Senza lasciare traccia

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DI JOE H. LESTER

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Nel momento in cui scrivo è da poco passata la metà di dicembre. Oggi che un gilet si aggira per l’Europa, potremmo dire; capiremo a breve se e quanto l’attentato di Strasburgo abbia contribuito ad appannare la carica ribelle del movimento popolare dei cosiddetti Gilet Gialli (assieme alla promessa dello sforamento del deficit). Senza dilungarmi in contestabili dietrologie, sono corso a sfogliare Del terrorismo e dello Stato del situazionista Gianfranco Sanguinetti, pubblicato inizialmente nell’aprile del 1979 a meno di un anno dal sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. E sull’argomento non aggiungerò altro che non mi compete.

Ma siamo a fine anno appunto, periodo in cui, per convenzione, ci imponiamo bilanci e classifiche più o meno sciocche… A tal proposito la mia non può che riguardare il cinema, poichè, per me, come sostiene Jim Jarmusch nell’episodio numero diciotto della diciannovesima serie dei Simpson (“Ogni maledetto Sundance”): “La risposta è lì dove si trova sempre, in un film”.

Ad esempio il trailer/spot natalizio su Spelacchio sembra esplicitare la simpatia della principale piattaforma di streaming legale per i 5 Stelle; è solo business o sancisce forse l’ombra di un’ alleanza della rete con la rete?

Facezie a parte, per fortuna, e anche per la tranquillità degli esercenti delle sale cinematografiche, nonostante l’uscita (anche) in rete di Roma di Cuarón, negli ultimi giorni siamo tutti tornati al cinema. E considerata la straordinaria mole di film sul grande schermo in questo mese che si accinge a terminare, mi viene inutilmente da suggerire ai distributori di spalmare meglio i film lungo tutto l’anno, più prima che dopo, per incassare innanzitutto e dar modo al pubblico, volendo, di non perdersi un solo film. Insomma, più di 20 titoli, concentrati inoltre in un mese di blockbuster e cinepanettoni, non saranno un po’ troppi per ricevere ognuno la giusta attenzione? E che fine ha fatto The Sister brothers? Inutile premiarlo a Venezia a inizio settembre 2018 se poi si decide di mostrarlo alla volgare “plebaglia”, di cui mi onoro di far parte, soltanto a maggio 2019!

Così in molti sono corsi a vedere Bohemian Rhapsody, la versione edulcorata della carriera dei Queen – che a me interessa poco al pari di Sacha Baron Cohen, l’attore che inizialmente doveva interpretare Freddie Mercury, o del regista Bryan Singer licenziato per aver abbandonato il set – tanti altri invece hanno comprato i biglietti dell’innocua reunion Boldi/De Sica. Personalmente, durante tutto quest’anno, non solo in queste feste, avrei desiderato vedere alcuni film che immagino essere belli e risparmiarmi altri… Oltre l’allucinazione collettiva Marcello Fonte, la cui dimessa giacca nera tempestata da vezzose spillette colorate (come i capelli di Vanellope von Schweetz in Ralph Spaccatutto!) alla premiazione degli European Film Awards dice tutto sull’autentica umiltà del personaggio; so bene che A star is born vincerà probabilmente qualche premio importante agli Oscar 2019 (com’è consuetudine per i film che aprono Venezia da qualche anno a questa parte) e l’ho anche visto, tra le risate sarcastiche della mia compagna. Lo rispetto, rispetto la mitologia da cui discende e che nuovamente adatta a beneficio delle nuove generazioni, ma diciamo che non è proprio il mio genere. Riceverà molti riconoscimenti anche Green Book del buon Peter Farrelly e forse persino l’ultima Mary Poppins, molto lontana da quella creatura magica e asessuata interpretata da Julie Andrews che portava la rivoluzione in casa Banks e ci lasciava intendere, neanche troppo sottilmente, come fossero le banche gli antagonisti, nostri, e della pellicola originale. A proposito de Il ritorno di Mary Poppins, nonostante fosse prevedibile, visti i tempi, un ribaltamento dei presupposti che animavano il prototipo, mai avrei immaginato tanta sfacciataggine (SPOILER!): ci viene raccontato che fu giusto non dare i famosi “due penny” alla vecchina dei piccioni perché oggi ci si può estinguere l’ipoteca sulla casa.

Ho visto pure quel noiosissimo prodotto di propaganda atlantista in maschera che è Animali fantastici – I crimini di Grindelwald (vedetelo e capirete cosa intendo), ma come il primo episodio mi ha fatto sonnecchiare e non me ne spiego due cose. La prima: come mai continui a vedere i film di questa serie diretti dal limitato mestierante David Yates… ah sì, già, io guardo quasi tutto. La seconda: com’è possibile che una scrittrice che in molti descrivono capacissima come la Rowling tiri fuori una roba tanto soporifera. Evidentemente il linguaggio cinematografico non è proprio il suo mezzo. Per fortuna c’è un buon Johnny Depp nel ruolo del cattivo mago hitleriano di turno, dalla capigliatura trumpiana (che palle, che banalità!) a risollevare un poco il tutto. Attenzione che vien proprio da parteggiare per lui e poi magari un giorno ci meraviglieremo se la terza guerra mondiale sarà scatenata da qualche post-Millennial. Se piuttosto volete rallegrarvi con prodotti mainstream di qualità, andate tranquillamente a vedere intelligenti e brillanti giocattoloni come Un piccolo favore, Bumblebee e il metacinefumetto Spider-man: un nuovo universo (il quale meriterebbe un articolo tutto per sé).

Una considerazione a parte la merita Roma di Alfonso Cuarón, film evento in quanto vincitore del Leone d’oro e papabile vincitore del premio Oscar al miglior film in lingua straniera, ma appunto distribuito in rete. Formalmente splendido, nella messa in scena geometrica, nel luminoso bianco e nero della fotografia, nella cura dei dettagli (quelle cacche di cane mi hanno fatto impazzire!). Ma cos’è Roma? Si tratta, in parte, dei ricordi tra il 1970 e il ’71 dell’infanzia del regista nel quartiere residenziale Colonia Roma nel centro di Città del Messico, visti attraverso gli occhi di Cleo, indigena messicana domestica della sua famiglia (che nella realtà si chiama Libo), unica a poterci accompagnare, mentre noi la pediniamo come voyeur, da una classe sociale all’altra. Eppure, nonostante sia molto bello da guardare, nonostante la precisione della ricostruzione storica (vedi il massacro del Corpus Christi), il film emoziona poco, forse perché i ricordi di una persona non sempre sono un film, forse perché lo spettatore più indulgente di quei ricordi non può che essere lo stesso regista.

A me comunque ha quasi infastidito la resilienza (assenza) di questa bambinaia/”sguattera” (come l’apostrofa il personaggio di Fermín). Una yes woman che non si pone domande, non ha dubbi, mai disobbedisce o contesta qualcosa. E diversi anni dopo avrà indietro una dedica prima dei titoli di coda. Piuttosto che il film diretto da uno dei figli della famiglia benestante ritratta, a chi scrive sarebbe piaciuto vedere quello diretto dalla figlia o da un figlio di Cleo o proprio da Cleo stessa. Ma la realtà, si sa, è molto diversa dai nostri desideri.

Per concludere quest’ultima riflessione del 2018 su cinema e dintorni, vorrei concedermi un salto indietro al mese di novembre e segnalare quello che ritengo il film migliore dell’anno (ancora però non mi riesce di vedere Un affare di famiglia di Kore’eda Hirokazu), passato nelle sale, almeno in Italia, quasi come ci comunica il suo stesso titolo: Senza lasciare traccia.

A scocciarmi soltanto il fatto che il film in questione rientri persino nella classifica di quelli che più ha gradito l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama (già, fa le classifiche), come anche Un affare di famiglia (Shoplifter).

Innanzitutto la trama: Will (il bravissimo Ben Foster che parla poco, ma di cui capiamo ogni pensiero) è un ex veterano affetto da disturbo post-traumatico che vive in una foresta vicino Portland con la dinoccolata figlia di tredici anni Sam (l’attrice si chiama Thomasin McKenzie e quant’è caratteristico il suo faticoso modo di camminare). I loro contatti con la società sono ridotti al minimo, giusto per procurarsi del cibo in più e talvolta denaro, finché i servizi sociali non li costringeranno a vivere, lavorare e andare a scuola, presso una comunità dell’Oregon. Scaltrissimo il film nel mostrarcene in breve alcune assurdità: la chiesa e l’invadenza del pastore, l’esposizione del “coniglio più bello”, l’assurdo lavoro di tagliare alberi di Natale affidato proprio a un uomo che vorrebbe vivere nei boschi! Naturalmente le condizioni di vita imposte andranno strette, più al padre che alla figlia, e così la fuga ricomincerà. Tra aree di servizio, passaggi in camion, notti trascorse in gelidi boschi, di cui ci sembra di percepire realmente l’ostilità, o in rifugi abbandonati, fino all’imprevisto che li costringerà a fermarsi in un piccolo villaggio di case su ruote popolato da gente molto simile a loro, in cerca di pace o forse in fuga da qualcosa, gestito dalla comprensiva e materna Dale Dickey (che brava quest’attrice dai lineamenti marcati, capace di passare facilmente dal comico al dramma). Lì in qualche maniera avverrà la resa dei conti interna a questa piccola famiglia. Senza spoilerare troppo, la risposta è contenuta nel titolo originale del romanzo di Peter Rock da cui è tratto questo film. Ci si commuove realmente quando, minuti prima di vederglielo fare, capiamo che anche Sam appenderà un sacco a un albero e che forse lei non è altro che una giovane Dale.

Con uno stile di regia sobrio e misurato, la magistrale Debra Granik, al suo terzo lungometraggio non documentaristico, a otto anni dall’altrettanto fenomenale Un gelido inverno (che lanciò la carriera della giovane Jennifer Lawrence pre-Hunger Games), si dimostra a oggi una dei registi più capaci e con più personalità. Speriamo di non dover aspettare troppo per vedere un’altra sua, pur ponderatissima, opera. Ed è incredibile, a ben pensarci, la semplicità con cui ci presenta un film che è esattamente quello stesso “gelido inverno” visto in uno specchio deformante, il suo gemello eterozigote. Addirittura ritrovare la Dickey in un ruolo totalmente inverso, sempre a capo di una comunità di reietti, ma positiva quanto l’altra era negativa (in Missouri, sull’altopiano dell’Ozark, dedita alla produzione di metanfetamine). E che emozioni amplificate è in grado di trasmettere questo film, a chi ha visto l’opera di finzione precedente di questa regista, una scena in cui la figlia prende una mano del padre incosciente tra le sue… Sì, decisamente è da consigliare la visione di Un gelido inverno e Senza lasciare traccia uno dopo l’altro, per poterne al meglio apprezzare la specularità.

Poi, certo, c’è anche qui il tema delle responsabilità del Padre, dell’eredità dei padri, ma questo, chissà perché è un argomento tipico e fondativo di tutto il cinema americano. Magari è la traccia più evidente lasciata da quello che considerano il più grande best seller mai pubblicato, la Bibbia, oppure ha a che fare con la storia dei Padri Pellegrini, non so. Ma provate voi a fare questo giochetto: ditevi un titolo qualsiasi appartenente alla filmografia statunitense e vedrete che, con molta probabilità, nella trama, in ciò che la muove, nei suoi sviluppi o nei suoi personaggi principali c’entra (e manco poco) la figura del Padre.

Tralasciando questo fattore, genetico del cinema made in USA, quanto è singolare, libera e appassionante la bella voce di Debra Granik nell’attuale panorama cinematografico. Sarebbero bastati gli stranissimi titoli di coda, composti da comuni dettagli di piante e rami, in qualche modo rilassanti se li immaginiamo fruiti da qualcuno affetto da stress post-traumatico, a convincermi del valore di un film che dimostra una straordinaria empatia degli autori nei confronti dei personaggi che ritrae o mette in scena. Ed è proprio questa vicinanza partecipata della Granik ai personaggi di cui ha scelto, per ora, di farsi portavoce a colpirmi maggiormente. Quasi lascia attoniti (dopo il forse eccessivamente melodrammatico Into the wild di Sean Penn e il falsissimo Captain Fantastic di Matt Ross, che affrontano tematiche simili) tanta sincera immedesimazione nei confronti di un uomo il cui rifiuto del mondo può “suggerire degli estremi di devozione ascetica da un lato, degli atti di sfida totale e clamorosa del codice morale vigente dall’altro” (Gli anarchici, James Joll, Il Saggiatore II°, Milano, 1970, pag. 18).

Un film semplice e potente, che ci costringe infine a riflettere sull’opportunità e il diritto a una comunità “senza obblighi né sanzioni”. E nonostante la commozione per la scena cruciale, nonostante quanto possa essere contrario o incapace di emulare la decisione estrema del protagonista, non riesco a non provare una profonda ammirazione, forse perfino invidia, per il coraggio che possiede chi lascia il sentiero tracciato dagli altri uomini e si addentra nel bosco, lontano dallo sguardo indiscreto della società e dalle lusinghe dei suoi feticci, scomparendo infine senza lasciare traccia.

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

dicembre 2018

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