Mahmoud Abu Rideh vive dal 2005 sotto “control order”. Ci rivela come la perdita della sua libertà, della sua famiglia e dei suoi amici l’abbia portato alla disperazione
DI ELAINE SANER
guardian.co.uk
Strisce di cicatrici chiare percorrono la parte interna delle braccia di Mahmoud Abu Rideh, fino ad arrivare ad una profonda cicatrice all’altezza dei gomiti. Le cicatrici testimoniano anni di autolesionismo, ma i tagli sono stati fatti l’anno scorso in un bagno all’interno di una stazione di polizia nella zona ovest di Londra. Abu Rideh ci si deve presentare tutti i giorni e per qualsiasi motivo, quella giornata fu peggio di molte altre – era su una sedia a rotelle e pioveva forte, il personale allo sportello era stato scortese nei suoi confronti, dice. Si è chiuso in bagno, ha ingoiato una manciata delle pillole che prende per disturbi psichiatrici e si è tagliato le vene delle braccia. Dice che si è risvegliato in ospedale.
Abu Rideh, 37 anni, è sotto “control order”[1] dal 2005. È stato arrestato nel 2001 e detenuto secondo l’Anti-terrorism, Crime and Security Act, ma in otto anni non è mai stato accusato di alcun reato e poiché, qualsiasi esse siano, le prove contro di lui sono “segrete”, non sa neanche di cosa è accusato. Tutto questo ha lasciato questo uomo, che era psicologicamente fragile in partenza, fisicamente e psicologicamente distrutto. Siede in una stanzetta degli uffici del Guardian. Secondo il control order, non può organizzare di incontrarsi con nessuno ma si è presentato alla reception del Guardian per raccontare la sua storia a qualcuno.
È magro e cammina con un bastone, si tiene stretta al petto una borsa che contiene un mucchio di documenti ordinatamente archiviati all’interno di cartelline di plastica. Ha la camicia e i pantaloni puliti e stirati, ma ci sono dei buchi lungo le cuciture. Il suo stato emotivo non dovrebbe sorprendere nessuno dato quello che ha passato, ma lo fa.
Mi guarda fisso e penso che non batta mai ciglio. Sembra nervoso; guarda dietro di sé svariate volte, prima di alzarsi per chiudere la porta.
Ci sono stati altri tentavi di togliersi la vita, e dice di avere pensieri suicida tutto il tempo. Porta un piccolo pacchetto di lamette, incartate ordinatamente ed apre la borsa per farmi vedere quanto è lunga una corda arancione. “Mi voglio impiccare”, dice. “Forse prenderò delle pillole e mi impiccherò nel parco. Mi sveglio di notte e penso, oggi mi butto sotto un treno della Circle line [metropolitana] poi penso, no, un treno della Central line. Poi penso di buttarmi sotto uno dei treni che vanno a Gatwick. Non ce la faccio più”.
Questa settimana i law lords [2]hanno decretato che non è lecito che vengano usate prove segrete per emettere un control order. Non è ancora chiaro cosa significa questo per quanto riguarda i control order – il nuovo ministro degli interni Alan Johnson l’ha definito un “giudizio deludente” e ha detto che tutti i control order, attualmente imposti a 20 uomini accusati di essere sospetti terroristi, rimarranno in vigore – ma, per Abu Rideh, certamente, la sentenza dovrebbe essere motivo di festeggiamento? Scuote la testa. “Non cambia niente”, dice. “Ho già perso tutto. Non ho una vita.”
Proprio poco più di due settimane fa, sua moglie e i suoi sei figli sono partiti per andare a vivere con i genitori della moglie in Giordania. “Non so se li rivedrò mai più”, dice. Per sua moglie e i suoi figli, la vita qui [ndt. nel Regno Unito] era diventata intollerabile. Non era consentito che gli facessero visita gli amici. Erano terrorizzati dai raid della polizia e sostiene che una volta la sua giovanissima figlia è stata perquisita da un poliziotto uomo. Poiché non gli è consentito accedere a internet, neanche i familiari potevano farlo. Il deterioramento del suo stesso stato mentale deve essere stato doloroso da constatare per i figli – non solo i tentativi di suicidio, ma anche le piccole cose, come il padre che si sveglia con gli incubi e il tremore delle sue mani.
Dopo l’11 settembre, Abu Rideh, un rifugiato palestinese, è stato uno dei 17 uomini catturati dalle autorità e detenuti senza essere stati condannati. David Blunkett, allora ministro degli interni, ha detto che Abu Rideh era “un attivo sostenitore di vari gruppi terroristi internazionali, compresi quelli con legami con la rete di Osama bin Laden” ma non è mai stato processato né gli è stato concesso di vedere quale prova di tale sospetto esista.
È stato imprigionato nel carcere di Belmarsh prima di essere trasferito nel carcere di Broadmoor dietro consiglio degli psichiatri. Nel 2005 è stato rilasciato e messo sotto control order, i termini del quale sembrano essere a stento meglio della prigione. Per lo meno in prigione, dice, “posso vedere gente, posso dormire”.
Adesso la sua vita è regolata dalle sveglie. Alle 3 di notte deve svegliarsi per chiamare un servizio di monitoraggio e dopo raramente ritorna a letto; deve richiamare di nuovo alle 7 del mattino quando termina il suo coprifuoco per fare sapere che uscirà di casa. Deve presentarsi tutti i giorni alla stazione di polizia e non gli è consentito di organizzare di vedere nessuno. Sono pochissime le persone che hanno il nulla osta dell’Home Office per potergli fare visita a casa.
Non può avere un conto in banca né un telefono cellulare ed è stato costretto a declinare l’offerta di un posto per studiare inglese in una scuola locale perché gli avrebbe fornito accesso ad internet.
I vicini di casa sono gentili con lui, dice, e cucinano spesso per lui (le restrizioni vogliono dire che non può trovare un lavoro) ma nel migliore dei casi la gente per strada lo ignora; nel peggiore dei casi qualcuno – per lo più ragazzini bianchi – lo chiama “terrorista” e “Bin Laden”. Può andare alla sua moschea, ma dice che tutti lì sono troppo terrorizzati di attrarre l’attenzione della polizia per parlagli. Deve richiamare la società di monitoraggio nel pomeriggio e deve rientrare in casa entro le 7 di sera.
Teme di ritardare per il suo coprifuoco e andiamo in macchina fino alla sua casa nella zona ovest di Londra. Ad un certo punto suona la sirena della polizia dietro di noi, lui fa un sobbalzo. A parte la paura e il costante stress, voglio sapere come affronta l’isolamento e il tedio della sua mezza vita. Che cosa fa tutto il giorno? Scuote la testa e dice di non saperlo “cammino in casa”, dice. “I letti dei miei figli sono vuoti. Mia moglie non c’è. Sono in trappola. Sono un ostaggio”.
Tutti i giorni lo chiamano i suoi legali e il suo imam per controllare che non si sia suicidato – il suo imam gli dice che è proibito, i suoi legali gli spiegano che deve continuare a sperare che un giorno questo limbo finirà.
La sua situazione è talmente orribile che non ha parole per spiegare cosa gli ha fatto. “Sono solo. Non ho amici. Tutti hanno paura di vedermi. Sono fuggito dalla tortura già prima, ed ora vengo torturato dal governo britannico. Sono come una macchina. Non sento niente dentro. Sono già morto”.
Arriviamo a casa sua, ma non posso entrare (sarebbe contro i termini del suo control order) quindi lo lascio al cancello. C’è una piccola bici rosa nel giardino antistante la casa e lui entra in una casa vuota.
Elaine Saner
Fonte: www.guardian.co.uk
Link: http://www.guardian.co.uk/politics/2009/jun/13/life-terror-suspect-control-order
13.06.2009
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI
Per vedere questa intervista, visitate guardian.co.uk/video. Amnesty International ha lanciato un appello, chiedendo che venga revocato il control order di Abu Rideh; www.amnesty.org.uk
Note del traduttore:
[1] control order (letteralmente ‘ordine di controllo’) – ovvero una serie di restrizioni prescrittive emesso secondo l’atto del parlamento inglese ‘Anti-terrorism, Crime and Security Act’ al fine della prevenzione del terrorismo.
[2] Lord rivestiti della funzione di corte d’appello suprema