza, uno che per la sua arte è morto di crepacuore.

Prendiamo adesso il caso, leggermente più autoriale rispetto ad altre produzioni Disney – forse poiché distribuito dalla Fox Searchlight Pictures in procinto di essere inglobata dalla Disney – di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, diretto da Martin McDonagh (già regista dell’ottimo In Bruges), una delle pellicole favorite alla prossima notte degli Oscar, praticamente certa la statuetta come Migliore sceneggiatura originale. Cosa racconta e a chi si rivolge questo film? In una cittadina di probabili elettori di Trump, Mildred Hayes, una madre divorziata (Frances McDormand, quasi scontato il premio come Migliore attrice protagonista), dopo il brutale stupro/omicidio della figlia, prende in affitto tre cartelloni pubblicitari per affiggerci sopra dei manifesti con delle domande provocatorie (nere su sfondo rosso) dirette allo sceriffo locale Bill Willoughby (Woody Harrelson) colpevole, secondo lei, di non aver fatto abbastanza per scoprire e arrestare l’assassino.

Sapete a cosa mi hanno tanto fatto pensare quei manifesti? A tre tweet. Oppure a quelle schermate con citazioni più o meno trite che vanno di moda oggi su Facebook e sullo stato di WhatsApp. Naturalmente i manifesti metteranno in azione il meccanismo drammatico (ma anche comico) e scateneranno una spirale di violenza (e delle prese di coscienza), il tutto dal momento che vi poserà sopra gli occhi l’agente Jason Dixon interpretato da un Sam Rockwell, come si suol dire, in stato di grazia (probabile Miglior attore non protagonista), forse il vero eroe del film. Un poliziotto parecchio tardo questo Dixon, violento e con problemi legati all’alcol, razzista e omofobo, che vive ancora con la madre, ma che forse avrà il più bell’arco narrativo di tutta la vicenda. A lui il capo spiegherà che la prerogativa per diventare un buon detective è l’amore, perché attraverso l’amore arriva la calma, mentre l’odio non risolve mai niente: “Nessuno penserà che tu sia gay. E se lo faranno, arrestali per omofobia!”. Come invece è da un personaggio marginale che ricaveremo la morale di tutta la storia, dalla bella diciannovenne Penelope, fidanzata con il violento ex-marito della protagonista: una ragazza sempliciotta e attraente che per lavoro pulisce le stalle di un maneggio, una degna rappresentante di quegli elettori che nell’America profonda potrebbero essersi sentiti lasciati indietro. Sarà lei a dire al compagno e alla protagonista: “La rabbia genera solo altra rabbia”, pur non sapendo poi ben spiegare di chi sia la frase, né dove l’abbia letta, magari su un segnalibro, proprio in un libro (sul polo o sulla polio, chissà), simile alle già citate frasette che tanto va di moda mettere incorniciate sui social.

Nell’ipotesi che Three Billboards dovesse prendere qualcosa in più che il premio per la migliore sceneggiatura originale e i riconoscimenti a parte del cast, vorrà dire che Hollywood, e quindi l’entertainment statunitense, ha deciso, se non di scendere a patti con il proprio Presidente, perlomeno di parlare ai suoi elettori; certo, sempre dalla propria posizione di superiorità, ma con un’inedita (almeno recentemente) disposizione al confronto e alla comprensione. Diverso sarà se dovesse vincere Call me by your name di Luca Guadagnino, o il più probabile The shape of water di Guillermo Del Toro (l’ultimo dei tre grandi messicani a non aver ancora ricevuto la statuetta alla regia, distribuito da chi? Sempre Fox Searchlight), questione di cui però, e nel caso, si parlerà a tempo debito.

Probabilmente è anche per i succitati motivi, che la notte tra il 4 e il 5 marzo, anziché lo spoglio dei voti in Italia (vabbé, assieme dai), seguirò in diretta la cerimonia per la consegna dei premi Oscar 2018. È anche dai risultati di quel palco, piaccia o meno, e a patto di possedere i giusti anticorpi, che si possono carpire indicazioni sulle linee guida dettate alla parte di mondo che abitiamo. Se poi la mia dovesse infine risultare una semplice sindrome di Stoccolma, continuerò comunque a credere che l’unica possibilità di salvezza, anche personale, sia nell’essere e restare disobbedienti, ognuno nel proprio campo d’azione, riguardo il cinema e nel cinema stesso, un po’ come il già citato Tuttle di Brazil. Diceva François Truffaut: “ognuno nella vita ha due mestieri, il proprio e quello di critico cinematografico”. Mi sono innamorato del cinema mainstream da piccino, non lo nego, quando proprio un blockbuster mi ha spiegato che un gruppo di disadattati insofferenti alle regole può salvare New York da un’invasione di fantasmi. Un po’ quello che sosteneva Gianni Rodari nella sua Grammatica della Fantasia: “I ‘personaggi sbagliati’ del tipo anticonformista, nelle nostre storie, debbono avere successo. La loro ‘disobbedienza’, alla natura, o alla norma, dev’essere premiata. Il mondo, sono i disobbedienti che lo mandano avanti!” (Grammatica della fantasia, Gianni Rodari, Einaudi, Torino, 1973, pag. 131).

 

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

febbraio 2018

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