DI CHOHONG CHOI
Dissident Voice
Gli Stati Uniti non sono il solo paese affamato di energia
Quando: Anno 2000
Dove: Lower Manhattan, New York
Il fatto: la moderna tecnologia del XIX secolo incontra la tradizionale tecnologia dei bei tempi andati
Il risultato: la tecnologia tradizionale vince senza sforzo
Nel caso di cui parliamo, un SUV nuovo di zecca (o uno appena lavato) si era fermato a un semaforo dietro un cavallo della polizia di New York, proprio nel momento in cui l’animale, sentendo l’imperioso richiamo della natura, aveva deciso di soddisfare seduta stante i suoi bisogni. L’auto distava dalla bestia solo pochi centimetri: quando il semaforo scattò al verde il proprietario non fu in grado di scansare gli escrementi equini, e, peggio ancora, fu obbligato a passarci sopra con le ruote e a lasciare un profumo di Bronx ben percepito da quelli che si trovavano sul posto.
Numerosi pedoni che assistevano all’incidente, non potendo parteciparvi in prima persona, si limitarono a sbeffeggiare lo sfortunato SUV e i suoi occupanti urlandogli “zozzone!”. Dopo tutto, cosa avrebbe potuto fare il proprietario: scendere dal veicolo e cominciare a lottare con la folla che si era fatta una sana risata a sue spese? La polizia era sul posto.Forse il cavallo stava mostrando il suo disprezzo per il rivale con l’equivalente equino di “Benvenuto a New York”. Il SUV non aveva nessuna possibilità: nell’immaginario collettivo il grande, aggraziato e disciplinato animale avrà sempre, anche quando deposita i suoi escrementi in piena strada, la meglio su un golia che puzza di benzina. È uno dei motivi che ha convinto il comando della polizia di New York a mantenere in servizio un’unità di agenti a cavallo: si tratta semplicemente di relazioni pubbliche. [1] Inoltre, i cavalli se la cavano molto meglio delle auto negli spazi angusti e, cosa ancora più importante, non consumano nemmeno una goccia di carburante. Il loro carburante consiste in frutta e vegetali, e gli Stati Uniti sono autosufficienti nella produzione di questi beni, mentre hanno grossi problemi nel soddisfare la richiesta di petrolio, che in buona parte (il 60%) sono costretti a importare. [2]
È stato uno degli ultimi “trionfi” del cavallo sull’automobile: i giorni in cui nelle strade era frequente trovare escrementi equini sono tramontati agl’inizi del XX secolo. Gli escrementi creavano problemi, proprio come i gas di scarico delle auto, ma tra gli altri vantaggi avevano quello di poter essere usati dagli agricoltori come concime. Nel XIX secolo, l’attività agricola aveva una grande importanza nella Grande Mela, e non è un caso che all’epoca i cavalli fossero parte integrante dell’economia rurale e urbana degli Stati Uniti. Gli agricoltori di Brooklyn o del Queens potevano comprare escrementi per fertilizzare le coltivazioni (incluse quelle di fieno per gli animali) e rivendere poi i raccolti agli abitanti di Manhattan. Lo scambio reciproco funzionava bene e i prodotti erano freschi; a partire dal momento in cui le nuove tecnologie permisero ai contadini di altre zone del paese di far concorrenza a quelli di New York e dettero vita a sistemi di trasporto che non avevano bisogno dei cavalli e della loro forza, il sistema andò in pezzi [3]. Oggi il cibo viaggia in media 2.400 km per arrivare nel piatto di un normale americano; e questo significa un maggior consumo di petrolio. [4]
“Faremo di più”
Non è una forzatura affermare che il petrolio è la linfa vitale dell’odierna economia americana. Sono pochi gli statunitensi che non ne dipendono in un modo o nell’altro, che si tratti di benzina per la propria auto, o di carburante per il mezzo di trasporto pubblico preferito, o ancora di combustibile per il riscaldamento domestico. E mentre esistono valide fonti di energia alternativa per gli ultimi due usi, sono poche le auto in questo paese che non sfruttino il petrolio.
Negli anni passati, e salvo rare eccezioni, gli americani erano abituati a disporre di carburante a poco prezzo, e ciò permise alla maggior parte di loro, anche a quelli che facevano parte della classe operaia, di possedere un’auto, e a molte famiglie della classe superiore di possederne addirittura più di una. Era una verità tanto ovvia quanto la morte e le tasse, e l’unica tra le tre bene accetta. Le industrie dei settori petrolifero, automobilistico e della gomma fecero il possibile per essere sicuri che gli americani continuassero a dipendere dalle auto, e arrivarono al punto da scoraggiare il ricorso a sistemi di trasporto pubblico urbani e interurbani con la concorrenza, la legislazione, la propaganda, o semplicemente eliminando dal mercato i mezzi di trasporto pubblico che non usavano motori a combustione interna, non avevano bisogno di petrolio, o non circolavano sull’asfalto [5].
Gli americani di meno di 45 anni hanno conosciuto solo l’abbondanza di petrolio, e una procedura molto semplice: fermarsi a un distributore di benzina, fare il pieno, pagare, andar via. Le lunghe code per ottenere il carburante sono roba da libri di storia. Il nostro atteggiamento verso la benzina ricorda quello di Jay Leno, quando lanciò i Doritos verso la fine degli anni ’80: “Mangiatene quanto volete, ne produrremo di più”. Cosicché feci un bel salto quando, tornando negli Stati Uniti per trascorrervi il Natale 2005, l’auto su cui viaggiavo si fermò in una stazione di servizio della Exxon nel New Jersey per fare il pieno e fu mandata via da un addetto che ci comunicò di avere le cisterne vuote. La cosa ci lasciò perplessi: quel tratto di autostrada non era particolarmente affollato, e la successiva stazione di servizio della Citgo nella quale ci fermammo fu ben lieta di servirci.
Più tardi mi spiegarono che probabilmente la stazione della Exxon non era affatto a corto di carburante; stava semplicemente preparandosi ad aumentare i prezzi [6], forse per compensare l’impennata dei prezzi praticati dalla società petrolifera [7]. A quel che sembra, l’azienda più redditizia del settore aveva voluto spremere qualche dollaro in più (per contribuire al finanziamento dell’enorme pacchetto pensionistico dell’allora presidente direttore generale Lee Raymond?) ai suoi clienti, molti dei quali stavano lottando per fare il pieno dell’auto e mantenere calda la casa in quel freddo inverno: non c’è niente di meglio di un tocco di Scrooge per diffondere lo spirito natalizio. E aspettatevi che i prezzi salgano alle stelle: con il concentrarsi dell’industria petrolifera in un numero sempre minore di mani, gli operatori ancora sul mercato si troveranno in una posizione sempre più forte per influenzare la fornitura e le quotazioni del cosiddetto “oro nero”. Il motto del settore potrebbe quindi diventare: “Guidate quanto volete, vi spremeremo più soldi”.
I guastafeste
C’è un’altra buona ragione che spiega l’impennata dei prezzi. Il mondo ha assistito al risveglio dei due più recenti e importanti concorrenti alla lotteria: Cina e India, due economie tra quelle in più rapida espansione che insieme hanno quasi 2 miliardi e mezzo di potenziali consumatori. La loro fame di petrolio aumenta in progressione quasi geometrica, con la Cina in leggero vantaggio: ancora agl’inizi degli anni ’90 il paese era un esportatore netto di petrolio, oggi è un importatore netto [8].
Con sempre maggiore frenesia, i cinesi benestanti stanno facendo proprio uno dei sogni americani: un’auto in ogni garage. Nel 2005, in Cina circolavano 27 milioni di auto private (come negli USA nel 1942) [9]: se confrontata agli 800 milioni [10] che circolano nel mondo, sembra una quantità trascurabile, e non tiene nemmeno conto degli scooter e delle motociclette usate da molti cinesi che vogliono qualcosa di più potente di una semplice bicicletta, ma non possono permettersi un’automobile. Ma il colpo di fulmine dei cinesi per le auto è appena agl’inizi, e non mancano le industrie interne e internazionali disposte ad assecondarlo. Praticamente ogni fabbricante vuole entrare sul mercato: se riuscisse ad attirare anche solo lo 0,1% della popolazione locale, avrebbe già 1,3 milioni di acquirenti.
Anche se non è un prodotto rivoluzionario, l’auto è qualcosa di piuttosto nuovo per la maggior parte dei cinesi. Tradizionalmente, gli asiatici adottano rapidamente le nuove tecnologie, e il caso dell’auto è uno degli esempi più significativi: negli USA il numero di veicoli in circolazione è superiore a quello dei patentati [11], ma in alcune città della Cina è vero il contrario [12]. La facilità con cui nel paese è possibile ottenere la patente (grazie ai bassi standard, ai funzionari corrotti che si fanno pagare per concedere la licenza a candidati non qualificati, all’uso di far sostenere l’esame di guida a qualcun altro, e alle falsificazioni) fa sì che circolino parecchi conducenti spericolati e incompetenti, con seri rischi per se stessi e per gli altri [13].
Durante il mio primo viaggio in Cina, negli anni ’80, avevo avuto modo di scoprire quanto potesse essere pericoloso anche solo attraversare un incrocio. Nelle città le auto cominciavano a diventare comuni, ma mentre in occidente i conducenti fermi ai semafori di solito aspettano che i pedoni ritardatari abbiano finito di attraversare, in Cina scattano come fulmini non appena la luce passa al verde. Nessuna esitazione, strombazzata o paziente attesa: chiunque si trovi sulla strada potrebbe anche non esserci. Come se non bastasse, bisogna anche sorvegliare la direzione del traffico: in linea di principio si circola sulla destra, come negli USA, ma si tratta di una regola spesso ignorata dalle biciclette e dagli altri veicoli a due ruote, e spesso anche da quelli a quattro. Le inversioni a U sono del tutto normali, anche se sulla carreggiata opposta c’è un ingorgo. Non c’è quindi da meravigliarsi se in Cina gl’incidenti mortali sono in netto aumento, e se la media annua ha ora raggiunto quota 100.000. Tanto per fare un confronto, negli USA, dove circolano molte più auto e su distanze molto superiori, la media d’incidenti mortali nello stesso periodo ha toccato quota 40.000 [14].
Nonostante alcuni interessanti sviluppi degli ultimi anni nel campo dei trasporti pubblici, la Cina ha chiaramente mostrato di favorire i sistemi che usano petrolio: le zone centrali di alcune tra le maggiori città del paese sono state rimodellate espellendo le fasce povere e favorendo l’insediamento di residenti benestanti, più interessati a guidare un’auto. Le famiglie meno abbienti sono state spostate in periferia, e per andare al lavoro in centro città dovranno ricorrere a sistemi di trasporto pubblico inadeguati (se non del tutto assenti) e ai tassì, se se lo potranno permettere, oppure acquistare auto, scooter o motociclette, aumentando i problemi legati all’inquinamento atmosferico. Le autorità locali sono fin troppo contente di questi sviluppi, dato che per ogni veicolo venduto percepiscono una pesante tassa che rimpingua le finanze pubbliche [15].
La scelta cinese a favore delle autovetture ha portato a enormi ingorghi nelle grandi città, e i conducenti (che in fin dei conti sono la causa principale dei loro stessi mali) sono veramente furiosi. I trasporti pubblici sono però ancora scadenti, e molti sono costretti a usare la loro auto, anche se restare bloccati negl’ingorghi è oramai diventata un’abitudine quotidiana. La richiesta di un sistema di trasporto pubblico efficiente esiste. “Il Partito comunista sovietico non ha fatto gran cosa per Mosca, ma le ha lasciato in eredità una magnifica metropolitana”, si lamenta un conducente a Pechino, “perché il nostro Partito comunista non ha fatto lo stesso?” [16].
Perché Pechino non ha preso l’iniziativa, visto anche che mancano solo due anni alle Olimpiadi? Cercate d’immaginare i migliori atleti del mondo bloccati ogni giorno nel traffico per due settimane, mentre vanno dai loro alloggi ai campi di gara; probabilmente farebbero meglio a farsela a piedi, se non dovessero in tal caso sottostare alle mutevoli abitudini del traffico locale. La capitale cinese è rimasta indietro nel campo dei trasporti pubblici e si sta sforzando di recuperare gli anni persi: la sua metropolitana, la più antica del paese, ha iniziato a funzionare all’epoca della Rivoluzione culturale, ma è rimasta poco più di una doppia linea servita da vecchie locomotive fino a poco fa, quando un febbrile programma di espansione ha consentito di inaugurare altre due linee e di programmarne altre sei per i prossimi anni [17]. Una volta di più, trascurando la sua metropolitana a tutto vantaggio delle automobili, Pechino ha permesso a città come Hong Kong e Singapore, dotate di sistemi di metropolitana più moderni, di sorpassarla in termini di estensione e qualità del servizio.
Se non fosse per le “Olimpiadi verdi” (come la Cina vuole che vengano conosciuti i Giochi olimpici 2008), Pechino non si sarebbe probabilmente impegnata in questa corsa affannosa per risollevarsi: ha sostituito 34.000 autobus e tassì con veicoli più moderni e puliti, su certe superstrade ha creato corsie riservate agli autobus, ha eliminato la benzina al piombo, ha eliminato molte fabbriche e centrali elettriche dalla periferia della città, e ha chiuso le miniere di carbone dei dintorni. Inoltre sta pensando di limitare la circolazione automobilistica durante i giochi, anche se con 1.000 nuove auto che si aggiungono ogni giorno alla confusione cittadina, molto probabilmente alla lunga il traffico è destinato a peggiorare; i Giochi non saranno stati che una semplice tregua nella spirale discendente della città verso l’inferno dello smog [18].
Abbandonare le proprie radici
Strada facendo, i cinesi stanno gradualmente mettendo da parte la bicicletta, a lungo il modo di trasporto tipico del paese più popoloso al mondo. Nello sforzo di soddisfare la crescita del numero di automobili, le più grandi città cinesi (e Shangai in particolare) limitano sempre di più le aree cui possono accedere le biciclette, anche se sono invece proprio i veicoli a motore a bloccare le strade. La cosa ha reso furiosi gli ancora numerosissimi ciclisti, che pensano di essere ingiustamente usati come capri espiatori della congestione [19].
I cinesi fieri del proprio status sociale stanno voltando le spalle alla forma di trasporto più versatile. Gli occidentali (e io per primo) sono impressionati da quello che i cinesi sono capaci di fare con una bicicletta [20], soprattutto quando si tratta di trasportare oggetti: su questi veicoli è possibile trasportare praticamente tutto, comprese cose che la maggior parte degli automobilisti non si azzarderebbe a caricare sui propri veicoli. La bicicletta è il mulo della Cina, e a differenza del quadrupede non lascia nelle strade il suo biglietto da visita.
Attenzione, questo sporge! [21] |
Vi azzardereste a usare la vostra Escalade? [22] |
Manca solo il lavello [23] |
Trasporto in economia [24] |
Meglio non camminare o guidare stando dietro |
Carne macellata su entrambi i lati per una |
Si può fare [27]
I cinesi sono capaci di sfruttare ogni millimetro delle loro biciclette, mentre non si può dire lo stesso della maggior parte delle auto e dei SUV. Pedalare trasportando carichi pesanti è stancante, non c’è bisogno di dirlo, e condizioni atmosferiche avverse limitano l’uso di questi mezzi molto più che non quello delle auto: ma è più facile entrare in zone anguste o manovrare in poco spazio, è quasi impossibile provocare ingorghi o incidenti mortali, non consumano benzina e non inquinano (tranne che nella fase di produzione). Passando all’automobile, i cinesi vanno incontro agli stessi problemi che gli americani hanno dovuto affrontare da oltre un secolo: maggiore inquinamento, traffico bloccato, incidenti, nervi, espansione urbanistica incontrollata, dipendenza da fonti di energia estere, riduzione delle terre coltivabili.
L’ultima considerazione dovrebbe preoccupare al massimo il governo cinese, ed è proprio quello che succede. Una volta destinata a progetti di sviluppo, la terra coltivabile è persa per sempre: ne è stata sacrificata molta nella parte orientale del paese, quella che possiede la terra di migliore qualità. La Cina dispone solo del 7% della terra coltivabile di tutto il mondo, dopo averne persa un altro 7% nell’ultimo decennio [28]; sta quindi importando parte dei propri alimenti (in particolare grano e semi di soia) [29] e sviluppando gradualmente l’industria agroalimentare [30]. La maggiore prosperità ha infatti fatto aumentare la domanda di carne, che, se non stabilizzata, può portare a un’agricoltura ancora più industrializzata, non solamente in Cina ma anche nei paesi da cui importa alimenti.
Pensiamo allo sviluppo attuale del settore agroalimentare statunitense, in grado non solo di soddisfare la domanda interna ma anche di esportare. Pensiamo adesso a quanta carne la Cina e i paesi che la riforniscono dovrebbero produrre se tutta la sua popolazione arrivasse a consumare quanto gli Stati Uniti. Il consumo totale (non quello pro capite) di carne nel paese ha già superato quello registrato degli USA alla metà degli anni ’90, quando la Cina aveva una maggiore superficie coltivabile [31]. L’industria agroalimentare (inclusa l’acquacoltura) usa grandi quantità di risorse, in particolare acqua, che nel paese cominciano a scarseggiare [32]. Bisogna inoltre tener conto delle enormi quantità di rifiuti prodotti dai capi di bestiame allevati industrialmente, che ovunque sono presenti inquinano le falde acquifere. Non dimentichiamo le epidemie (mucca pazza e influenza aviaria, tanto per citarne due) associate all’industria agroalimentare. La Cina ha funzionato da incubatrice per alcune delle peggiori pandemie della storia. È preparata a gestire questi problemi quando persino l’applicazione delle proprie leggi (non solo di quelle sulla sicurezza alimentare) è, per essere gentili, dubbia?
SAR = Severe Asthmatic Region
E non perdiamo di vista Hong Kong, considerata la più moderna città cinese. Per molti aspetti lo è, ma non per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico: per anni la qualità dell’aria della Regione amministrativa speciale è stata il fanalino di coda, al punto che nel 2002 l’editore della guida turistica Lonely Planet illustrò la copertina del numero dedicato a Hong Kong e Macao con la foto di un grattacielo quasi oscurato dallo smog. La cosa creò scompiglio nella “metropoli asiatica”, che faceva molto affidamento sul turismo per dare impulso a una allora stagnante economia; gli ambientalisti che lottavano contro l’inquinamento ebbero la soddisfazione di poter affermare “Ve lo avevamo detto” [33].
Nella nuova edizione della guida, Lonely Planet ha trattato con più riguardo Hong Kong, ma non si può dire che l’aria abbia fatto lo stesso, e questo ha spinto l’edizione asiatica di Time a dedicare una copertina altrettanto poco benevola al problema dell’inquinamento atmosferico: l’avvertimento degli ambientalisti era caduto nel vuoto. Nonostante il crescente coro di voci (mondo accademico, ambiente sanitario, industriali, ambientalisti, legislatori, e semplici cittadini) che esprimono preoccupazione per il deteriorarsi dell’aria in città, fino al momento in cui scriviamo il governo di Hong Kong non ha fatto praticamente niente, preferendo addossare la colpa all’inquinamento industriale che proviene in linea diretta dalla provincia di Guangdong. In gran parte è vero, ma la spiegazione ignora vari fatti: (1) molte aziende di Guangdong sono proprietà d’industrie di Hong Kong, (2) una grossa percentuale dell’inquinamento cittadino è provocato nella città stessa dai veicoli a motore e dalle centrali elettriche, (3) la limitata superficie di Hong Kong ha reso necessario costruire molti grattacieli, dando così vita a canyon artificiali che intrappolano l’aria contaminata [34].
Quella che fino ad oggi può probabilmente essere considerata da un cittadino medio come la prova più lampante dell’inquinamento atmosferico a Hong Kong si è avuta in occasione della Maratona annuale del febbraio scorso. Era un giorno particolarmente poco indicato per una corsa di lunga durata: l’indice d’inquinamento atmosferico era schizzato alle stelle, e alcuni dei 40.000 partecipanti sostengono che l’aria era irrespirabile già dal mattino, prima che iniziasse la gara, nel corso della quale oltre 4.800 concorrenti hanno dovuto far ricorso alle cure mediche (anche se non tutte per problemi respiratori) e uno, asmatico, è morto. Vedere la baia Victoria da The Peak, una delle più note attrazioni turistiche della città, è oramai diventato quasi impossibile. Ogni giorno nascono nuovi edifici e si aprono nuove strade sui due lati della baia, in buona parte grazie a opere di bonifica, ed è solo una questione di tempo prima che Hong Kong si unisca a Kowloon e diventi come Coney Island: un’isola solo di nome.
I grattacieli più impressionanti sono quelli in riva al mare, da cui sembrano sorgere. La riva ha un certo incanto che attrae la gente e gli investimenti, e in ultima analisi le costruzioni di prestigio. L’orizzonte di Hong Kong mostra quelli che probabilmente sono i più alti grattacieli al mondo: “Manhattan con le montagne”, li ha definiti un funzionario governativo (se riuscite a vederli, ovviamente). Dalla fondazione della città, nel 1841, la superficie della baia Victoria si è ridotta all’incirca del 50%; fino al decennio scorso il fenomeno non era però visto come un grosso problema, ma piuttosto come un segno di progresso di un territorio al 75% montagnoso, che aveva bisogno di terreno pianeggiante su cui costruire una delle città più dinamiche al mondo.
Così, in (dis)onore delle possibilità di futuro sviluppo, ecco uno scherzoso calendario per la città:
2008: A causa delle troppe bonifiche, la baia Victoria viene informalmente rinominata stretto Victoria. Le sue acque diventano più agitate e gl’incidenti aumentano in modo spettacolare, dato che più navi sono costrette a muoversi in meno spazio.
2010: l’ulteriore sviluppo trasforma lo stretto Vittoria nel canale Vittoria. Viene vietato il transito delle navi negli angusti bracci di mare restanti. La storica compagnia di navigazione Star Ferry comincia a usare i suoi battelli come ponti, dato che la lunghezza dei natanti è pari alla larghezza del canale. I pedoni che vogliono andare dall’isola di Hong Kong a Kowloon pagano un pedaggio e passano sul battello invece che nel tunnel, e risparmiano. Durante le feste sul canale non si sparano più fuochi d’artificio, che la nebbia non permetterebbe di vedere. Lonely Planet declassa ancora una volta Hong Kong, mettendo sulla copertina della sua ultima guida un battello della Star Ferry ancora in navigazione (la foto risale all’anno prima) e sullo sfondo un grattacielo quasi completamento oscurato dallo smog.
2012: le ulteriori bonifiche trasformano il canale Vittoria nel rigagnolo Vittoria. Ora che i battelli della Star Ferry non sono più usati nemmeno come ponti, l’azienda chiude i battenti e il suo ultimo traghetto viene trasferito in una spianata dinanzi all’Hong Kong History Museum e sistemato su un basamento che gli servirà da ultima dimora. Il rigagnolo attira l’attenzione di coloro che praticano il salto in lungo: i migliori atleti locali fanno a gara per vedere chi compie il salto migliore (ammesso che riescano a vedere l’altra sponda) senza cadere nelle acque supertossiche. Il primo classificato rappresenterà Hong Kong alle Olimpiadi di Londra.
2014: il rigagnolo Victoria viene completamente riempito dopo che l’auto di un funzionario del continente in visita vi è finita dentro (l’autista non lo aveva visto a causa della nebbia). Più tardi si scoprirà che il funzionario aveva accettato bustarelle dagli industriali di Hong Kong promettendo in cambio l’immunità per non aver ridotto l’inquinamento provocato dalle loro fabbriche in Cina. La famosa linea di grattacieli di Hong Kong sparisce dietro una coltre di polvere e smog, il che va molto bene dato che già non era più visibile da The Peak e da Kowloon. La città comincia a somigliare al pianeta Bespin (sotto Cloud City, per intenderci), e letteralmente affoga nell’aria nociva creata dalla marea di veicoli a motore che ogni giorno ne ingorgano le strade. Lonely Planet rinvia la pubblicazione della nuova guida di Hong Kong in attesa che la città si dia una ripulita, e le risparmia così un’altra umiliante analisi.
2015: La visibilità è talmente limitata che per potersi districare la maggior parte dei veicoli, dalle biciclette in su, deve dotarsi di miniradar, un altro dispositivo pensato per soddisfare un popolo bramoso di gadget e di cui la città è diventata il principale mercato. Le malattie respiratorie sono ora la causa principale di morte a Hong Kong, dove le maschere antigas e le bombole di ossigeno portatili sono diventate comuni quanto i telefoni cellulari. Esiste però un aspetto positivo nella sparizione della baia: tunnel, autobus e treni non possono più giustificare il sovrapprezzo per l’attraversamento della baia, e il costo dei biglietti diminuisce per evitare disordini tra i pendolari. Il vantaggio è però controbilanciato dall’esplosione della spesa sanitaria. Invece di pubblicare una guida aggiornata di Hong Kong, Lonely Planet ritiene più opportuno consigliare ai possibili visitatori di evitare la città, descrivendone l’orrenda qualità dell’aria.
2020: la natura si vendica, e il riscaldamento globale diventa incontrollabile: i ghiacciai si sciolgono rapidamente e il livello del mare sale di vari metri. A Hong Kong rinasce la baia Victoria: edifici e strade che ne occupavano il vecchio invaso vengono completamente o parzialmente sommersi. La città rassomiglia adesso al pianeta Kamino. Peggio ancora, buona parte delle montagne di Hong Kong, ora così necessarie, sono state da molto tempo rese pianeggianti, e gli abitanti delle poche alture restanti sono completamente tagliati fuori dalla civiltà; solo quelli in migliori condizioni di salute sono in grado di essere evacuati con gli elicotteri. Per la prima volta nella storia del settore immobiliare della città, le proprietà in riva al mare non valgono un accidente. I battelli tornano ad essere la casa di molti, e l’ultimo traghetto della Star Ferry viene precipitosamente prelevato dal suo basamento e rimesso in servizio (ancora una volta Hong Kong se la cava meglio di New York, Shangai e Singapore, tutte in buona parte sul mare).
Comunque vadano le cose in futuro, sarebbe un’ironia, o forse meglio una tragedia, se Hong Kong perdesse altri pezzi della sua baia, una delle più belle (se non addirittura la più bella) al mondo. Ed è proprio questa, non i suoi abitanti, la vera ricchezza della città: senza la baia non sarebbero arrivati gente, navi e soldi. Per troppo tempo gli abitanti hanno considerato il contesto naturale come qualcosa di scontato. Hong Kong significa “baia profumata”, ma in questi ultimi anni tutto si può dire della baia Victoria tranne che sia profumata: vi sono state scaricate materie prime e scarti di lavorazione per un totale che nel 2005 ha raggiunto i 450.000 metri3 al giorno [36]. Se la cosa vi sembra nociva, allora rispondete a quest’altra domanda: se la baia sparisce, dove verranno scaricati i residui?
Il governo, che avrebbe dovuto proteggerla, è venuto meno al suo compito approvando ulteriori progetti di bonifica (inclusa la costruzione di nuove superstrade per far circolare più auto, anche se è stato dimostrato che più strade significano più ingorghi e più inquinamento [37]).
Le ultime decisioni che concernono la baia sono state accolte con perplessità persino nell’ambiente economico, i cui punti di vista hanno una grande influenza nel paese. Sull’inquinamento atmosferico e le bonifiche, alcuni gruppi economici di Hong Kong hanno adottato una posizione molto vicina a quella degli ambientalisti [38]. Se avete in comune con tutti gli altri abitanti l’aria che respirate e il panorama limitato e offuscato della baia, allora avete in comune anche il problema.
Rinculo
Lo smog potrebbe avere un effetto imprevisto sulla popolazione maschile: apparentemente, ha influenzato la virilità… alla lettera! Un recente studio statunitense suggerisce che l’ozono, generato dall’interazione della luce solare e lo smog, riduce il numero di spermatozoi dell’uomo [39]. Non si tratta certo di una buona notizia per i maschi in Cina e a Hong Kong, che respirano un’aria tra le più inquinate al mondo e che già oggi, secondo un’indagine del 2005 sponsorizzata da un produttore di preservativi, dedicano al sesso un tempo inferiore alla media mondiale [40]. E forse questo spiega perché alcuni comprano grosse auto: per compensare le loro frustrazioni sessuali.
Ma questo non vale per Hong Kong. A differenza della Cina e degli USA, a Hong Kong i proprietari di auto sono sempre stati e continuano ad essere pochi, e solo il 7% della popolazione ne possiede una [41], anche perché il prezzo del carburante è tra i più cari al mondo (a giugno 2006, quando ho fatto l’ultimo controllo, era pari a 6-7 dollari al gallone). In buona parte, per spostarsi i cittadini di Hong Kong si affidano ai trasporti pubblici (autobus, treni, traghetti o addirittura tassì), che sono veramente buoni, forse fin troppo.
Delle tre alternative per gli spostamenti su terra, l’autobus rappresenta la più economica, ma anche la più inquinante (a difesa degli autobus va però detto che sono quasi tutti del tipo a due piani e hanno una capacità massima di oltre 100 passeggeri): alla flotta di mezzi delle tre più importanti aziende cittadine (circa 5.500 in totale [42]), bisogna aggiungere le migliaia di minibus, autobus privati e altri veicoli commerciali che contribuiscono a inquinare l’aria della città. Si tratta di veicoli che in gran parte usano diesel, un carburante più economico della benzina e ancora più economico per le aziende di trasporto, che lo ottengono con uno sconto speciale [43]: il dettaglio è importante, perché nel 2002 i motori diesel erano usati solo dal 30% degli autoveicoli di Hong Kong, ma coprivano il 70% delle distanze percorse [44].
I motori diesel sono più efficienti di quelli a benzina, ma sono tendenzialmente più inquinanti; quelli di nuova generazione che equipaggiano alcuni autobus sono più puliti, ma il livello delle emissioni dipende da una corretta manutenzione e dalla qualità del carburante usato (agl’inizi del 2006 una delle tre grandi aziende ha ottenuto una estensione di dieci anni della sua licenza, nonostante fosse quella con il parco autobus più inquinante [45]). Molti veicoli non ricevono una buona manutenzione (la maggior parte degli automobilisti non sa nemmeno come riempire il serbatoio, perché c’è chi lo fa per loro) e il carburante diesel comprato in Cina (di solito da automezzi commerciali che traversano la frontiera), dove gli standard ambientali sono più bassi, è più sporco di quello di Hong Kong. Inoltre, il governo non ha rafforzato le norme sulle emissioni, consentendo così ai veicoli più vecchi e inquinanti di restare in circolazione [46].
Le due più grandi centrali elettriche di Hong Kong usano il carbone, risorsa abbondante ed economica, e sono responsabili di un terzo dell’inquinamento ambientale della città. Un terzo dell’elettricità prodotta serve a far funzionare i condizionatori d’aria [47] per almeno otto mesi all’anno: la maggior parte degli uffici e delle case li usa, e molte case, piccole secondo gli standard americani, dispongono di più unità (una casa di 450 piedi quadrati in cui abitavo ne aveva tre, mentre la mia ultima abitazione a New York, grande almeno il doppio, ne era priva perché i vecchi fili elettrici non potevano sopportare il carico). Quasi tutti regolano il termostato al di sotto dei 25,5°C raccomandati dalle autorità. La temperatura viene considerata troppo alta: quella ottimale per una abitazione è di 20°C, e il calore emesso dagli apparecchi dei vicini obbliga a far funzionare il proprio al massimo. Una volta di più, certuni abbassano talmente la temperatura interna da dover poi indossare indumenti più pesanti. L’isolamento della maggior parte degli edifici di Hong Kong è scadente: l’uso dei condizionatori (e in inverno, quando si gela, del riscaldamento) finisce con l’assorbire più elettricità di quanto dovrebbe. Si tratta di piccoli sprechi, che ripetuti centinaia o migliaia di volte contribuiscono sensibilmente a rendere irrespirabile l’aria della città.
Come si sposta l’inquinamento. Il delta del fiume Pearl è al centro (doppia freccia verso il basso); Hong Kong è a destra. (da Clear the Air.)
Buona parte dell’inquinamento generato a Hong Kong si sposta a Guangdong, dove si mescola con gl’inquinanti locali e segue poi il delta del fiume Pearl, finendo col tornare in città [48]. Coloro che addossano alla Cina la responsabilità dell’inquinamento atmosferico di Hong Kong hanno quindi in parte ragione, ma ignorano il vero responsabile: chi ne è all’origine. Quel che va via torna. C’è poi l’inquinamento che non se ne va mai perché resta intrappolato tra gli edifici, paragonabili a canyon artificiali (come già spiegato). Non è quindi sorprendente che la qualità dell’aria nelle zone più urbanizzate di Hong Kong sia una delle peggiori al mondo. A chi non ha studiato in dettaglio la situazione della città potrebbe invece sembrare sorprendente il fatto che anche le aree a occidente, notevolmente meno urbanizzate, siano gravemente inquinate, dato che si trovano all’imboccatura del delta del Pearl (dove si trova anche l’aeroporto).
Quelli che a Hong Kong posseggono un’auto sono relativamente pochi, ma non bisogna credere che manchi una cultura automobilistica. In fin dei conti è proprio qui che si trova il maggior numero pro capite di proprietari di Mercedes Benz e Rolls Royce. Le Mercedes sono talmente comuni che le guidano persino alcuni residenti di insediamenti sociali [49]. E anche le auto delle marche meno prestigiose vengono tenute con cura (nelle parti visibili, quanto meno) dai proprietari; a differenza di quel che succede a New York, nelle strade della città non si vedono quindi camioncini o auto che avrebbero urgente bisogno di essere lavate. Comprare e mantenere un’auto costa molto più a Hong Kong che non negli USA, ma molti si arrangiano per riuscirvi. I residenti privilegiati di alcune aree residenziali di lusso arrivano al punto di pagare l’equivalente di oltre 128.000 US$ per comprare un posto auto, senza includere deflettori o superprotezioni, mentre in una recente asta di targhe uno dei vincitori ha pagato l”equivalente di oltre 192.000 US$ per una targa con una combinazione fortunata [50]. Molte case non raggiungono prezzi così elevati, e questo mostra a che punto certuni possono essere ossessionati dalle auto.
Basta con gl’indugi
C’è un proverbio che dice: per profittare di qualcosa c’è sempre un prezzo da pagare. Vuol dire che si pagano non solo i vantaggi ma anche gli obblighi. A Hong Kong, il peggior gravame per gli automobilisti sono i già citati ingorghi del traffico, a cui tutti quelli che circolano contribuiscono ma di cui nessuno si sente responsabile: quando una marea di veicoli avanza per ore su una strada come un lungo serpente, è meglio non passare da quelle parti e immergersi nella nuvola di gas scarico degli automezzi. La città sembra ospitare quelle periodiche concentrazioni paralizzanti durante le quali certe parti della rete stradale si trasformano nei più lunghi parcheggi al mondo: il caso più recente si è avuto nel maggio 2005, quando gli automobilisti hanno impiegato quattro ore per percorrere 4,8 chilometri all’interno di Kowloon, che in condizioni normali avrebbero richiesto non più di 10 minuti.
Per mettere le cose nella giusta prospettiva, ci vogliono circa tre ore e mezzo per volare da Hong Kong a Singapore (2.560 chilometri). E d’altro canto, per essere onesti bisogna aggiungere che quel giorno la situazione era particolarmente difficile perché aveva piovuto ininterrottamente per due lunghi giorni. Ma quando il tempo è cattivo sarebbe più prudente lasciare l’auto a casa e scegliere il trasporto pubblico (anche gli autobus erano bloccati nell’ingorgo, ma a loro difesa c’è da dire che trasportavano molti più passeggeri, alcuni dei quali avrebbero anche potuto usare la propria auto). Ma molti automobilisti avevano preferito l’auto, ed avevano finito con lo stancare le braccia a furia di gestacci e/o le loro gole con le usuali sequele di parolacce (dando la solita volgare spiegazione cantonese sul possibile uso di una certa parte dell’anatomia delle madri degli altri conducenti).
In una giornata di pioggia, la migliore scelta tra i mezzi di trasporto pubblico sarebbe stata la metropolitana, che di solito viaggia nel sottosuolo. Da quando è entrata in servizio nel 1979, la metropolitana di Hong Kong (nota come MTR, Mass Transit Railway) ha sempre funzionato molto bene, anzi ottimamente (chiunque sia salito sulla metro di New York, soprattutto negli anni ’80, e su un convoglio della MTR sarà d’accordo sulla superiorità di quest’ultima). Particolare interessante, l’azionista di maggioranza della MTR è una promotrice immobiliare per la quale la metropolitana costituisce solo una delle attività: non diversamente quindi dalle aziende stradali statunitensi del XIX secolo, che avevano profittato delle concessioni fondiarie loro attribuite in quel secolo. Ogni prolungamento della MTR tende a far salire il valore immobiliare e a favorire la ristrutturazione delle aree interessate (negli USA, invece, alcune comunità locali non vogliono essere servite dai trasporti pubblici perché pensano che faccia scendere il valore immobiliare della zona e renda più facile essere raggiunti dagli “indesiderabili” delle zone più povere, anche se alcuni di costoro lavorano proprio per loro).
È sempre stato più costoso prendere un treno che un autobus, perché il primo deve riassorbire una parte dei costi delle infrastrutture su cui circola (binari, tunnel, tratti sopraelevati, stazioni, ecc.), mentre il secondo sfrutta le strade, i cui costi sono già stati coperti. Nonostante i sussidi pubblici, la metropolitana opera in perdita, ma è una vera e propria miniera d’oro per la società proprietaria [51]. E comunque negli ultimi anni ha aumentato la quota di viaggiatori [52], in parte grazie all’espansione della rete, e in parte grazie al maggior interesse economico.
A differenza della metropolitana di New York, la MTR non ha però offerto biglietti mensili a prezzo ridotto e ha non messo a punto con le aziende di autobus un sistema di trasferimento gratuito autobus-treno [53], due opzioni che avrebbero fatto ulteriormente aumentare il numero di viaggiatori della MTR e dato un attimo di tregua al loro portafogli. Le facilitazioni sono state invece modeste; autobus e minibus continuano quindi a essere il principale modo di trasporto pubblico, in particolari per i lunghi tragitti. Il governo vuole che i trasporti su rotaia aumentino del 40% in modo che entro il 2016 trasportino la metà dei pendolari (invece del 33% del 1997) [54]; tuttavia ha continuato ad attribuire una particolare importanza alle strade, fino al punto di progettare una nuova superstrada [55].
Un’altra scelta controversa della MTR è il divieto di trasportare biciclette sui vagoni, introdotto agl’inizi del 2004 dopo un incendio doloso (anche se non si conoscono usi delle biciclette come detonatori), mentre i pacchi sovradimensionati vengono tuttora accettati (e se uno fosse riempito di esplosivo?). La decisione ha scontentato i ciclisti, che sono stati in massima parte scoraggiati dall’entrare nelle aree urbane centrali, più adatte alla bicicletta, e chiedono più spazio per pedalare, a tutto vantaggio della salute e dell’ambiente, e per divertirsi [56].
Per quanto buoni siano stati gli sforzi del trasporto pubblico di Hong Kong, rimangono ancora abbastanza auto a benzina sulle sue strade per interpretare i ruoli principali nei futuri episodi della più lunga guerra dei parcheggi al mondo, con nelle parti secondarie alcuni tra i guidatori più intemperanti, gesticolanti e insultanti. Il prossimo episodio potrebbe essere pronto già da questa estate, quando il tempo in città diventa insopportabile. Restate sintonizzati.
Posso guidare a 90 all’ora
L’ultima auto che ho avuto era una Ford Escort del ’94 con trasmissione automatica. Fino a quando non l’ho venduta nel 2001, ne ho sempre tenuto la speciale etichetta autoadesiva nel vano portaoggetti per controllare come si comportava in quanto a consumi nel corso degli anni. L’etichetta indica che la Escort ha avuto un consumo tra i 26 (in città) e i 32 (su strada) mpg (miglia per gallone); una buona media ma non eccezionale per una piccola vettura, anche se restava comunque superiore alla media di 26 mpg per l’insieme delle altre auto. Ben al di sopra della media di 13 mpg del 1973 (prima dell’embargo dell’OPEC) ma in effetti in declino rispetto al 1987, quando toccò le 27 mpg [57].
Il risparmio reale di carburante dipende da una quantità di fattori, ma uno dei più importanti è la velocità a cui si guida. Chi conduce sa che praticamente nessuno rispetta i limiti di velocità, soprattutto sulle autostrade: la velocità massima viene spesso considerata la minima. Io sono stato uno dei pochi ad aver sempre rispettato i limiti, e sono stato ricompensato da un consumo di 41 e 48 mpg nei due più lunghi viaggi mai fatti con la Escort (mi ha anche aiutato il fatto di averli effettuati su autostrada, con un tempo relativamente freddo, con i pneumatici a pressione corretta, senza quasi usare il condizionatore, e con i finestrini chiusi). Con queste semplici accortezze è possibile ottenere consumi simili a quelli delle vetture ibride anche con auto normali, senza dover rinunciare al proprio stile di vita. Quando si tratta di dover scegliere tra carburante e cibo o medicine, come succede a molti, ogni goccia di benzina risparmiata aiuta [58].
Alcuni hanno avanzato l’idea di rimettere in vigore il limite di velocità di 88 km/h. Istituito una prima volta nel 1974 come misura di sicurezza nazionale (uno dei motivi dei severi standard di risparmio energetico), il limite, secondo le stime, aveva permesso di risparmiare nei dieci anni successivi circa 2,5 miliardi di galloni di carburante e, assieme a più severe norme di risparmio energetico, di ridurre sensibilmente il consumo di petrolio fino al 1990 [59]. In quell’anno il petrolio era però diventato di nuovo economico, e il limite di 88 km/h era stato progressivamente eliminato stato dopo stato, fino a sparire completamente nel 1995. Ora che il prezzo del petrolio sta rapidamente risalendo ai suoi massimi storici, è stata ripescata l’idea degli 88 km/h. Non sarà una decisione popolare, come non lo era stata la prima volta; non certo quando gli automobilisti superano di solito i 112 km/h, il limite di velocità generalmente adottato su buona parte della rete autostradale [60]. Se la situazione dovesse ulteriormente peggiorare, un maggior numero di americani potrebbe però appoggiare le misure di risparmio energetico oggi impensabili.
Chohong Choi
Fonte: http://www.dissidentvoice.org
Link: http://www.dissidentvoice.org/
27.07.2006
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO
VEDI ANCHE: UN SOGNO NON SOLO AMERICANO (PARTE II)