Ho trovato ieri questo articolo ed ho immediatamente sentito, assieme alla rabbia ed all’orrore, il bisogno di condividerlo prima che con voi amici lettori, con i miei “compagni d’arme” della redazione. Il termine non è casuale perché, ognuno a modo suo, stiamo tutti combattendo una guerra selvaggia, principalmente contro l’imbarbarimento delle nostre anime e delle nostre menti. Ho voluto tradurlo per dare ancora un’altra voce ai nostri “contubernali” palestinesi e stranieri, quelli che rischiano tutti i giorni la vita, e molti l’hanno persa, in quel fronte di massacro che è la Striscia di Gaza. Odio la guerra, ma soprattutto odio chi mi porta a combattere contro di lui, perché quest’odio fa di me un essere inumano, perché mi degrada al suo livello. Proprio per questo, per diluire un po’ l’odio dentro di me, ho chiesto ad una donna, molto più umana di me, di portare il suo contributo. Grazie a Chris per averci fatto conoscere anche queste voci e un forte abbraccio a tutta la Redazione e a tutti voi. A.deA.
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Questi giorni sono importanti per la nostra cultura cristiana, un periodo che porta la speranza di salvezza grazie alla nascita di Gesù Bambino ma, come l’autore dell’articolo scrive, Gesù ha subito fin dalla Sua venuta in questa parte del mondo gli orrori della perfidia umana: la strage degli innocenti, facendolo diventare il primo rifugiato palestinese. L’orrore di questa ennesima guerra contro i civili, portata aventi con una metodicità allucinante che ci fa rabbrividire, l’ignominia delle informazioni pilotate volte a rassicurarci sulla “bontà” del genocidio, l’accanimento criminale per far tacere le voci dei giornalisti e fotografi che testimoniano con coraggio le stragi perpetuate è ancora più grave. A Natale tutti noi dovremmo riflettere sul messaggio di pace e amore trasmesso da Gesù, rifiutando ogni guerra perché non esiste una guerra buona e una cattiva, tutte la guerre sono portatrici di distruzione e vanno rifiutate e contrastate con ogni mezzo, per questo in questo giorno particolare cerchiamo tutti di leggere con attenzione questa testimonianza che ci aprirà la mente e trafiggerà il cuore mentre noi viviamo tranquilli nelle nostre case. Un abbraccio e tantissimi auguri a voi tutti. P.P.
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Chris Hedges – The Chris Hedges Report – 23 dicembre 2023
Portare una testimonianza – Mr. Fish
In tempo di guerra scrivere e fotografare sono atti di resistenza, atti di fede. Affermano la convinzione che un giorno – un giorno che gli scrittori, i giornalisti e i fotografi potrebbero non vedere mai – le parole e le immagini evocheranno empatia, comprensione, indignazione e forniranno saggezza. Raccontano non solo i fatti, anche se i fatti sono importanti, ma la consistenza, la sacralità e il dolore delle vite e delle comunità perse. Raccontano al mondo com’è la guerra, come resistono coloro che sono presi nella sua morsa di morte, come c’è chi si sacrifica per gli altri e chi non lo fa, com’è la paura e la fame, com’è la morte. Trasmettono le grida dei bambini, i lamenti di dolore delle madri, la lotta quotidiana di fronte alla selvaggia violenza su scala industriale, il trionfo della loro umanità attraverso la sporcizia, la malattia, l’umiliazione e la paura. È per questo che scrittori, fotografi e giornalisti vengono presi di mira dagli aggressori in guerra – compresi quelli israeliani – per essere cancellati. Sono testimoni del male, un male che gli aggressori vogliono seppellire e dimenticare. Smascherano le menzogne. Condannano, anche dalla tomba, i loro assassini. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 13 poeti e scrittori palestinesi e almeno 67 giornalisti e operatori dei media a Gaza e tre in Libano.
Quando mi occupavo di guerra ho sperimentato la futilità e l’indignazione. Mi sono chiesto se avessi fatto abbastanza, o se valesse la pena rischiare. Ma si va avanti perché non fare nulla significa essere complici. Si fa cronaca perché ci si preoccupa. Renderete difficile agli assassini negare i loro crimini.
Questo mi porta al romanziere e drammaturgo palestinese Atef Abu Saif. Lui e il figlio quindicenne Yasser, che vivono nella Cisgiordania occupata, stavano visitando la famiglia a Gaza – dove Atef è nato – quando Israele ha iniziato la sua campagna di terra bruciata. Atef non è nuovo alla violenza degli occupanti israeliani. Aveva due mesi durante la guerra del 1973 e scrive: “Da allora ho vissuto le guerre. Così come la vita è una pausa tra due morti, la Palestina, come luogo e come idea, è una pausa nel mezzo di molte guerre“.
Durante l’Operazione Piombo Fuso, l’assalto israeliano a Gaza del 2008/2009, Atef si rifugiò per 22 notti nel corridoio della sua casa di famiglia a Gaza, assieme alla moglie Hanna e ai due figli, mentre Israele bombardava e bombardava. Il suo libro “Il drone mangia con me: Diari da una città sotto assedio” è un resoconto dell’operazione Protective Edge, l’assalto israeliano del 2014 a Gaza che ha ucciso 1.523 civili palestinesi, tra cui 519 bambini.
“I ricordi della guerra possono essere stranamente positivi, perché averli significa essere sopravvissuti“, osserva sardonicamente.
Ha fatto di nuovo quello che fanno gli scrittori, tra cui il professore e poeta Refaat Alareer, ucciso, a Gaza il 7 dicembre insieme a suo fratello, sua sorella e i suoi quattro figli, in un attacco aereo contro l’appartamento della sorella. L’Osservatorio Euro-Mediterraneo dei Diritti Umani ha dichiarato che Alareer è stato deliberatamente preso di mira, “bombardando chirurgicamente l’intero edificio”. La sua uccisione è avvenuta dopo settimane di “minacce di morte che Refaat ha ricevuto online e per telefono da account israeliani”.
Refaat, che aveva conseguito un dottorato sul poeta metafisico John Donne, a novembre aveva scritto una poesia intitolata “Se devo morire“, che era diventata il suo testamento morale e poetico. È stata tradotta in numerose lingue. Una lettura della poesia da parte dell’attore Brian Cox è stata vista quasi 30 milioni di volte (di seguito anche in italiano).
Se io devo morire,
tu devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere le mie cose
per comprare un pezzo di stoffa
e delle corde,
(fallo bianco con una lunga coda)
affinché un bambino, da qualche parte a Gaza
mentre guarda il cielo negli occhi
aspettando il suo papà che se n’è andato in un lampo…
e non ha detto addio a nessuno
nemmeno alla sua carne
nemmeno a se stesso –
vede l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto tu,
che vola in alto
e pensa per un attimo che un angelo sia lì
che riporta l’amore
Se devo morire
che porti speranza
che sia un racconto.
Atef, trovandosi ancora una volta a vivere tra le esplosioni e la carneficina delle granate e delle bombe israeliane, pubblica caparbiamente le sue osservazioni e riflessioni. I suoi resoconti sono spesso difficili da trasmettere a causa del blocco di Internet e del servizio telefonico da parte di Israele. Sono apparsi su The Washington Post, The New York Times, The Nation e Slate.
Il primo giorno del bombardamento israeliano, un amico, il giovane poeta e musicista Omar Abu Shawish, viene ucciso, apparentemente in un bombardamento navale israeliano, anche se in seguito i rapporti diranno che è stato ucciso in un attacco aereo mentre si recava al lavoro. Atef si interroga sui soldati israeliani che osservano lui e la sua famiglia con “i loro obiettivi a infrarossi e la fotografia satellitare”. Possono “contare le pagnotte nel mio cestino o il numero di polpette di falafel nel mio piatto?“, si chiede. Osserva le folle di famiglie stordite e confuse, con le case in macerie, che trasportano “materassi, sacchi di vestiti, cibo e bevande“. Rimane ammutolito davanti al “supermercato, all’ufficio di cambio, al negozio di falafel, alle bancarelle di frutta, alla profumeria, al negozio di dolciumi, al negozio di giocattoli – tutto bruciato“.
“Sangue dappertutto, insieme a pezzi di giocattoli per bambini, lattine del supermercato, frutta distrutta, biciclette rotte e bottiglie di profumo in frantumi“, scrive. “Il posto sembrava il disegno a carboncino di una città bruciata da un drago“.
“Sono andato alla Press House, dove i giornalisti stavano scaricando freneticamente immagini e scrivendo rapporti per le loro agenzie. Ero seduto con Bilal, il responsabile della sala stampa, quando un’esplosione ha scosso l’edificio. Le finestre sono andate in frantumi e il soffitto è crollato su di noi a pezzi. Siamo corsi verso la sala centrale. Uno dei giornalisti sanguinava, colpito da un vetro volante. Dopo 20 minuti ci siamo avventurati per ispezionare i danni. Ho notato che le decorazioni del Ramadan erano ancora appese nella strada”.
“La città è diventata una landa desolata di macerie e detriti“, scrive Atef, che dal 2019 è ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese, nei primi giorni del bombardamento israeliano su Gaza City. “I bei palazzi cadono come colonne di fumo. Penso spesso a quando mi hanno sparato da bambino, durante la prima intifada, e a come mia madre mi ha detto che sono morto per qualche minuto prima di essere riportato in vita. Forse questa volta posso fare lo stesso, penso“.
Affida ai familiari il figlio adolescente.
“La logica palestinese prevede che in tempo di guerra si dorma tutti in posti diversi, in modo che se una parte della famiglia viene uccisa, un’altra parte vive“, scriveva. “Le scuole delle Nazioni Unite sono sempre più affollate di famiglie sfollate. La speranza è che la bandiera delle Nazioni Unite li salvi, anche se nelle guerre precedenti non è stato così“.
Martedì 17 ottobre scrive:
“Vedo la morte avvicinarsi, sento i suoi passi farsi più forti. Basta che sia finita, penso. È l’undicesimo giorno del conflitto, ma tutti i giorni si sono fusi in uno solo: lo stesso bombardamento, la stessa paura, lo stesso odore. Al telegiornale leggo i nomi dei morti sul ticker in fondo allo schermo. Aspetto che appaia il mio nome.“
Al mattino squilla il telefono. Era Rulla, una parente in Cisgiordania, che mi diceva di aver sentito che c’era stato un attacco aereo a Talat Howa, un quartiere a sud di Gaza City dove vive mio cugino Hatem. Hatem è sposato con Huda, l’unica sorella di mia moglie. Vive in un edificio di quattro piani che ospita anche sua madre, i suoi fratelli e le loro famiglie.
Ho chiamato in giro, ma non funzionava il telefono di nessuno di loro. Sono andato all’ospedale al-Shifa per leggere i nomi: gli elenchi dei morti sono appesi ogni giorno fuori da un obitorio improvvisato. Riuscivo a malapena ad avvicinarmi all’edificio: migliaia di abitanti di Gaza avevano fatto dell’ospedale la loro casa; i suoi giardini, i suoi corridoi, ogni spazio vuoto o angolo libero aveva una famiglia al suo interno. Mi sono arreso e mi sono diretto verso Hatem.
Trenta minuti dopo ero nella sua strada. Rulla aveva ragione. L’edificio di Huda e Hatem era stato colpito solo un’ora prima. I corpi della figlia e del nipote erano già stati recuperati; l’unico sopravvissuto noto era Wissam, una delle altre figlie, che era stata portata in terapia intensiva. Wissam era stata subito operata, dove le erano state amputate entrambe le gambe e la mano destra. La sua cerimonia di laurea al liceo artistico si era svolta solo il giorno prima. Dovrà passare il resto della sua vita senza gambe, con una mano sola. “E gli altri?” ho chiesto a qualcuno.
“Non riusciamo a trovarli”, mi hanno risposto.
Tra le macerie, abbiamo gridato: “C’è nessuno? Qualcuno ci sente?” Abbiamo chiamato i nomi dei dispersi, sperando che qualcuno fosse ancora vivo. Alla fine della giornata siamo riusciti a trovare cinque corpi, tra cui quello di un bambino di 3 mesi. Siamo andati al cimitero per seppellirli.
La sera sono andata a trovare Wissam in ospedale; era appena sveglia. Dopo mezz’ora mi chiese: “Khalo [zio], sto sognando, vero?”
Le ho risposto: “Siamo tutti in un sogno”.
“Il mio sogno è terrificante! Perché?”
“Tutti i nostri sogni sono terrificanti”.
Dopo 10 minuti di silenzio, ha detto: “Non mentirmi, Khalo. Nel mio sogno non ho le gambe. È vero, no? Non ho le gambe?”.
“Ma hai detto che è un sogno.”
“Non mi piace questo sogno, Khalo.”
Dovevo andarmene. Per 10 lunghi minuti ho pianto e pianto. Sopraffatto dagli orrori degli ultimi giorni, sono uscito dall’ospedale e mi sono ritrovato a vagare per le strade. Ho pensato: “Potremmo trasformare questa città in un set cinematografico per film di guerra”. Film sulla Seconda Guerra Mondiale e sulla fine del mondo. Potremmo affittarla ai migliori registi di Hollywood. Il giorno del giudizio su richiesta. Chi potrebbe avere il coraggio di dire ad Hanna, così lontana a Ramallah, che la sua unica sorella è stata uccisa? Che la sua famiglia è stata uccisa? Telefonai alla mia collega Manar e le chiesi di andare a casa nostra con un paio di amici per cercare di ritardare l’arrivo della notizia. “Mentile”, dissi a Manar. “Dille che l’edificio è stato attaccato dagli F-16, ma che i vicini pensano che Huda e Hatem fossero fuori in quel momento. Qualsiasi bugia che possa essere utile”.
Volantini in arabo lasciati cadere dagli elicotteri israeliani fluttuano giù dal cielo. Annunciano che chiunque rimanga a nord del corso d’acqua Wadi sarà considerato un complice del terrorismo, “il che significa“, scrive Atef, “che gli israeliani possono sparare a vista“. L’elettricità viene tagliata. Cibo, carburante e acqua iniziano a scarseggiare. I feriti vengono operati senza anestesia. Non ci sono antidolorifici o sedativi. Va all’ospedale al-Shifa a trovare sua nipote Wissam che, straziata dal dolore, gli chiede un’iniezione letale. Dice che Allah la perdonerà.
“Ma non perdonerà me, Wissam.”
“Glielo chiederò, a nome tuo” dice.
Dopo gli attacchi aerei si unisce alle squadre di soccorso “sotto il ronzio dei droni che non riuscivamo a vedere nel cielo“. Un verso di T.S. Eliot, “un cumulo di immagini spezzate“, gli passa per la testa. I feriti e i morti sono “trasportati su biciclette a tre ruote o trascinati su carri da animali“.
“Abbiamo raccolto pezzi di corpi mutilati e li abbiamo riuniti su una coperta; trovi una gamba qui, una mano là, mentre il resto sembra carne macinata“, scrive. “Nell’ultima settimana, molti abitanti di Gaza hanno iniziato a scrivere i loro nomi sulle mani e sulle gambe, a penna o con un pennarello indelebile, in modo da poter essere identificati quando arriverà la morte. Potrebbe sembrare macabro, ma ha perfettamente senso: vogliamo essere ricordati, vogliamo che le nostre storie siano raccontate, vogliamo dignità. Come minimo, i nostri nomi saranno sulle nostre tombe. L’odore dei corpi non recuperati sotto le rovine di una casa colpita la settimana scorsa rimane nell’aria. Più passa il tempo, più l’odore è forte“.
Le scene intorno a lui diventano surreali. Il 19 novembre, 44° giorno dell’assalto, scrive:
“Un uomo a cavallo viene verso di me, con il corpo di un adolescente morto legato alla sella davanti. Sembra che sia suo figlio, forse. Sembra una scena di un film storico, solo che il cavallo è debole e a malapena in grado di muoversi. Non è reduce da nessuna battaglia. Non è un cavaliere. I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre tiene il piccolo frustino in una mano e la briglia nell’altra. Ho l’impulso di fotografarlo, ma poi mi sento improvvisamente male all’idea. Non saluta nessuno. Alza a malapena lo sguardo. È troppo preso dalla sua perdita. La maggior parte delle persone utilizza il vecchio cimitero del campo; è il più sicuro e, sebbene sia tecnicamente pieno da tempo, hanno iniziato a scavare tombe meno profonde e a seppellire i nuovi morti sopra quelli vecchi, ovviamente tenendo unite le famiglie.”
Il 21 novembre, dopo i continui bombardamenti dei carri armati, decide di fuggire dal quartiere di Jabaliya, nel nord di Gaza, per dirigersi verso il sud, insieme al figlio e alla suocera, che è su una sedia a rotelle. Devono passare attraverso i checkpoint israeliani, dove i soldati selezionano a caso uomini e ragazzi dalla fila per arrestarli.
“Decine di corpi sono sparsi su entrambi i lati della strada“, scrive. “Sembra che stiano marcendo nel terreno. L’odore è orrendo. Una mano si protende verso di noi dal finestrino di un’auto bruciata, come se chiedesse qualcosa, a me in particolare. Vedo quelli che sembrano due corpi senza testa in un’auto: arti e parti preziose del corpo buttati via e lasciati a marcire“.
Dice a suo figlio Yasser: “Non guardare. Continua a camminare, figliolo“.
All’inizio di dicembre la casa di famiglia viene distrutta da un attacco aereo.
“La casa in cui uno scrittore cresce è un pozzo da cui attingere materiale. In ognuno dei miei romanzi, ogni volta che volevo rappresentare una casa tipica del campo, ho evocato la nostra. Spostavo un po’ i mobili, cambiavo il nome del vicolo, ma chi volevo prendere in giro? Era sempre la nostra casa.
Tutte le case di Jabalya sono piccole. Sono costruite a caso, in modo disordinato, e non sono fatte per durare. Queste case hanno sostituito le tende in cui vivevano i palestinesi come mia nonna Eisha dopo lo sfollamento del 1948. Coloro che le hanno costruite hanno sempre pensato che presto sarebbero tornati alle belle e spaziose case che si erano lasciati alle spalle nelle città e nei villaggi della Palestina storica. Quel ritorno non è mai avvenuto, nonostante i nostri numerosi rituali di speranza, come la salvaguardia della chiave della vecchia casa di famiglia. Il futuro continua a tradirci, ma il passato è nostro.
Anche se ho vissuto in molte città del mondo e ne ho visitate molte altre, quella piccola casa sgangherata è stato l’unico posto in cui mi sono sentito a casa“, prosegue. Amici e colleghi mi chiedevano sempre: perché non vivi in Europa o in America? Ne hai l’opportunità. I miei studenti hanno chiesto: perché sei tornato a Gaza? La mia risposta era sempre la stessa: ‘Perché a Gaza, in un vicolo del quartiere Saftawi di Jabalya, c’è una casetta che non si trova in nessun’altra parte del mondo’. Se nel giorno del giudizio Dio mi chiedesse dove vorrei essere mandato, non esiterei a dire: ‘A casa’. Ora non c’è più nessuna casa“.
Atef è ora intrappolato nel sud di Gaza con suo figlio. Sua nipote è stata trasferita in un ospedale in Egitto. Israele continua a martellare Gaza con oltre 20.000 morti e 50.000 feriti. Atef continua a scrivere.
La storia del Natale è la storia di una povera donna, incinta di nove mesi, e di suo marito costretti a lasciare la loro casa di Nazareth, nel nord della Galilea. La potenza romana occupante ha chiesto che si registrino per il censimento a 90 miglia di distanza, a Betlemme. Quando arrivano non ci sono stanze. La donna partorisce in una stalla. Il re Erode, che ha saputo dai Magi della nascita del Messia, ordina ai suoi soldati di dare la caccia a tutti i bambini di Betlemme e dintorni di età non superiore ai due anni e di ucciderli. Un angelo avverte in sogno Giuseppe di fuggire. I due coniugi e il bambino fuggono con il favore delle tenebre e intraprendono un viaggio di 40 miglia verso l’Egitto.
All’inizio degli anni ’80 mi trovavo in un campo profughi per guatemaltechi fuggiti dalla guerra in Honduras. I contadini e le loro famiglie, che vivevano nella sporcizia e nel fango, con i villaggi e le case bruciati o abbandonati, stavano decorando le loro tende con strisce di carta colorata per celebrare la Strage degli Innocenti.
“Perché è un giorno così importante?” chiesi.
“È in questo giorno che Cristo è diventato un rifugiato“, mi rispose un contadino.
La storia di Natale non è stata scritta per gli oppressori. È stata scritta per gli oppressi. Siamo chiamati a proteggere gli innocenti. Siamo chiamati a sfidare il potere di occupazione. Atef, Refaat e quelli come loro, che ci parlano a rischio di morte, fanno eco a questa ingiunzione biblica. Parlano perché non restiamo in silenzio. Parlano perché prendiamo queste parole e queste immagini e le rivolgiamo ai principati del mondo – i media, i politici, i diplomatici, le università, i ricchi e i privilegiati, i produttori di armi, il Pentagono e i gruppi di pressione di Israele – che stanno orchestrando il genocidio a Gaza.
Il Cristo bambino non giace oggi nella paglia, ma in un mucchio di cemento rotto.
Il male non è cambiato nel corso dei millenni. E nemmeno la bontà.
Chris Hedges è un autore e giornalista vincitore del premio Pulitzer, corrispondente estero per quindici anni del New York Times.
Link: https://chrishedges.substack.com/p/the-cost-of-bearing-witness
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