Scudieri nel Post-Millennials World

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DI JOE H. LESTER

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Ho visto Il sacrificio del Cervo Sacro. L’ho visto e, al pari di quanto dichiarato dal protagonista Colin Farrell in una video-intervista, non saprei ben dire di cosa parli. Intendiamoci il film ha un’idea di base anche facilmente riassumibile, che forse meglio si sarebbe adattata al cortometraggio, tanto la espone velocemente l’inquietante ragazzino coprotagonista (Barry Keoghan) a quasi metà di un film dai tempi insopportabilmente dilatati. Martin Lang, questo il nome del personaggio, spiegherà allo stimato cardiochirurgo Steven Murphy (Colin Farrell, appunto) che essendo responsabile della morte del padre durante un’operazione (pare avesse bevuto), per riequilibrare la situazione deve adesso uccidere un membro della propria famiglia. La salute dei suoi figli e della moglie (Nicole Kidman) è destinata a deteriorare attraverso una serie di fasi (paralisi degli arti inferiori, inedia, sanguinamento dagli occhi e infine morte), finché non deciderà chi dei tre sacrificare. Sempre Martin dirà in seguito alla moglie del medico: “è l’unica cosa che mi viene in mente che sia vicina alla giustizia”.

Tutto molto ben fatto, registicamente, dal punto di vista della recitazione e della fotografia. Eppure non sono riuscito a comprendere con precisione cosa volesse raccontare un film che tematicamente ammicca ad Haneke e stilisticamente a Kubrick, ma che al contrario delle opere dei due mestri non è chiaro dove voglia andare a parare (soprattutto di Kubrick che semplicemente per ogni suo film affrontava un genere rendendolo universale). Il sacrificio del Cervo Sacro tratta di vendetta, legge del taglione, del disfacimento di una ricca famiglia borghese, delle colpe dei padri, delle conseguenze delle nostre azioni o della falsità dei rapporti parentali? All’autore importa realmente affrontare qualcuno di questi temi? E se con questo film volesse solo scioccare? Che si tratti dell’ennesima furba operazione commerciale ammantata dell’autorialità europea che agli Stati Uniti tanto piace, con due star a fare da traino al botteghino?

Certo il greco Yorgos Lanthimos è molto bravo, sa costruire microcosmi fuori dalla realtà, distopie organizzate secondo regole allucinanti, come nel migliore e più divertente The Lobster (sempre con Farrell), in cui si racconta di un mondo dove se non fai coppia con qualcuno lo Stato ti trasforma in un animale a tua scelta e per evitarlo esistono centri di recupero in cui cercare partner con la tua stessa peculiarità (il claudicante con la claudicante, il balbuziente con la balbuziente e così via).

Ugualmente in questa nuova pellicola riscontriamo una variegata simbologia: l’attrazione per le mani del chirurgo, la moglie che si finge anestetizzata per eccitare il marito, il ricatto sessuale soddisfatto tramite la masturbazione, gli orologi al polso dei vari personaggi maschili, eccetera. Eppure stavolta il postulato sembra sconcertare almeno un po’, non solo lo spettatore, ma anche i protagonisti: com’è possibile che la volontà di Martin Lang possa far ammalare e morire i membri della famiglia Murphy come una sorta di maledizione?

Poi il film è costellato da una tale mole di amene assurdità volontarie che in realtà la domanda si perde, prima fra tutte il fatto che non v’è alcun timore della legge e sbarazzarsi del cadavere di un proprio familiare pare non comporti grossi problemi. Tanto che quando arriva, la scena di pianto disperato del dottore protagonista non coinvolge minimamente, ma lascia indifferenti. In ogni caso la questione dei misteriosi poteri di Martin mi ha colpito, come pure l’inesorabile invasione della privacy della famiglia Murphy da parte di questo post-Millennial “diversamente emotivo”, così educato e spietato, con un senso della giustizia tutto suo, estremamente romantico e privo di empatia assieme, capace di far innamorare (nonostante tutto) la figlia del protagonista e solo con lei, a un certo punto, di comunicare telepaticamente (non è Whatsapp ma gli somiglia).

Se riconosciamo al cinema e all’arte in generale la capacità di prevedere il futuro e di sottolineare aspetti della realtà che cosciamente ancora non rileviamo, credo che questo stia facendo la filmografia del momento e che più o meno volutamente se lo chieda anche Lanthimos: chi abbiamo creato? Come ragionano e cosa combineranno Loro?

Chi sono Loro? Non quelli di Sorrentino per carità, bensì i post-Millennials, la iGeneration, la Generazione Z, i cosiddetti nativi digitali, coloro i quali ogni giorno sono in grado di sbalordire chi ha modo di frequentarli assiduamente (perché genitore o insegnante ad esempio). Loro la cui mente funziona differentemente dal nostro in quanto sono stati piazzati fin dalla nascita davanti a qualche black mirror attraversato da luce (vedasi l’esperimento di Fordham riguardo gli effetti di maggiore emotività e minore lucidità provocati dalla cosiddetta “luce attraverso”). Loro sono di difficile interpretazione talvolta, ma non è detto siano sbagliati, forse soltanto la nostra evoluzione; l’uomo del futuro una cui porzione di cervello è sempre online e quindi parte di un’unica coscienza digitale, una rete formicaio di cui però non sappiamo dire se risponda a se stessa o a qualcuno in particolare.

Di Loro il cinema già ci parla, in maniera anche più abbordabile di questo laconico film surrealista. Come sempre i blockbuster sono più efficaci del cinema autoriale e me ne rendo conto ancora una volta paragonando questa pellicola al titolo più commerciale del mese scorso: Jurassic World – Il regno distrutto. Un film diretto da un raffinato professionista, ma sceneggiato con l’accetta. Dove i presupposti sono paradossali come in un film della The Asylum (la casa di produzione di Sharknado per intenderci), i personaggi sono bidimensionali e compiono scelte mano a mano più insensate che servono semplicemente a portarli dal punto A al punto B, secondo il volere di uno sceneggiatore forse svogliato, ma desideroso di accontentare il pubblico più vasto. O forse ancora interessato solo a illustrare una tesi in forma di metafora filmica. Non può essere un caso se in una vicenda piena di dinosauri, i dinosauri siano poco più che comparse portate in giro per il mondo come bagagli. Perché la vera protagonista del film è Maisie Lockwood la ragazzina interpretata da Isabella Sermon. La sua linea narrativa è l’unico vero motore d’interesse in un film altrimenti saturo di azione innocua. Chi è in realtà la misteriosa ragazzina che si aggira nel maniero in cui si svolge metà film? Chi l’ha generata e perché?

SPOILER, naturalmente.

Si verrà a scoprire che Maisie è il clone della figlia del ricco magnate/scienziato Benjamin Lockwood, morta anni addietro in un incidente d’auto e ricreata geneticamente dallo stesso Lockwood con la tecnologia inizialmente sviluppata per riportare in vita i dinosauri. Sarà infine la giovane Maisie, messa fisicamente davanti al proverbiale pulsante rosso, ad avere il coraggio e l’ingenuità di premerlo liberando i cloni dei mostri preistorici nel mondo: “Loro sono come me”, dirà.

Ancor più chiarificatrice l’audizione del matematico Ian Malcolm, interpretato dall’istrionico Jeff Goldblum, il quale apre e chiude il film, spiegandoci quanto tendiamo erroneamente a immaginare il cambiamento come un qualcosa di graduale, mentre invece spesso si presenta improvviso (l’eruzione vulcanica) e citando il romanzo originale di Michael Crichton sostiene: “tutti i principali cambiamenti sono come la morte. Non puoi vedere l’altro lato finché non ci sei”.

Un appunto mentale riguardo una mia precedente riflessione su L’isola dei Cani [1] di Wes Anderson, mi ha fatto pensare che anche lì, nonostante le rivoluzionarie vicende dei protagonisti principali, canidi e non, a essere realmente risolutore è un ragazzino nerd, perlopiù nascosto dietro una tenda e che ci viene a stento presentato.

Ed è lancinante vedere come il cinema americano interpreti l’altra faccia della medaglia, cioè come stiamo messi noi, le generazioni che li hanno preceduti. La visione di End of Justice – Nessuno è innocente da questo punto di vista è stata straziante. Il titolo originale del film è Roman J. Israel, Esq. (perché cambiamo i titoli originali in altri sempre in inglese, ma del tutto inventati? Boh…), vale a dire nome e cognome del protagonista, un avvocato di mezza età, con un passato da attivista per i diritti civili degli afroamericani, schierato dalla parte dei più deboli e per questo ridotto pressocché sul lastrico ai margini della società. Un eccentrico fuori dal tempo, una figura patetica, magistralmente interpretata da Denzel Washington, che a tratti diventa gigante anche e soprattutto quando, dopo aver preso coscienza nell’arco di una settimana di quanto fallimentare sia stata la sua esistenza, commette il primo e unico atto immorale. Un reato che nonostante la redenzione lo condurrà infine dove è logico.

“O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”, diceva Aaron Eckhart ne Il Cavaliere Oscuro. “Siamo migliori della cosa peggiore che abbiamo fatto”, ribatte Denzel Washington nei panni di Roman J. Israel. Esq., cioè Esquire (scudiero), il titolo di cui si fregia nel suo biglietto da visita questo radicalissimo brav’uomo che non ha l’ardire di paragonarsi a un Cavaliere.

Un uomo buono Roman, uno di quelli cui noi tutti dobbiamo qualcosa, come spiegherà il personaggio di Carmen Ejogo, responsabile dell’Assemblea Nazionale per i Diritti Civili, a un giovane volontario che lo definisce svitato: “sei in debito con gente come lui”. La donna vede in Roman un’ispirazione e lo invita a intervenire a una riunione con dei militanti “per parlarci dei nostri diritti e di cosa accade se ci arrestano”.

Presentandosi in pubblico, prima teneramente imbarazzato, Roman finirà a parlare di rivoluzione sociale, del “battersi contro le forze determinanti della nostra società” e del “vivere da oppositori”. Finché per educazione chiederà a dei fratelli di far accomodare due sorelle rimaste in piedi che paiono non aver trovato posto a sedere. In cambio avrà spietata la risposta di una delle ragazze: “se vogliamo sederci lo chiediamo” e “non sono tua sorella stronzo”.

Ecco qua, povero Roman J. Israel, pubblicamente umiliato da quello stesso orgoglio femminista per cui probabilmente si sarà battuto in passato. Come può lui e tanti altri soggetti realmente esistenti, brave persone che sono state fondamentali, che hanno avuto e ancora meritano un ruolo, anche soltanto di memoria storica, raccapezzarsi in questo mondo, con questa gente e questo nuovo aggressivo politically correct che alla lunga si rivelerà controproducente per i diritti stessi e pieno di vistose contraddizioni, ma che pure hanno contribuito a formare?

Figuriamoci quali strumenti ha Roman J. Israel per capire il mondo che verrà, lui che non comprende (o accetta) manco il suo nuovo datore di lavoro (sempre Colin Farrell, to’!) appartenente alla famigerata Generazione X, lui che come i dinosauri succitati è condannato all’estinzione per far spazio a una nuova specie.

E mentre la stampa si interroga circa il pericolo rappresentato da presidenti e dittatori messi al cospetto del pulsante rosso, il cinema già si chiede: cosa succederà quando a controllare quel pulsante sarà un post-Millennial, qualcuno creato da noi, o comunque qualcuno votato da Loro? La risposta che il mezzo si dà è che per un emotivo sentimento di giustizia quel pulsante verrà premuto. E potrebbe essere allora il Loro mondo, il mondo nuovo. Perché in fondo vogliamo vedere mostri e dinosauri geneticamente modificati a spasso per il nostro pianeta: quant’è bella l’apocalisse!

Intendiamoci, per questo adoro il cinema e ne ho profondo rispetto, nella speranza che queste mise en scène, catartiche quanto il sogno, aiutino a contenere certi desideri distruttivi al di là dello schermo. Basterà?

La giovane Raffey Cassidy, già vista in Tomorrowland – Il mondo di domani, nella finzione filmica figlia del Dr. Murphy, in una scena de Il Sacrificio del Cervo Sacro canta a Martin Lang una versione acustica di Burn, di Ellie Goulding. Queste le strofe:

“Noi, non dobbiamo preoccuparci di nulla
Perché abbiamo il fuoco, e stiamo bruciando qualcosa di infernale
Loro, loro ci vedranno dallo spazio, dallo spazio
Accendilo, come se fossimo le stelle della razza umana, la razza umana

Quando le luci si abbassano, non sanno cosa hanno sentito

Accendi il fiammifero, alza il volume, dando amore al mondo

Solleveremo le nostre mani, splenderemo nel cielo

perché noi abbiamo il fuoco, fuoco, fuoco

Sì, noi abbiamo il fuoco, fuoco, fuoco

e lo lasceremo bruciare, bruciare, bruciare, bruciare…”

 

Capito?

Benvenuti nel Post-Millennials World.

 

Joe H. Lester, luglio 2018.

 

[1] Mi è stato chiesto cosa intendo quando scrivo che credo di riconoscere il regista Wes Anderson nel personaggio di Chief ne L’isola dei Cani, il randagio che si lascia addomesticare dal giovane ribelle, ma di buona famiglia (e infatti Atari è il nipote adottivo di Kobayashi l’autoritario sindaco di Megasaki). Ebbene sono fantasiose speculazioni le mie, tutto qua. Lo stesso Anderson ha raccontato di quanto, da piccolo, sia stato segnato dal divorzio dei genitori. Non è un caso se gran parte della sua filmografia racconti di famiglie, di figli in cerca di padri o di padri in cerca di figli. Possiamo quindi immaginare che pure Anderson si sia lasciato adottare dalla famiglia Coppola e dai suoi rampolli: Roman figlio di Francis, autore e produttore di alcuni dei suoi ultimi titoli, mentre il cugino Jason Schwartzman, figlio di Talia sorella di Francis, è oramai una consueta presenza nei suoi cast. E come Chief, ma più spudoratamente, anche il personaggio di Owen Wilson ne I Tenenbaum, lo scrittore di successo Eli Cash (ufficialmente ispirato a Corman McCarthy), immotivatamente da sempre desidera essere un membro della prestigiosa, ma decadente famiglia di talenti falliti: “I always wanted to be a Tenenbaum, you know?”.

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