Perché sarebbe meglio non essere mai nati: intervista all’antinatalista David Benatar

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Secondo lo studioso e filosofo sudafricano, siamo venuti al mondo solo per soffrire: per questo non bisognerebbe nemmeno fare figli. Una teoria atroce ma al tempo stesso affascinante, a ben guardare. Ecco le ragioni di Benatar, il Leopardi contemporaneo

Lui, una certa ritrosia a mostrarsi, dall’odore quasi patologico, è così devotamente radicale che ti viene voglia di gettarlo dalla finestra. Nel 2006 scrive il libro centrale, Better Never to Have Been, tradotto da poco in Italia, per Carbonio Editore, come Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo. La prima frase dell’introduzione non lascia scampo, prima ti fa prudere le mani, poi agisce sul cervello. “Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima – e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone”.

Il libro, il caposaldo dell’antinatalismo, procede per capitoli che non lasciano spazio a dubbi (“Perché venire al mondo è sempre un male”; “Estinzione”; “Risposta all’ottimista”; “Morte e suicidio”), per giungere alla soluzione: almeno, visto che la vita è male, non fate figli. Ho conosciuto David Benatar, accademico alla University of Cape Town, l’anno scorso. Il New Yorker, attraverso la penna di Joshua Rothman, in un articolo piuttosto intenso (“The Case For Not Being Born”), speculava intorno all’ultimo libro di Benatar, The Human Predicament: A Candid Guide to Life’s Biggest Questions (2017), pubblicato dalla Oxford University Press. Ne scrissi, ustionato da una frase, questa: “Nasciamo, viviamo, soffriamo per poi morire – obliati per il resto dell’eternità. La nostra esistenza è soltanto un bagliore nel tempo e nello spazio cosmico. Non è sorprendente, allora, chiedersi: ‘perché tutto questo?’”.

Benatar, tuttavia, non fa retorica sul male di vivere, non gli importa: si pone, da filosofo, spaccando il capello concettuale in quattro, la domanda radicale sulla sofferenza, sul dolore, sulla sfortuna di essere al mondo. Al di là delle conclusioni – io penso che la vita sia meravigliosa anche perché la soffriamo, penso che siamo un coltello che oscilla tra passione e compassione – è l’atteggiamento di Benatar che è interessante. Non arretra di un verbo dalla questione fondamentale. In effetti, la visione di Benatar è l’abbecedario del pensare. Gilgamesh, l’eroe babilonese, scopre che la vita è uno schifo quando il suo amico Enkidu muore (“Gilgamesh, per Enkidu, il suo amico/ piange amaramente, vagando per la steppa:/ Non sarò forse, quando morirò, come Enkidu?/ Amarezza si impadronì del mio animo/ la paura della morte mi annienta”) e va alla vana ricerca dell’immortalità. D’altronde, più volte Giobbe urla a Dio che la morte è preferibile alla vita; fin da subito il suo concetto è schiacciante, disperante, “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre/ e non spirai appena uscito dal grembo?” (Gb 3, 11). Per altro, l’antesignano degli antinatalisti lo studiamo alle scuole dell’obbligo, si chiama Giacomo Leopardi, il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è un compendio di versi fatali, sfiancanti, lucidi come rasoi (“Perché reggere in vita/ Chi poi di quella consolar convenga?”; “Questo io conosco e sento,/ Che degli eterni giri,/ Che dell’esser mio frale,/ Qualche bene o contento/ Avrà fors’altri; a me la vita è male”; “È funesto a chi nasce il dì natale”).

Basta, poi, praticare lo Zibaldone per sprofondare in pensieri come questo: “Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi”. Solo che Leopardi – con cui Benatar non si confronta – è poeta, è l’acme delle contraddizioni, risolte, sempre, con un atto di bellezza, di grazia formale, salvifica. Inconsolabile, Benatar è il logico della disperazione, il teorico della scomparsa del genere umano, mefistofelico. Così, traghettato dagli estremi, mi sono messo a chiacchierare con lui.

Partendo da un paio di punti cardine (a) la vita è male; b) il dolore è la legge che regge la vita, ci si domanda perché gli esseri umani non ricorrano a suicidi di massa per liberarsi del peso della vita. Evidentemente la speranza, l’illusione, il desiderio, cioè il piacere, è più forte del dolore. Anche se soffro, penso che potrò non soffrire. Anche se soffro, penso che qualcosa o qualcuno limiterà il mio soffrire. Non è così?

Ha ragione nel notare quanto sia potente il pregiudizio dell’ottimismo negli esseri umani. Sul punto, non ho dubbi. Tuttavia, traggo conclusioni differenti da quelle che lei sembra arguire. La mia conclusione è che questo pregiudizio porti a errati – cioè, eccessivamente ottimistici – giudizi sulla qualità delle nostre vite. Non penso che questo pregiudizio dimostri che le nostre esistenze siano buone, come ritiene la maggior parte della gente.

Il male, il dolore, da dove vengono? Sono nell’uomo – è lui il male e l’essere che sente il male – sono nella natura delle cose, sono nella biologia della specie, sono provocati da un dio beffardo? In fondo, perché esiste la vita e non la morte se la vita è origine di sofferenza?

Male e dolore non sono la stessa cosa, almeno secondo alcune interpretazione di questi concetti. Il dolore, come il piacere e più in generale la sensibilità, è un prodotto evolutivo (in alcune specie). Il dolore è quindi biologico. Tuttavia, questo non vuol dire che gli esseri umani non provino dolore. In fondo, gli umani sono biologici. “Male” ha molti significati. Secondo alcune interpretazioni il male deriva soltanto da agenti che hanno la capacità di scegliere come comportarsi. Secondo altre interpretazioni, il male include anche il danno provocato da forze cieche, che non agiscono con volontà, come vulcani o terremoti.

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