Quando agli studi di genere cadde la maschera: la storia del “Grievance Studies Affair”

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Di Federico Degg per ComeDonChisciotte.org 

 

All’interno del panorama social e mediatico italiano degli ultimi anni concetti come l’inclusività, l’intersezionalità, le teorie sull’identità di genere e il cosiddetto “transfemminismo” si sono ricavati uno spazio sempre crescente. 

Ciò ha portato fasce più ampie di pubblico a conoscere argomenti come la presunta natura di costrutto sociale di numerose categorie del reale, la differenza fra sesso biologico e percepita identità di genere, l’esistenza di una miriade di manifestazioni di quest’ultima e, soprattutto, la grande necessità di impegnarsi a tutelare le istanze di ciascuna “minoranza” connessa a tutto ciò mediante l’adozione di comportamenti, policy o linguaggi che siano il più possibile inclusivi e politicamente corretti al fine di evitare ogni supposta forma di discriminazione. 

 

La maggior parte delle istanze appena citate prende forma a partire da un “centro” ben preciso: gli ambienti accademico-universitari, soprattutto di studi umanistici, del Nordamerica (Stati Uniti e Canada).  

A plasmare la rete di idee e discorsi a riguardo, infatti, contribuisce già da tempo tutta una cultura accademica fatta di saggi, conferenze e soprattutto giornali sottoposti a revisione paritaria che pubblicano studi e articoli in cui si definiscono nuove idee e rivendicazioni, le quali poi maturano e trovano seguito in società presso i più svariati gruppi d’interesse o di attivismo “progressista”, allargando così le frontiere del cosiddetto pensiero woke.   

La stessa espressione “teoria queer”, per fare un esempio, è stata coniata all’inizio degli anni Novanta da Teresa de Lauretis, studiosa e professoressa di Storia della Coscienza all’Università della California (stato notoriamente progressista), durante una conferenza accademica sulla sessualità gay e lesbica. Presenta la medesima origine il concetto di “intersezionalità” (ossia una prospettiva d’attivismo che tenga conto simultaneamente di tutte le forme di identità sociale che possono cadere vittima di dinamiche d’oppressione), proposto nel 1989 all’interno di un volume di articoli accademici da Kimberlé Crenshaw, al tempo pioniera dell’insegnamento di teoria critica della razza presso la facoltà di Legge a Los Angeles. 

 

Non è dunque un caso che i fatti raccontati di seguito, conosciuti negli Stati Uniti con il nome di “Grievance Studies Affair” e complessivamente poco citati nei vari canali dell’informazione italiana, si siano svolti proprio in seno all’ambiente accademico americano e ai comitati editoriali di riviste peer-reviewed [1], dove teoricamente vengono prodotte le conoscenze di rango più elevato che di volta in volta si diffondono ed esercitano influenza nella società civile e nelle sue istituzioni. 

 

La vicenda si può introdurre come segue: nel 2017  tre personaggi dell’ambiente culturale e accademico anglosassone decisero di mettere alla prova la credibilità e la presunta obiettività dell’ormai popolare campo dei “grievance studies”, ossia di tutto quell’insieme interdisciplinare di matrice teorica post-modernista fatto di supposte pubblicazioni scientifiche in cui si problematizzano – spesso adottando prospettive intersezionali, femministe o di genere – i più minuziosi aspetti della cultura comunemente condivisa, al fine di rilevare tutte le presunte forme di oppressione e discriminazione identitaria (di genere, etnica, culturale) che impedirebbero il pieno affermarsi delle cosiddette minoranze e dei loro diritti. 

Queste tre figure sono Peter Boghossian, professore universitario dell’Oregon specializzato in filosofia e pedagogia, James A. Lindsay, matematico, e Helen Pluckrose, redattrice britannica di una rivista indipendente di stampo liberale. Ciò che li accomuna e li spinge a lavorare assieme a tale scopo è la forte sensazione che il campo di studi sopra citato abbia perso completamente la bussola dell’oggettività e del rigore scientifico in favore di una connotazione estremamente ideologica che sta sempre più corrompendo la ricerca accademica e annullando le possibilità di un confronto sano e aperto sui temi di suo interesse.

“Molti ritengono che questo problema sia cresciuto in maniera evidente, ma finora sono mancate forti prove a sostegno. Per questa ragione, abbiamo trascorso un anno lavorando all’interno dell’ambiente che riteniamo essere parte intrinseca del problema, scrivendo articoli accademici e pubblicandoli in rispettate riviste sottoposte a revisione paritaria”, dichiarano i tre nell’introduzione del lungo articolo in cui spiegano e raccontano in prima persona la loro esperienza [2]. 

 

Il loro piano per far cadere la maschera del sapere obiettivo al settore dei grievance studies consisteva nella redazione di una serie di “articoli-truffa” – ossia testi di taglio scientifico basati su dati e metodi d’indagine fasulli e su ipotesi palesemente grottesche, esagerate e moralmente distorte, al limite della parodia dei gender studies stessi – da inviare alle più prestigiose riviste di ciascuna sotto-disciplina inerente agli argomenti trattati, per osservare se queste sarebbero cadute nel tranello approvando e pubblicando i testi alla luce delle loro prese di posizione, oppure se si fossero accorte della sottile presa in giro, rifiutandoli e criticandone il contenuto. Per redigere e inviare gli articoli, Boghossian e soci avrebbero utilizzato, a seconda dell’occasione lo pseudonimo di Helen Wilson, ricercatrice presso un fittizio istituto dell’Oregon, o le firme di reali colleghi universitari disposti a prendere parte all’esperimento. 

L’obiettivo nella stesura dei finti studi/articoli era quello di comprendere e conformarsi il più possibile ai criteri di indagine e di linguaggio e agli schemi di pensiero di tale “cultura”, facendo più riferimenti bibliografici possibili a pubblicazioni già esistenti al suo interno, al fine di rendere il prodotto finale il più credibile e accurato possibile agli occhi dei revisori “qualificati” che lo avrebbero esaminato. 

Il progetto cominciò nell’estate del 2017 e fu inizialmente concepito per sfornare 48 articoli nell’arco di tempo di un anno e mezzo: raggiunto il termine prestabilito, i tre autori avrebbero svelato pubblicamente l’“esperimento” e le sue finalità. Come si vedrà più avanti, però, l’intero progetto fu costretto a interrompersi prima del previsto.  

 

I primi tentativi purtroppo non andarono a buon fine, così Boghossian e colleghi si impegnarono ad affinare ancor di più la loro tecnica imitativa, finché non giunse loro notizia che un articolo era stato finalmente accettato e sarebbe stato presto pubblicato. Si trattava di “Human reactions to Rape Culture and Queer Performativity at Urban Dog Parks in Portland, Oregon”, testo che pretendeva di dimostrare come i parchi per cani siano luoghi dove lo “stupro” – termine usato per indicare l’atto istintuale di accoppiamento fra i suddetti animali – viene tollerato senza riserve morali dai rispettivi padroni, soprattutto se uomini, poiché presso di essi sarebbe profondamente condivisa e radicata la cosiddetta “cultura dello stupro”. Nel corso delle pagine la fittizia ricercatrice Helen Wilson corrobora tale ipotesi mediante dati e dettagli ancor più inverosimili, come l’asserzione di “aver esaminato (in tutto) i genitali di circa 10.000 cani mentre ai padroni venivano poste domande sulla loro sessualità”. 

Ad approvare e divulgare il bislacco testo fu nientemeno che Gender, Place & Culture, riconosciuta come la più importante pubblicazione a livello internazionale nel settore della “geografia femminista”: i membri valutatori della redazione lo accolsero con una valanga di feedback positivi e addirittura, non molto tempo dopo, decisero di annoverarlo fra i “dodici pezzi più significativi nel campo della geografia femminista” nell’edizione speciale per il venticinquesimo anniversario di fondazione della rivista!

La convinta sensazione che aveva spinto Boghossian, Lindsay e Pluckrose a intraprendere questo test ai limiti dell’assurdo parve dunque ampiamente confermata già al primo tentativo positivo. 

 

Il trio continuò così la sua opera, arrivando ad inviare a redazioni a revisione paritaria ben venti articoli. Di questi, quattro vennero accettati e pubblicati, tre vennero accettati ma al momento della prematura fine del progetto erano ancora in attesa di uscire, mentre altri due vennero accettati ma restituiti al mittente con alcune indicazioni di revisione al fine di una pubblicazione futura. 

Fra questa decina di finti studi spuntavano tesi ancora più deliranti, ambigue e irragionevoli di quanto scritto in “Dog Park”. In uno si sosteneva che il bodybuilding fosse da considerarsi discriminatorio perché escluderebbe, in virtù della loro forma fisica, le persone grasse; in un altro, dall’eloquente titolo di “Going through the back door” (tradotto: “Entrare dalla porta posteriore”), i tre autori si cimentavano grottescamente ad affermare che le tendenze omofobiche e transfobiche nei maschi eterosessuali potrebbero essere affrontate ed eliminate mediante l’uso autoerotico di sex toy per la penetrazione anale. Uno dei testi in attesa di revisione, invece, affermava che rivolgere critiche in chiave satirica agli ambiti accademici impegnati nella giustizia sociale fosse un gesto immorale, frutto della volontà di difendere i propri privilegi, mentre un altro ancora era nientemeno che un’accurata riscrittura in termini chiave del lessico femminista di un passaggio del Mein Kampf di Hitler! 

 

Fa bene ribadire ancora che tutti questi articoli, che allo stato attuale sono stati ritirati dalla pubblicazione ma restano ancora consultabili su un archivio di Google Drive [3] furono presi in considerazione e accettati da riviste di lunga data (alcune attive già dagli anni Settanta) giudicate le più valide nei loro specifici campi di studi – ossia i legami fra sessualità e cultura, le forme particolari di discriminazioni, la disparità di genere e le teorie filosofiche femministe [4]. 

Giunti a questo punto, forse, non servirebbe aggiungere altro, ma il dettaglio che segue è ancora più eloquente: come precisano gli stessi autori nel già citato saggio in cui raccontano la vicenda, negli Stati Uniti è talvolta sufficiente vedersi pubblicare almeno sette articoli in sette anni all’interno di riviste settoriali “rispettabili” per guadagnare prestigio agli occhi delle maggiori università del paese. 

Insomma, se il progetto fosse restato in piedi, i tre autori “sotto copertura” avrebbero ipoteticamente potuto tentare di proporsi per qualche posizione di rilievo nel mondo dell’istruzione americana adducendo come credenziali l’accozzaglia di parodie e falsi d’autore menzionati finora! 

 

Nel giugno 2018, quando ormai l’esperimento procedeva a gonfie vele, arrivò però una svolta inaspettata: una pagina social dedita a mettere in luce pessimi lavori accademici fece una ricerca più approfondita sulla misteriosa Helen Wilson e sulle sue credenziali (cosa che fino a quel momento nessuna delle redazioni citate si era realmente preoccupata di fare), rilevando qualcosa che non tornava e sollevando pubblicamente la questione. La notizia creò un certo scalpore e venne ripresa da più testate, fra cui pure il Wall Street Journal, che chiesero insistentemente all’autrice dei bislacchi studi di dimostrare la propria esistenza. Il “team” si vide allora costretto a uscire allo scoperto e decise di rendere pubblico il saggio esplicativo e l’archivio con tutti i paper, assieme a un breve ed efficace documentario su YouTube [5].

 

La rivelazione suscitò numerose reazioni, sia di approvazione che di critica o condanna. L’astuto piano fu lodato da figure come lo scienziato cognitivo Steven Pinker e il noto psicologo Jordan Peterson per aver dimostrato come nelle pubblicazioni di stampo post-modernista ritenute più attendibili possa praticamente farsi spazio qualsiasi burla o idea distorta senza che nessuno del settore se ne accorga [6]. Da coloro che invece erano più vicini agli ambienti caduti nel tranello non mancarono risposte offese, attacchi ad personam rivolti ai tre autori e paragoni fra la loro opera e l’”atteggiamento da bulli tipico della politica di Trump” [7]; altri, invece, cercarono di difendere i settori “presi di mira” sostenendo che l’intera operazione non fosse sufficiente per screditarli o definirli interamente ideologizzati. Peter Boghossian fu addirittura allontanato dall’ambiente di ricerca dell’Università dell’Oregon presso cui lavorava con l’accusa di aver violato il codice etico e le linee guida in merito alle procedure di coinvolgimento di esseri umani in un esperimento, decisione che portò diversi docenti a schierarsi a suo sostegno. 

 

Qualcuno potrà anche ritenere che la singola vicenda non sia sufficiente a “condannare” tout-court un insieme di studi vasto e interdisciplinare (studi di genere, teorie critiche della cultura, prospettive femministe, etc.), originatosi dal mix di filosofie post-moderniste e attivismo sociale degli anni Settanta; ciononostante, lo stratagemma ordito da Boghossian e colleghi ne ha rivelato un grosso e non trascurabile tallone d’Achille. 

Nei fatti, una porzione di presunti detentori del sapere si è lasciata abbindolare da una serie di istanze assurde soltanto perché sapientemente mescolate a idee date ormai per verità incontestabili da chi dibatte nel solco del pensiero woke: la malvagità intrinseca del “maschio cis-etero”, l’intoccabilità delle istanze delle “minoranze”, l’onnipresenza di date dinamiche d’oppressione e via dicendo. 

Quando i sostenitori di un insieme di saperi o interpretazioni rifiutano sistematicamente di rivederne i presupposti e addirittura accettano visioni distorte del reale purché ne rispecchino le principali tesi, allora non si è più dinanzi a una disciplina dall’approccio obiettivo, ma ad un’ideologia corrompente – la famosa “ideologia gender”, appunto. E se i suoi stessi sostenitori rigettano ferocemente quest’ultima definizione e persistono nel difendere le loro credenze a spada tratta, addirittura con forme di ricatto morale o di reductio ad Hitlerum, allora si può affermare che tale ideologia abbia assunto un carattere estremista e malato. 

 

C’è una specie di massima, emersa negli anni Duemila dal mondo di internet e definita come una delle sue “leggi” – la cosiddetta legge di Poe [8] -, che sembra perfetta per concludere e incorniciare questo resoconto del Grievance Studies Affair, racchiudendone in poche parole l’antifona: “senza un’emoticon sorridente o qualche altro chiaro segno di intenti umoristici, non è possibile scrivere una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo”. 

 

Di Federico Degg per ComeDonChisciotte.org 

03.03.2024

NOTE 

[1] La revisione paritaria, in inglese peer-review, è una pratica fondamentale nel garantire criterio e credibilità all’interno della ricerca universitaria: si tratta della revisione di una potenziale pubblicazione scientifica da parte di un comitato di specialisti, detti “revisori”, aventi competenze e qualifiche specifiche nel settore dell’opera in questione e idealmente scevri di conflitti di interesse. 

La pratica serve a stabilire se l’articolo/saggio/studio presenti o meno dei difetti di metodo o addirittura se abbia o meno fondamenti “scientifici”, obiettivi. Va da sé che fra una rivista peer-reviewed e una che non lo è, la prima è generalmente considerata fonte attendibile e la seconda no. 

[2]https://areomagazine.com/2018/10/02/academic-grievance-studies-and-the-corruption-of-scholarship/ 

[3] https://drive.google.com/drive/folders/19tBy_fVlYIHTxxjuVMFxh4pqLHM_en18 

[4] Per dovere di cronaca, ecco i titoli delle riviste: Hypatia, Affilia, Sex Roles, Fat Studies e Sexuality & Culture. Tutti i dettagli inerenti agli articoli del progetto, alle riviste a cui sono stati sottoposti e ai feedback ricevuti sono reperibili consultando la pagina del primo link che appare su questa lista, ossia il saggio/racconto della vicenda pubblicato su Areo Magazine. 

[5] https://www.youtube.com/watch?v=kVk9a5Jcd1k&t=20s 

[6] https://www.nytimes.com/2018/10/04/arts/academic-journals-hoax.html 

[7] https://psuvanguard.com/conceptual-penises-and-other-trolling/ 

[8]https://www.telegraph.co.uk/technology/news/6408927/Internet-rules-and-laws-the-top-10-from-Godwin-to-Poe.html 

 

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