La descrizione della confusione è qualcosa di diverso da una descrizione confusa
Walter Benjamin
0.1. Premessa. Qual è il mio mondo?
L’opera d’arte moderna si caratterizza per la sua impostazione epistemologica, che consiste nel circoscrivere la natura e i limiti della conoscenza di un oggetto, quale parte della realtà storico sociale cui l’essere umano appartiene(1) . Pertanto, la fruizione di un romanzo moderno pone continuamente il lettore davanti a delle questioni di tipo veritativo, che vorrebbero fare luce su tali fenomeni, come i punti controversi di una morale (es. La lettera scarlatta); oppure, sulle regole di funzionamento della società (es. Madame Bovary); o ancora, riguardo la portata che un dramma storico ha impresso sulla coscienza di un popolo (es. Guerra e pace). Insomma, le domande peculiari dell’arte moderna riguardano sempre le norme che delimitano la nostra comprensione di qualcosa: Qual è la verità sull’esistenza?; oppure: Come funziona il mondo che abito?; Qual è l’etica corretta da perseguire?
L’opera post-moderna, invece, si riconosce per la sua impostazione relativistica integrale, che va a toccare la dimensione ontologica tout-court e che si interroga quindi sul fondamento dell’essere(2). Se l’arte moderna assumeva già una forma instabile, che metteva in crisi i valori tradizionali e ne misurava, in questo modo, il grado di autenticità, quella post-moderna mina la possibilità stessa di legittimare l’oggetto in quanto tale. Le trame dei racconti post-moderni sono allora dominati dalla confusione, il complotto e, in una parola, dall’incapacità da parte del lettore \ spettatore di definire gerarchie che possano indicare quando un metro di giudizio sia più necessario degli altri. Per questo motivo, non sembra un caso che le malattie psicologiche dominanti dell’epoca post-moderna siano la psicosi e la schizofrenia in contrapposizione con la moderna ma più antica nevrosi(3).
Quest’ultima, infatti, presupponeva un soggetto separato dal proprio inconscio, silenziato dall’Io per mezzo di procrastinazioni, camuffamenti e censure. Eppure, in tal caso, l’inconscio tornava nuovamente ad emergere grazie alla realizzazione di atti mancati, depressione e motti di spirito. Diverso è il discorso per la psicosi, dove l’inconscio è stato oscurato del tutto a causa di amnesie totali, scissioni persistenti, o scambi di personalità. Se il personaggio nevrotico, nonostante le difficoltà, riesce ancora a trovare la strada per incontrarsi con il piano profondo della psiche, quello psicotico avrà meno occasioni di riuscirci.
Il lettore stavolta viene messo di fronte a questioni che lo spingono a dubitare sull’essenza stessa dell’Io piuttosto che sulla correttezza della propria etica, così come di cercare una giustificazione alla realtà che lo circonda invece di carpirne il senso. Le domande appaiono più spiazzanti di quelle anteriori: Il mondo che ho davanti è reale?; e ancora: Da quale mondo provengo? Qual è il mio mondo? Non per niente, fra tutti i generi, è il giallo che si presta più spesso ad essere utilizzato per la rappresentazione del dramma post-moderno, avanzando un mistero da indagare e risolvere.
Possiamo sostenere allora che l’universo cinematografico di Lynch corrisponda a questo secondo profilo e perciò notiamo come ogni suo film esprima un multiverso costruito su più dimensioni, ciascuna con le sue regole arbitrarie, tanto che allo spettatore vengono a mancare le categorie per distinguere la differenza tra il sogno e la veglia; una prospettiva realistica ed un’altra surreale; il possibile dall’impossibile.
0.2. Realtà e fantasma in Mulholland Drive
Ad esempio, in Mulholland Drive, fino alla visita al Club Silencio, siamo convinti che i primi tre quarti della pellicola siano occupati da un racconto verosimile. Si tratta della storia di Betty Elms (Naomi Watts) che, una volta giunta a Hollywood per diventare attrice, si trasferisce nell’appartamento della zia Ruth, dove casualmente fa la conoscenza di Rita (Laura Harring). Difatti, quest’ultima, colpita da una grave amnesia a causa di un terribile incidente stradale, si è intrufolata di nascosto durante la notte nell’appartamento di Betty per riposare e trovare un rifugio temporaneo in seguito allo choc subito. La ragazza però, che all’inizio aveva creduto si trattasse di un ospite, smaschera successivamente l’intrusa grazie ad una telefonata della zia. Solo che, invece di cacciarla via, se ne innamora e decide perciò di aiutarla a recuperare la memoria insieme alla sua identità.
Tuttavia, durante l’ultimo quarto di tempo (‘1:”45 – a partire cioè dalla visita delle due donne al Club Silencio(4), fino alla fine – ‘2:”25) comincia un altro film (o metafilm) che ci conduce in una realtà alternativa dove, paradossalmente, sono mantenuti però tutti i personaggi comparsi in precedenza. Di primo acchito, facciamo molta fatica ad accettare il cambiamento repentino, tanto per cominciare, per il banale motivo che siamo ancora in attesa di conoscere il finale della trama appena osservata. Per lo meno, ci rimangono in sospeso le seguenti domande: Rita riuscirà a scoprire la propria identità?; e poi: Come finirà la relazione d’amore tra le due fanciulle?; e ancora: Betty diventerà un’attrice? Inoltre, lo spettatore si chiede perché il regista abbia deciso di proporci un’altra vicenda che, pur rimanendo simile alla prima, ne ha sovvertito i contenuti principali. Tant’è che ci sembra una digressione forzata e quindi posticcia, simile ad un’allucinazione. D’altronde, il prestigiatore che presenta lo spettacolo al Club Silencio mette in guardia il suo pubblico riguardo il nostro concetto di realtà, il quale a suo dire si rivelerebbe, altresì, una mera illusione:
“No hai banda. There is not band. Il n’est pas de orquestra. This is all a tape recording. No hai banda! And yet..we hear the band. Il n’est pas de orquestra. It is an illusion” (5)
L’uomo spiega infatti come la musica di un’orchestra possa continuare a suonare in mancanza dei musicisti (There is not band), se si tratta di una performance già registrata (This is all a tape recording). Da qui l’illusione come metafora dell’esistenza, che noi ci convinciamo sia unica e certa, nella misura in cui si presenta immanente, mentre in realtà si tratterebbe più spesso di un simulacro (It is an illusion).
Ad un secondo sguardo, però, siamo tentati di mutare nuovamente idea. Questo perché ci rendiamo conto che, semmai, sono stati i primi ”105 minuti a rappresentare la narrazione onirica, mentre sarebbe soltanto l’ultimo quarto di tempo del film (”40) la sua versione più realistica. Qui le due fanciulle sono ancora presenti come protagoniste, anche se stavolta ci appaiono con ruoli e nomi diversi. Betty è diventata Diane Sewyn, un’attrice mediocre che riesce ancora ad ottenere piccole parti ma solo grazie all’aiuto che le fornisce ogni volta Rita, sua ex amante e star del cinema, conosciuta ora però con il nome di Camilla Rhodes. Dunque, Diane appare disperata, non tanto per il suo insuccesso cinematografico, quanto piuttosto per la delusione d’amore inflittale da Camilla, che, essendo in procinto di sposare il giovane regista Adam Kescher (Justin Theroux), mentre ha intrapreso una relazione con un’altra donna (Melissa George), non si vergogna affatto di sfoggiarle la sua promiscuità.
Di conseguenza, Diane, in preda ad una gelosia fuori controllo che la rende furibonda, decide di uccidere Camilla, assoldando un sicario con il quale prende accordi in un anonimo fast food. Dal canto suo, l’uomo promette alla ragazza che, ad omicidio avvenuto, le farà avere una chiave blu come prova del fatto che la sua commissione è stata portata a termine. Così, quando Diane trova la chiave nel suo appartamento impazzisce a causa del rimorso e, per evitare il dolore, si rifugia in un sogno (o fantasma) che diventa la prima trama del film. All’interno di questo spazio surreale cercherà invano di reinventarsi la storia del suo incontro con Camilla per dare una seconda occasione al loro rapporto d’amore, oltre a diventare il luogo idealizzato dal quale sfuggire le proprie responsabilità.
Comunque, un ampio spettro di indizi, disseminati in tutta la seconda parte del film, ci fanno supporre che la visione psicotica, alla base del primo racconto, non fosse scaturita dal nulla, ma sia stata messa in piedi per mezzo di alcuni frammenti di vita reale, già presenti nella sequenza successiva. Ad esempio, anche nella parte iniziale del film compare il nome di Diane Sewyn, un personaggio in verità sconosciuto, ma che Rita, insieme a Betty, vorrebbero rintracciare per ricevere chiarimenti sulla sua identità. Solo che la coppia di complici-amanti troverà infine soltanto il suo cadavere, disteso sul letto di una camera all’interno della propria abitazione. In modo simmetrico, nella seconda ed ultima parte del film, quando Diane è in procinto di pagare l’assassino di Camilla nel fast-food, la ragazza fa attenzione al nome di “Betty” sul badge di una giovane cameriera che la sta servendo al tavolo e che inoltre, per coincidenza, le somiglia grandemente. Dunque, i nomi si travasano da un mondo all’altro come, del resto, lo faranno in seguito anche i loro personaggi.
Ebbene, giunti alla fine anche del secondo racconto, dobbiamo ricrederci di nuovo. Difatti, gli spettri inquietanti, sopraggiunti improvvisamente nell’appartamento di Diane per terrorizzarla, sono probabilmente la materializzazione di un senso di colpa che diventa per lei insopportabile, al punto da spingerla a commettere il suicidio. Va da sé che, al di là di questa ennesima allucinazione, se Betty Elms fosse davvero il doppio di Diane Sewyn, generata, come crediamo, dalla sua psicosi, anche l’ultimo atto del film, esattamente come il primo, finirebbe per violare le normali leggi di causa-effetto, proprie di una logica razionale. Questo perché, come abbiamo detto, nella prima parte Betty, accompagnata da Rita, troverà il cadavere di Diane (cioè di se stessa), chiudendo entrambe le storie in una sorta di loop privo di un inizio e di una fine. In effetti, a causa di questo esito paradossale, nulla esclude che possa essere avvenuto anche il contrario di quello che ci eravamo convinti finora. Ovvero, che il sogno in verità avrebbe fatto il suo ingresso soltanto a partire dal Club Silencio, mentre la parte precedente avrebbe rappresentato, fra le due, quella forse più realistica.
Ecco, perciò, sopraggiungere la domanda ricorrente che incalza l’opera post-moderna: Quale dei due plot è stato il più verosimile?; e ancora: Quale dei due sarebbe invece quello falso? Malgrado ciò, l’intento del regista è proprio quella di farci dubitare, allo stesso modo, di entrambe le soluzioni, per lo più riuscendoci. In conclusione, siamo incapaci di assegnare un attributo di veriticità sia all’una che all’altra trama di cui siamo stati testimoni. Oltre ciò, dovremmo chiederci per quale ragione Lynch si sia dovuto servire di una narrazione psicotica che abbia sdoppiato irrimediabilmente i due scenari cinematografici e i protagonisti che vi abitano. Di fatto, siamo colti da una confusione estrema che ci impedisce di esprimere alcun giudizio di sorta.
0.3. I segreti di Twin Peaks e il suo multiverso (1a e 2a stagione)
Anche in Twin Peaks abbiamo a che fare con più realtà dispiegate. Da una parte, la 1a e la 2a stagione ritraggono il ritratto di un tranquillo e modesto centro urbano come ce ne sono tanti altri nello stato di Washinghton. L’antropologia del luogo è composta da uomini e donne semplici, dediti al lavoro e alla cura della famiglia, antico retaggio dei padri pellegrini, come si presentano lo sceriffo Harry Truman (Michael Ontkean) e il dottor Will Hayward (Warren Forst); oppure audaci imprenditori, simbolo della sacra iniziativa privata di stampo anglosassone, come lo sono Benjamin Horne (Richard Beymer), proprietario del Great Northern Hotel, insieme al suo socio in affari, Lealand Palmer (Ray Wise).
Ma l’ambiente umile e discreto, caratteristico della provincia americana, verrà bruscamente sconvolto dal ritrovamento inaspettato del cadavere, avvolto nel celophane, di Laura Palmer, la figlia di Lealand. Il tragico assassinio di una studentessa del liceo, accompagnato da uno stupro di gruppo, getterà una macchia indelebile sulle candide routine del paese, che ben presto risulteranno agli occhi dello spettatore soltanto una chimera. Difatti, a mano a mano che le indagini cominciano a scavare in profondità il tessuto sociale di Twin Peaks, emergeranno i lati controversi e le abitudini più inconfessabili dei suoi cittadini. Perciò, scopriamo ad esempio che Benjamin Horne è anche il gestore del One-eyed-Jack, una casa chiusa che si trova subito dopo aver oltrepassato la frontiera col Canada.
Essendo funzionali all’ospitalità e all’intrattenimento, potremmo sostenere che il Great Northern Hotel sia, in un certo senso, speculare all’One-eyed-Jack. L’albergo è molto rinomato e possiede una sua precisa collocazione spaziale, mentre il bordello si trova sperduto in mezzo al nulla dei boschi canadesi, e quindi introduce ad una meta-realtà simbolicamente posta tra due confini, non solo fisici, che lo rendono indeterminabile, al di fuori di criteri misurabili e razionali. Entrambi i posti, poi, rappresentano un punto di incontro di una moltitudine di visitatori che apre a digressioni di racconti secondari, con i quali si mettono in evidenza, in modo incrociato, le vite dissolute, ma camuffate, di alcuni personaggi chiave di questa storia. Da notare infine come, similmente al Club Silencio, l’ambiente interno della casa chiusa sia occupato dalle tende e dai tappeti di colore rosso che alludono all’immagine dell’eros e della pulsione, elementi distintivi dell’Es, ovvero degli istinti più irrazionali.
Si osserverà che Twin Peaks assomiglia così ad uno scrigno pieno di verità buie, tenute gelosamente nascoste dai suoi abitanti, oppure, come accade in Mulholland Drive, completamente rimosse. Pensiamo alla figura di Lealand che, più di tutti, vive una condizione scissa molto simile a quella subita da Diane Sewyn. Di giorno, infatti, sembra un padre premuroso e un affabile uomo d’affari, mentre di notte viene pervaso da un desiderio di promiscuità oscena e priva di limiti che, anche in questo frangente, lo vede complice di Horne nelle sue avventure lascive. Lealand, poi, è direttamente coinvolto, sia nel traffico della prostituzione insieme a Jaques Renault (Walter Olkewicz), che provvede all’adescamento di ragazze minorenni da reclutare per il One-eyed-Jack; sia con quello della droga, gestito dal camionista Leo Johnson (Eric DaRe). Il lato più oscuro di Leladnd risiede ovviamente però nel suo desiderio incestuoso e sadico nei confronti della figlia, Laura, che da alcuni anni è stato costretto a reprimere, almeno fino al momento, non più procrastinabile, del suo assassinio. Cioè, quando Laura (creatura sensitiva e di passaggio fra due mondi per eccellenza) riesce a scrutare lo spirito maligno di Bob (Frank Silva), che si cela dietro le sembianze a prima vista innocue del padre. Il punto è che Lealand, come Diane, soffre di un disordine mentale inconsapevole che separa la sua zona di luce da quella d’ombra, quest’ultima dominata del tutto da Bob. Non a caso, l’uomo ha davvero cancellato dalla coscienza l’omicidio della figlia. Tant’è che, nel primo episodio della 1a stagione, scoppierà a piangere all’improvviso, e in buona fede, non appena riceverà la telefonata di Truman, che gli annuncia la morte di Laura mentre solo un attimo prima lo avevamo visto impegnato, con tutta tranquillità, a concludere alcuni affari con dei turisti norvegesi al Great Northern Hotel.
Al di fuori di Twin Peaks (con le sue varie stratificazioni di vissuto quotidiano) si colloca la Loggia che, a sua volta, si divide in Rossa e in Nera, l’una positiva e l’altra negativa. Sebbene occupi una posizione metafisica, dunque al di sopra della sfera terrena, può essere tuttavia fisicamente raggiunta attraverso una porta d’ingresso che compare solo attraverso particolari rituali esoterici e coordinate astronomiche, coperte da segreti militari, nei meandri della foresta sorta intorno a questa cittadina. La foresta viene raffigurata per mezzo di un’atmosfera torbida, proprio con l’intento di conferirle una connotazione mistica, che contribuisce a renderla una zona impervia come, metaforicamente, rimane ostica la via per accedere al nostro inconscio. In realtà, come avverrà successivamente in Mulholland Drive, anche adesso assistiamo ad un’osmosi continua tra la vita ordinaria di paese e quella surreale della Loggia. Difatti, la Loggia Nera, popolata dai demoni di Bob e di Judy, non è altro che il polo speculare di una follia squisitamente umana, la cui morale perbenista corrisponde ad un mero feticcio vuoto: ovvero, ad un insieme di costumi che, progressivamente, apprendiamo essere ipocriti e, perciò, molto più falsi degli incantesimi che vanno a costituire la dimensione onirica degli altri luoghi ancestrali. D’altra parte, Twin Peaks è abitato anche da personaggi genuini, tra i quali vi ricordiamo il giovane motociclista, innamorato di Laura Palmer, James Hurley; così come lo sceriffo, Henry Truman; insieme all’assistente capo di origine indiana, Hawk, e gli altri suoi collaboratori. Si tratta delle figure corrispettive di alcuni spiriti guida, come lo sono il gigante buono, detto “Il fuochista”, e Mike, conosciuto anche con il nome del “L’uomo senza un braccio”, la cui dimora, al contrario, si trova nella Loggia Rossa.
Se prestiamo loro attenzione, noteremo che le creature di Lynch appaiono sempre decontestualizzate nei confronti dell’ambiente dal quale provengono, non appartenendo mai ad un mondo unico e preciso ma contemporaneamente a molti. Trovandosi fuori contesto, risultano allora sfuggenti ed inquiete. Le potremmo definire anche “esseri di mezzo”, posti al confine tra due o più universi che, agli occhi dello spettatore, acquistano pari dignità di esistenza oggettiva rispetto alle persone reali. Oppure, viceversa, uomini e spiriti finiscono per essere percepiti entrambi evanescenti.
0.4. Il ritorno di Dale Cooper con i suoi doppi: Dougie Jones e Bob (3a stagione)
L’esempio più riuscito di questo artificio narrativo è senz’altro l’agente speciale dell’FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan) quando, nella 3a stagione, ritorna in scena come un sonnambulo, incapace di risvegliarsi nel momento in cui gli è stato ordinato di lasciare la Loggia Rossa per fare la sua comparsa nella città di Las Vegas. Qui, avendo preso il posto del suo doppio, Dougie Jones (un comune assicuratore sposato e con un figlio), Cooper dovrebbe riprendere coscienza di sé per sconfiggere Bob e mettere in salvo Laura Palmer da Judy prima che sia troppo tardi. La fanciulla infatti sarebbe ancora viva sebbene, verremo a sapere in seguito, si trovi in un’altra dimensione rispetto a quella descritta dalla trama originale. Dunque, attraverso la tecnica dello sdoppiamento, Lynch innesca un effetto paradossale, secondo cui l’ispettore dell’FBI, lucido e cosciente nell’universo fantastico della Loggia, resta invece addormentato e incosciente quando sostituisce Dougie a Las Vegas: ovvero, proprio in quella zona di mondo che il pubblico considererebbe una realtà certa e concreta.
D’altronde, anche Bob, venticinque anni prima, aveva assunto le sembianze di Cooper, quando il suo spirito era riuscito a possedere il corpo dell’ispettore, subito dopo la pratica di esorcismo che aveva coinvolto Leland Palmer, durante lo scontro finale con le forze del male che avevano chiuso la 2a stagione della serie televisiva.
Questo secondo sdoppiamento realizza un ennesimo corto-circuito, intorno stavolta alla stessa natura ambigua del protagonista che, alla stregua di un moderno Dr. Jekyll e Mr. Hyde, si presenta simultaneamente nella sua versione malvagia. Così, mentre il Dale Cooper oscuro, 25 anni dopo la 2a stagione, veste ora i panni di uno spietato boss alla testa di alcuni criminali, il Dale Cooper chiaro è tornato sulla Terra proprio con lo scopo di fermarlo.
Come accade in Mulholland Drive, anche nella 3a stagione, la telecamera di Lynch applica un filtro sui fenomeni esterni, così registrati dai sensi nella loro forma apparente, mentre sono separati fra loro, e che corrispondono a quelli percepiti normalmente dallo spettatore durante la sua attenzione diurna. Detto altrimenti, la luce e l’ombra di Cooper vengono ripartite in due personaggi distinti solo a causa di un’illusione ottica che starebbe lì a deformare l’immagine di un intero capace, al contrario, di comprenderle insieme all’interno di un’unica persona. Insomma, Dale Cooper è, allo stesso tempo, anche il suo antagonista Bob il quale, tuttavia, ne rimane affrancato per rendere tale circostanza più comprensibile alla mente dell’osservatore e soprattutto affinché si faccia più accettabile in relazione alla sua morale. Perciò, Cooper non è altro che il Sé diviso e rappresenta il conflitto non risolto dell’animo umano che ingaggia una dura lotta, prima di tutto, contro se stesso per trovare un senso alla sua vita.
0.5. Delirio psicotico come rimozione o forma conoscitiva?
Allora, il delirio psicotico, finora indagato, possiede una doppia valenza, che implica, nello stesso tempo, sia una potenza destrutturante delle normali istanze razionali, in quanto strumento di rimozione di immagini diurne ingannevoli; sia una facoltà conoscitiva inconscia in grado di connettere le sottostanti realtà notturne più veritiere. Potremmo sostenere che la ricostruzione delle identità dei personaggi e degli ambienti, impressi nella telecamera del regista, sarebbe simile a quella che coinvolge il funzionamento della vista umana, oppure delle vecchie macchine fotografiche manuali. Infatti, i nostri occhi catturano due immagini rovesciate di uno stesso oggetto che permettono di scrutarlo da più angolature diverse (es: Betty \ Diene; Lealand \ Bob; Cooper \ Bob). Eppure, tale procedimento è solo un pretesto per semplificare una realtà sempre duale, o più articolata, proprio perché sappiamo come, in un secondo momento, sarà compito del cervello quello di sovrapporle nuovamente in un’unica figura. Dunque, come nella sua fase immediata, la vista rimane incapace di restituire all’oggetto la sua totalità, lo stesso discorso vale per lo psicotico, i cui pensieri sono tenuti distanti a causa di una censura prodotta dall’Io, che ne rimuove gli aspetti indicibili e ripugnanti. In condizioni normali, nessuno si sognerebbe mai di accettare come l’amore possa proporsi insieme al sentimento opposto dell’odio, e che tali emozioni scaturiscano, in verità, da un’unica logica, per quanto contraddittoria.
Ad esempio, in Mulholland Drive, Diane Sewyn ha rifiutato di riconoscere questa verità, rivelatasi ingestibile e assurda. Tanto meno, è stata capace di accoglierla in sé come propria zona d’ombra, così che, per rimuoverla, si è trovata a sostituirla con un’altra. Nonostante ciò, quest’ultima ha continuato a mantenere (sia pur travestendoli) alcuni nessi che la tenevano ancora legata all’universo originale. Inoltre, Diane, in questo modo, si è procurata la possibilità di sublimare il sentimento che provava per Camilla attraverso la fantasia di una relazione più autentica rispetto a quella distruttiva che stava subendo nell’ambito della vita quotidiana. Per cui, la dimensione onirica non ha solo dato luogo ad una reazione fantasmatica (quindi irreale), ma anche a quella che le ha permesso, almeno per un attimo, di ripensare sé stessa nel modo in cui avrebbe voluto esistere. Perciò, Diane, con il suo reale desiderio di vivere una relazione d’amore che sia davvero appagante, scevra quindi di cinismo e di finzione, riesce a colmare, per questa via, la mancanza di uno scambio affettivo, del tutto assente nell’universo dal quale proveniva.
Se la Loggia è fatta di illusioni ma, nei suoi presupposti, viene mossa dalla ricerca della luce, anche l’allucinazione psicotica, a tratti, introduce circostanze più reali di quelle effimere che descrivono il mondo superficiale e perverso di Hollywood, disvelato nella seconda ed ultima parte del film. Alla luce dei fatti, rimane alquanto difficile, ogni volta, stabilire quale trama sia falsa e quale invece risulti essere quella più vera. Semmai, entrambe dimostrano di contenere elementi altrettanto vuoti quanto autentici, gli uni rispetto agli altri. L’ambiguità è ovviamente rafforzata da una cornice del racconto circolare che, come si è visto, sovverte l’ordine temporale degli accadimenti, mischiandoli fra loro nello stesso modo in cui i personaggi di Betty e di Rita, ad un certo punto, si sono sostituiti a quelli di Diane e di Camilla.
Tuttavia, è possibile ottenere un risultato del genere solo nel momento in cui si riescono ad abbassare le difese di un Io ingombrante che impedisce di acquisire l’immagine della persona intera. Tanto che le scene più surreali dei film di Lynch sono quelle girate durante la notte, quando l’Ego rimane più vulnerabile e allenta la sua morsa sugli eventi contro cui si imbatte, fornendo così ai suoi personaggi l’occasione di trasmigrare da un mondo all’altro. L’evento, già osservato in Twin Peaks, quando dalla foresta si trova un varco per entrare nella Loggia, si riscontra anche qui, proprio la notte in cui Betty e Rita si sono recate ad assistere lo spettacolo canoro svoltosi presso il Club Silencio: nome che sembra alludere alla necessità, appunto, di imbavagliare l’Io con i suoi ridondanti sproloqui. Si tratta dell’unica scena di Mulholland Drive dove la dimensione onirica sconfina direttamente in quella della veglia, una volta che le barriere tra queste due realtà si sono dissipate al punto da essere ora più facilmente valicabili. In questo luogo recondito Betty può riconoscersi di nuovo nel suo doppio diurno (Diane) mentre ascolta la canzone Jorando (6) (Piangendo) della latina Rebekah del Rio, che permette infine di restituire la parola al suo inconscio delirante, da lei così scrupolosamente ignorato.
La donna, dunque, ha preferito abbracciare la psicosi di un racconto fantasmatico, che l’ha tramutata nel personaggio di Betty, piuttosto che accogliere il dolore dentro di sé, a causa dell’amore non corrisposto di Camilla, temporaneamente trasfigurata nella persona di Rita, collocata al suo fianco sugli spalti del teatro. Difatti, è grazie ad una ritrovata connessione tra l’Io e l’inconscio (qui raffigurato spazialmente con il Club Silencio) che lo psicotico può collegare di nuovo le sue zone più oscure, portatrici di un oggetto scabroso, con quelle della luce, che godono invece del pieno rispetto da parte del Sé. Se ci pensiamo bene, le tende rosse del teatro Silencio corrispondono in Twin Peaks a quelle della Loggia, simbolicamente predisposta (nella fiction televisiva) ad oggettivare la sfera inconscia dei suoi personaggi, oltre a corrispondere a quelle ravvisate nelle camere licenziose del One-eyed-Jack che, come abbiamo visto, rimandano all’Es.
0.6. Conclusione. Il film come allegoria della via d’accesso all’inconscio
Pertanto, le scene grottesche che osserviamo nei film di Lynch servono a mettere a fuoco i limiti di mondi fittizi che pretendono di legittimare la loro presenza sulla base di assiomi che sono generalmente ritenuti ineccepibili, ma solo in quanto prodotti dalla lente strabica dell’Io. In altri termini, l’effetto straniante, dovuto ai continui sdoppiamenti dei personaggi principali, ha la funzione di deturpare quelle immagini apparentemente ordinarie per ostentarne invece l’artificio che vorrebbe nascondere come sono fatte realmente. Se, in circostanze normali, infatti, attribuiremo senza esitazioni di sorta lo stato di certezza a ciò che abbiamo imparato a giudicare reale e autentico, adesso, a causa di questo rovesciamento continuo dei ruoli rispetto alla loro identità e ai rispettivi contesti, diveniamo confusi, tanto da fermarci a riconsiderare quei confini che abbiamo imposto ingiustamente a noi stessi e agli altri, fino al punto di sovvertirli e, in una parola, a demistificarli.
Giunti a questo punto, prima di cominciare ad entrare nei dettagli, mi auguro che con il presente lavoro si possa partire, almeno, dal segnalare un utile criterio di lettura: cioè che, per l’autore, niente, nemmeno quella che noi, senza ombra di dubbio, siamo abituati a definire una realtà ovvia, rimane ciò che sembra e, men che meno, sarebbe in grado di apparire come una garanzia di alcun ché. Semmai, l’indicazione del regista sembra proprio essere che nulla si dovrà dare più per scontato come prima. I suoi film consistono in un’opera di incessante de-naturalizzazione della semiotica condivisa dal discorso comune col fine di neutralizzare il nostro consueto giudizio di valore. Si tratterà di una destrutturazione degli universi che abitiamo e sogniamo, imprigionati nelle nostre ossessioni, con l’intento, a volte, di metterne in evidenza l’illusione; mentre altre, per integrare i loro lati indecenti, ma autentici, che siamo restii ad accettare, all’interno di una nostra rinnovata consapevolezza. Ciò che dovrebbe permetterci di venire a contatto con una zona di confine che, per dirla con Lacan, l’Io non sarebbe più in grado di significare entro i suoi spazi angusti, conosciuti anche con il nome di fantasmi.
Eppure, dobbiamo anche sottolineare che la disgregazione dei punti di vista non sembra perseguire lo scopo di una semplice fuga volta ad inficiare qualsiasi sforzo interpretativo che provenga dallo spettatore, per consegnarlo così, definitivamente, nelle mani di un relativismo assoluto. Al contrario, siamo convinti che Lynch si avvalga piuttosto di un principio estetico cardine, formulato molto tempo indietro dal filosofo Walter Benjamin, quando ci spiegava l’apparente incomunicabilità dell’arte espressionista tedesca, durante gli anni ’30 del secolo scorso, per cui:
“La descrizione della confusione è qualcosa di diverso da una descrizione confusa” . (7)
Ciò vorrebbe dire che l’idea dell’autore sia quella di realizzare un cinema difficile ma mai indecifrabile. Anzi, possiamo dire che ogni suo racconto si risolvi in realtà sempre nella medesima trama. Ovvero, rappresenta l’allegoria del percorso tortuoso che compiono i suoi protagonisti per cercare di raggiungere una via d’accesso al proprio inconscio (è indifferente che coincida con la Loggia o il Club Silencio): un’impresa rispetto alla quale a noi del pubblico spetta il compito di ricoprire la parte di un testimone attivo, in grado di concludere tale parabola, là dove loro non vi riescano.
In ultima analisi, siamo in presenza di un’operazione volta ad emanciparci da simulacri convenzionali, provenienti, sia dalla tradizione cinematografica, sia dalla vita quotidiana, edificate su di una sovrabbondante e stereotipata cultura di massa, per spingerci ad esprimere un’interpretazione che, al contrario, desideri essere autenticamente soggettiva.
Di Jacopo D’Alessio per ComeDonChisciotte.org
NOTE
1 Ceserani, R., Raccontare il postmoderno, Torino:1997; Bollati Boringhieri.
2 Ibid.
3 Recalcati, M., L’uomo senza inconscio – Figure della nuova clinica psicanalitica, Milano: 2010; Raffaello Cortina Editore.
4 https://www.youtube.com/watch?v=UfUjSoWB-Sk “Non c’è un’orchesta. Si tratta solo di una registrazione. E’ un’illusione”, cit. in Mulholland Drive, 1996.
5 https://www.youtube.com/watch?v=6wCfI2Czhjc, ibid.
6 del Rio, R., “Yo estaba bien por un tiempo \ Volviendo a sonreír \ Luego anoche te vi \ Tu mano me tocó \ Y el saludo
de tu voz \ Y hablé muy bien \ Y tú sin saber \ Que he estado \ Llorando por tu amor \ Llorando por tu amor \ Luego
de tu adiós \ Sentí todo mi dolor \ Sola y llorando, llorando, llorando \ No es fácil de entender \ Que al verte otra
vez \ Yo esté llorando \ Yo que pensé que te olvidé \ Pero es verdad, es la verdad \ Que te quiero aun más \ Mucho
más que ayer \ Dime tú que puedo hacer \ ¿No me quieres ya? \ Y siempre estaré \ Llorando por tu amor \ Llorando
por tu amor \ Tu amor se llevó \ Todo mi corazón \ Y quedo llorando, llorando, llorando, llorando \ Por tu amor”,
testo della canzone llorando.
“Per un po’ stavo bene \ Sorridevo di nuovo \ Poi ieri sera ti ho vista \ La tua mano mi ha toccato \ E il saluto
della tua voce \ E ho parlato molto bene \ E tu senza sapere \ Che sono stata \ a piangere per il tuo amore \
Piangendo per il tuo amore \ Dopo il tuo addio \ Ho sentito tutto il mio dolore \ E solo piangevo, piangevo,
piangevo \ Non è facile da capire \ Che a rivederti \ sto piangendo \ credevo di dimenticarti \ ma è vero, è vero \ ti
amo ancora di più \ molto più di ieri \ Dimmi cosa posso fare \ non mi ami più? \ E starò sempre \ a piangere per il
tuo amore \ Piangerò per il tuo amore \ Il tuo amore ha portato via \ Tutto il mio cuore \ E rimango a piangere,
piangere, piangere, piangere \ Per il tuo amore”, testo tradotto della canzone Piangendo.
7 Benjamin, W., cit. in Parco centrale, in Angelus Novus, Torino: 2006; Einaudi.
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Articolo pubblicato da Giulio Bona per ComeDonChisciotte.org