Razze, popoli, culture: si torni a parlarne senza tabù

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Francesco Lamendola
accademianuovaitalia.it

La vicenda del ragazzo ivoriano che alla fine di giugno ha ucciso e cucinato un gatto per la strada, e poi si è messo a mangiarlo, di fronte alla stazione ferroviaria di Campiglia Marittima, così, davanti a tutti, incurante di ciò che provavano i passanti e anzi stupito delle loro reazioni, e meravigliato di essere stato portato alla caserma dei carabinieri, dove gli è stato notificato un avviso di reato ma è stato anche prontamente rimesso in libertà, crediamo sia una di quelle piccole grandi cose che segnano uno spartiacque, la goccia che fa traboccare il vaso. Anche se le anime belle animaliste e ambientaliste hanno brillanto, ancora una volta, per la loro totale assenza e il loro fragoroso silenzio, così come le signore e signori femministi erano stati colpiti da mutismo improvviso in occasione degli stupri di Colonia del Capodanno 2016, quando 400 donne tedesche vennero aggredite, derubate, e in parte violentate da decine d’immigrati nordafricani. Certo, si tratta di due cose di ben diverso ordine di grandezza: pure, a noi sembra che abbiano in comune il tratto essenziale: l’arroganza e l’inciviltà dei cosiddetti migranti. Se gli autori degli stupri di Colonia fossero stati degli europei, si può bene immaginare quale sarebbe stata la reazione dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica e delle autorità; così come se il povero gatto fosse stato arrostito e mangiato sotto gli occhi dei passanti da un bianco, tutti i nobili difensori degli animali, i vegetariani, i vegani, gli ecologisti, ecc. sarebbero insorti e avrebbero chiesto i più severi provvedimenti contro lo scellerato, il criminale. Invece niente: era un negro (si può dire?), quindi massima indulgenza e massima comprensione.

Era arrivato nel 2018, a ventuno anni, e aveva fatto richiesta d’asilo: richiesta respinta per l’insussistenza delle motivazioni. E come tutti gli altri suoi simili, non che rassegnarsi, aveva fatto appello: tanto, paghiamo noi italiani. Così, dopo essere stato ospite di un centro di accoglienza, adesso era senza dimora e vagava qua e là, ma tecnicamente non è un clandestino; perdio, nel Paese del garantismo d.o.c. un cittadino (cittadino?) è innocente e immacolato fino a prova contraria, cioè fino al terzo grado di giudizio. E così è proibito chiamare clandestino un clandestino, si rischia una multa nonché l’accusa di razzismo; e, nel caso di un giornalista, si rischia la sospensione, se non l’espulsione, dall’albo professionale. Dunque, questo ragazzo di ventitré anni senza fissa dimora, e perciò abituato a vivere di espedienti, evidentemente illegali, non può essere chiamato clandestino, né trattato come tale: bisogna aspettare che il tribunale di Firenze si pronunci sul suo ricorso. E poi, immaginiamo, bisognerà aspettare l’ulteriore ricorso, magari fino al Tribunale dei diritti dell’uomo in sede O.N.U, se lo Stato italiano razzista e cattivo si ostinerò a negare il suo buon diritto a essere considerato un profugo. Anche se arriva, come migliaia di altri simili a lui, da un Paese africano che non è in guerra, ove non esiste alcuna particolare emergenza umanitaria e dove non si capisce perché chi può pagare tre o quattromila dollari per la traversata in Italia non potrebbe usare quel capitale per creare un’onesta attività economica a casa propria. Ma no: in omaggio al buonismo, all’internazionalismo, al migrazionismo tanto predicati da una bella fetta del mondo politico italiano, da quasi tutto il mondo della cosiddetta cultura e da tutta la chiesa che si dice cattolica, ma non lo è, essendo eretica, atea, modernista e massonica, capitanata da un avventuriero argentino abusivamente eletto papa e talmente sfrontato da ingannare un miliardo e trecento milioni di fedeli, quelli come il mangiatore di gatti di Campiglia Marittima o come gli spacciatori a tempo perso ospiti del prete che canta in chiesa Bella ciao vanno capiti, scusati, giustificati. Certo, ciò che ha fatto non è precisamente carino: però bisogna capirlo, aveva fame – questo infatti è ciò che ha detto ai carabinieri per giustificarsi – e inoltre, nella sua cultura, non c’è niente di strano nel fatto di cucinare un gatto, un cane, un topo, una scimmia, un serpente, o qualsiasi altro animale capiti a portata di mano. Ecco, questo appunto è ciò su cui vorremmo soffermare l’attenzione. Sul fatto che la fame scusi il suo gesto, ci sarebbe molto da dire; la signora che per prima lo ha ripreso, glielo ha detto subito: E non dire che hai fame, perché vedo che hai un pacchetto di sigarette: allora potevi usare quei soldi per comprarti qualcosa da mangiare. Il problema comunque non è la fame, ma l’incompatibilità culturale.

Tale aspetto è stato colpevolmente ignorato o minimizzato da tutti i responsabili della sua gestione e da quasi tutti gli scrittori, i giornalisti, politologi, antropologi, sociologi ecc., ma è e resta il problema numero uno: grande come una casa, pressoché insormontabile. Le culture esistono; i popoli esistono; le razze esistono; esistono le differenze nei modi di sentire, di pensare, di vivere; ed esistono delle differenze così grandi che la convivenza pacifica, per non dire la tanto decantata (mai però vista) integrazione risultano semplicemente impensabili. Perfino fra popoli vicini, con la stessa religione, con una lingua non molto diversa, con delle abitudini non troppo differenti, la convivenza è problematica. Chi ha amici francesi, svizzeri, tedeschi, sloveni o croati, per contare solo i popoli geograficamente più prossimi all’Italia, o chi ha sposato un coniuge di una di queste nazionalità, lo sa bene, per esperienza vissuta: i modi di pensare e di vedere la vita sono così diversi che ci vogliono molto amore, molta pazienza e molta fortuna perché non giungano a incrinare i rapporti o mettere in crisi i matrimoni. Non si tratta di superiorità o inferiorità di questi o di quelli: si tratta di diversità; e la possibilità di vivere insieme con l’altro, in buona armonia, dipende sovente dalle piccole cose, dalle abitudini quotidiane più che dai grandi valori o dalle grandi idee astratte. Una cosa è visitare un Paese straniero come turista, una cosa ben diversa è fermarsi a viverci. Ci sono cose, abitudini, modi di fare, che un tedesco non sopporta negli italiani, e un italiano non sopporta nei tedeschi: eppure, brave persone gli uni e gli altri, nessuno lo mette in dubbio. Da alcuni decenni, però, il cinema, la televisione, la letteratura, la scuola ci vogliono persuadere che non c’è niente di più semplice, per un africano, che stabilirsi in Italia (be’, diciamo qualche centinaio di migliaia di africani, anzi qualche milione di africani), e andare perfettamente d’amore e d’accordo coi loro vicini italiani, e questi con lui.

Ci dicono e ci ripetono che non c’è niente di più naturale, per una ragazza italiana, che innamorarsi di un ragazzo africano di religione islamica, sposarlo e mettere su una famiglia. Nessuno si azzarda a prospettare i pericoli, le incompatibilità, le incomprensioni, per esempio sulla questione dell’educazione dei figli, o sul ruolo riservato alla donna in una famiglia islamica: se lo facesse, verrebbe bollato automaticamente come razzista, o, nel migliore dei casi, come un inguaribile pessimista, una persona dalle vedute ristrette, incapace di stare al passo coi tempi. Cioè i tempi luminosi della globalizzazione, dove uomini, merci e capitali viaggiano in lungo e in largo per ogni dove, le frontiere perdono significato e l’umanità diventa una sola, grande famiglia, con un solo governo (indovinate di chi?) e una sola, grande madre. Come sarebbe, chi?, ma la Madre terra, si capisce, la Pachamama; chiedetelo al falso papa argentino, che ve lo spiegherà bene. Ad ogni modo, il problema rimane e nessuna chiacchiera, nessun ricatto morale possono far sì che scompaia come se non esistesse: quando due culture sono troppo diverse, è cosa difficilissima che l’una si adatti all’altra. Può funzionare per un numero limitato di persone, non per milioni; e dopo qualche generazione, non da un giorno all’altro. Si guardi il problema dei negri negli Stati Uniti d’America: sono nati lì, appartengono a quella società da sei, sette, otto generazioni: eppure non si integrano, tranne ai livelli più alti, vale a dire i più benestanti. Nelle periferie del Sud non vanno d’accordo coi bianchi, e nelle città della costa Ovest non vanno d’accordo con gli asiatici – per usare un eufemismo. E non è che siano discriminati: sono loro stessi che nutrono sentimenti razzisti verso gli altri. Chiedetelo a chiunque sia stato da quelle parti e abbia osservato come si comportano. Oppure chiedetelo ai bianchi del Sudafrica dopo il 1991, cioè dopo la fine dell’apartheid: vivono letteralmente nel terrore, perché rischiano di essere aggrediti, rapinati e uccisi in casa propria da bande di criminali neri, senza che i mass media politicamente corretti, anche nostrani (o soprattutto i nostrani) si ricordino di farne parola. Mentre prima, quando il razzismo veniva dai bianchi, c’erano un servizio o un articolo al giorno: gonfi d’indignazione e grondanti di lacrime. Che bello sentirsi buoni quando si tratta di parlare male della propria razza e lamentare i torti che essa infligge alle altre. E che bello, per i tedeschi, rivangare senza posa nella piaga dell’antisemitismo, parlare a scuola di Auschwitz tutti i santi giorni; che meraviglia sentirsi sporchi, indegni, colpevoli.

Che bello per gli italiani rievocare con disgusto il fascismo, a più di settant’anni dalla sua scomparsa definitiva; che gusto per gli intellettuali agitarne lo spettro ogni volta che qualcuno cerca di opporsi agli effetti più perversi della globalizzazione, che qualcuno sostiene il diritto alla difesa dei confini e alla selezione degli immigrati – posto che l’immigrazione illegale degli africani in Italia sia un destino scritto nel libro della Storia e che volerla contrastare o cercare di limitarla, siano patenti manifestazioni di fascismo. Ma soprattutto: esiste forse una qualche speranza di’integrare gli stranieri se essi sono animati da un minimo di buona volontà; se nutrono un minimo di amore e rispetto verso il Paese che li accoglie, li sfama e offre loro un futuro; se sono disposti a rinunciare a un minimo delle loro usanze e abitudini, almeno a quelle più palesemente incompatibili con la nuova società. Ma se essi vengono con spirito di conquista e animati da disprezzo; se il loro obiettivo non è crearsi un futuro lavorando onestamente, ma occupare un Paese che ad essi appare ricco e imbelle, sfruttandolo da perfetti parassiti; se ciò che vogliono è imporre la loro cultura e la loro religione, e pretendere sempre nuovi diritti senza contrarre alcun obbligo, neanche di tipo morale: allora ci saranno sempre ragazzi che cucinano i gatti e se li mangiano per la strada, e altri che stuprano, uccidono e tagliano a pezzi le loro vittime: perché quella è la loro cultura, e pretendere di criticarla sarebbe razzismo. Infatti, la linea di difesa prontamente adottata dai nostri bravi signori e signore progressisti e buonisti, è stata proprio questa: bisogna capire, non giudicare, nei loro Paesi si usa così. Ed è vero. In quelle culture, si usa uccidere e mangiare i gatti per la strada; e la mafia nigeriana è solita smembrare i corpi delle sue vittime, anche perché nei suoi delitti droga e stregoneria vi svolgono un ruolo importante. Ma guai a dirlo: si passa per razzisti. Difatti c’è un solo intellettuale italiano che osa parlarne apertamente, Alessandro Meluzzi: tutti gli altri, zitti e mosca.

Per una strana forma di odio di noi stessi, alimentata per decenni dai Padroni Universali attraverso i mezzi d’informazione e la scuola stessa, in conformità al Piano Kalergi, tolleranza e comprensione sono riservate solo agli stranieri che vengono da lontano. E perciò tutti ad applaudire la brava Silvia Romano, rapita dai terroristi islamici e felicemente tornata in Italia convertita all’islamismo, spot vivente del modo di vivere islamico, cominciando dal cambio del nome e degli abiti: uno spot pagato a salatissimo prezzo dai contribuenti italiani. Ma se a una ragazza nigeriana lanciano delle uova, magari non per razzismo ma perché suo padre è un emerito delinquente (ricordate il caso, tanto strombazzato dai media, della pesista Daisy Osakue?), apriti cielo, è tutta la nazione che deve fare ammenda. Nessuno ha visto i signori e le signore del politicamente corretto inginocchiarsi in riverente silenzio per la memoria di Pamela Mastropietro, la povera ragazza italiana stuprata, uccisa, tagliata a pezzi, e i cui resti sono stati nascosti entro un paio di valigie da criminali nigeriani; ma quegli stessi signori e signore si sono genuflessi in memoria del povero George Floyd, il delinquente americano che al suo Paese, gli Stati Uniti, è rimasto ucciso durante l’arresto, e che già ha avuto dei funerali degni di un Martin Luther King, e per vendicare il quale si sono scatenate bande di criminali in tutte le città, uccidendo,  saccheggiando, incendiando, mentre i mass-media e il Partito Democratico, di concerto coi suoi alleati internazionali, cercano di accollare la responsabilità di tutto ciò al presidente Trump.

Versione grottesca dei fatti, che nondimeno è stata ripresa con zelo encomiabile da quasi tutti i giornali e telegiornali italiani, dove le varie signore Gruber & Botteri e i vari Mieli & Parenzo da anni svolgono la loro professione impegnando tutte le loro (modeste) risorse dialettiche per convincere l’opinione pubblica che da quando Trump è salito alla Casa Bianca ogni cosa oltre Atlantico se ne va a rotoli, mentre se avesse vinto Hillary Clinton ora tutto andrebbe a meraviglia, come del resto accadeva sotto la pacifica e filantropica presidenza Obama. Ma infine dove vogliamo arrivare con questi discorsi? Vogliamo forse riportare d’attualità il razzismo? E come osiamo parlare di razze, quando tutti sanno che la parola stessa è stata dichiarata tabù dalla cultura mainstream? Scusate, ma non siamo soliti cambiare orientamento come bandierine al soffio del vento. Da ragazzi abbiamo studiato, all’università, su testi molto buoni di antropologia, come Razze e popoli della Terra di Renato Biasutti. I nostri professori erano tutti dei biechi razzisti? Per la stessa ragione, abbiamo studiato sui libri di psicologia che l’omosessualità è una deviazione del normale istinto sessuale; e adesso non ci va di dire che è la cosa più bella del mondo, solo perché il politicamente corretto ce lo ordina (e tra poco lo farà valere a suon di denunce). Essere persone libere significa avere il coraggio della verità e della coerenza. Se qualcuno può mostrarci in che cosa le nostre affermazioni non sono veritiere, ne saremo lieti, perché ci avrà liberati dall’errore. Se no, che taccia e se ne vada al diavolo. Noi diremo pane al pane e vino al vino.

Francesco Lamendola

Fonte: accademianuovaitalia.it

Link: http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/eurabia-e-civilta-occidentale/9277-razze-parlarne-senza-tabu

12.07.2020

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