Dobbiamo sfidare le multinazionali che ci spingono a vivere in una società usa e getta e non cercare altri “modi più verdi” se non vogliamo mantenere lo status quo.
Credete nei miracoli? Se è così, allora mettevi in fila ordinatamente. C’è tanta gente che immagina che si possa continuare ad andare avanti così come facciamo oggi e che basterà sostituire un materiale con un altro. Il mese scorso, qualcuno ha chiesto a Starbucks e alla Costa di sostituire le tazzine di caffè di plastica con nuove tazzine fatte con amido di mais: questa richiesta è stata ritweettata 60.000 volte, prima di essere cancellata.
Chi si è inventato questo appello non si è nemmeno chiesto da dove sarebbe arrivato l’amido di mais che serve per produrre le nuove tazzine, né quanta terra serve necessaria per far crescere quel mais, o quanto cibo non verrebbe creato se il mais fosse usato diversamente. Non ha pensato nemmeno al danno ambientale che avrebbe prodotto questa maggior coltivazione: la coltivazione del mais è nota per causare l’erosione del suolo e spesso richiede dosi massicce di pesticidi e fertilizzanti.
Il problema non è soltanto la plastica: è tutta la massa di prodotti usa-e-getta. O, per dirla in altro modo, noi abitiamo su un solo pianeta, ma con il nostro stile di vita ce ne vorrebbero QUATTRO di pianeti. Indipendentemente da quanto noi consumiamo, è l’enorme volume dei beni sprecati che sta travolgendo i sistemi viventi sulla Terra.
Non fraintendermi. La nostra avidità per le materie plastiche è un grave problema ambientale e le campagne per limitarne l’uso sono ben motivate e talvolta efficaci. Ma non possiamo affrontare la nostra crisi ambientale semplicemente sostituendo una risorsa sovra-sfruttata con un’altra risorsa. Quando io ho contestato quell’appello, qualcuno mi ha chiesto: “E allora che cosa dovremmo usare?”
La domanda giusta sarebbe “Come dovremmo vivere?” Ma il pensiero sistemico è una specie in via di estinzione.
Parte del problema è comprendere da chi partono le campagne contro la plastica: la serie Blue Planet II di David Attenborough. I primi sei episodi raccontavano storie forti e coerenti, ma il settimo episodio, quello che cercava di spiegare le minacce che devono affrontare le meravigliose creature che ci mostra la serie televisiva, si salta di palo in frasca.
Ci ha detto che avremmo dovuto “fare qualcosa” per evitare la distruzione della vita oceanica. Ma non ci ha detto cosa. Non si danno spiegazioni sul perché si verificano certi problemi, né quali sono i motivi che li provocano e nemmeno chi dovrebbe essere coinvolto.
Nella più assoluta incoerenza, uno dei collaboratori ha detto: “Credo che dipenda tutto da ciascuno di noi che dovremmo assumerci la responsabilità delle nostre scelte nella vita quotidiana. E’ qualcosa che ognuno di noi dovrebbe fare”. Questa affermazione rappresenta esattamente la convinzione sbagliata che basterebbe rendere il consumismo un po’ migliore, per salvare il pianeta. I problemi che affrontiamo però sono strutturali: si tratta del sistema politico asservito da interessi commerciali e da un sistema economico che tende ad una crescita senza fine.
E’ chiaro che noi dovremmo cercare di minimizzare il nostro impatto, ma questo non basterà certo per fronteggiare il problema, semplicemente “assumendoci le nostre responsabilità” per quello che consumiamo. Purtroppo, questi sono problemi che né la BBC in generale e nemmeno David Attenborough in particolare vogliono affrontare. Ammiro Attenborough per molti versi, ma non ammiro il suo ambientalismo. Per molti anni, è stato quasi irraggiungibile, poi quando finalmente ha parlato, non ha preso posizione contro il potere – si è messo a parlare usando termini vaghi o focalizzandosi su problemi che non toccano nessuno degli interessi dei potenti. Questa sua tendenza potrebbe spiegare il perché Blue Planet fa piccolo cabotaggio intorno ai problemi più evidenti.
Uno dei problemi più ovvi è l’industria della pesca, che trasforma in sea-food, tutte quelle stupefacenti forme di vita che Blue Planet II ci dipinge in tutte le puntate della serie. In tutti gli oceani, questa industria, guidata dai nostri appetiti e protetta dai governi, sta provocando un collasso ecologico a cascata. Eppure l’intera attività della pesca, come spiega il programma, rappresenta circa 1% di tutto quello che si strappa al mare. È stato affascinante vedere come le barche norvegesi che pescano le aringhe cerchino di evitare di uccidere le orche, ma non è stato fatto nessun cenno a quanto quel comportamento mostrato sia una cosa insolita.
Anche la plastica buttata a mare è in gran parte un problema per la pesca. Si scopre che il 46% del Great Pacific garbage patch – l’isola di plastica – che è diventato il simbolo della nostra società “usa e getta” – è composto da reti abbandonate e gran parte del resto è costituito da altri tipi di attrezzature da pesca. I materiali da pesca abbandonati sono molto più pericolosi per la vita marina delle altre forme di rifiuti. Per quanto riguarda i sacchetti e le bottiglie che contribuiscono al disastro, la gran maggioranza ha origine nelle nazioni più povere del mondo che non dispongono di un buon sistema di smaltimento rifiuti . Ma dato che non si è parlato di questo, si continua a cercare soluzioni nei posti sbagliati.
Fuorviando le cose in questo modo sorgono mille perversioni. Una nota ambientalista ha pubblicato una foto con certi gamberoni-king prawns che aveva comprato, vantandosi del fatto che aveva convinto il supermercato a metterli in un apposito contenitore e non nel solito sacchetto di plastica, collegando questa sua vittoria alla protezione del mare. Ma comprare gamberi causa danni alla vita marina molto più della plastica con cui vengono incartati. La pesca dei gamberi presenta i più alti tassi di pesca accessoria di qualsiasi altro tipo di pesca, perché raccoglie, oltre ai gamberetti, anche un gran numero di tartarughe e di altre specie minacciate. L’allevamento di gamberi è altrettanto dannoso, perché bisogna eliminare tratti di foreste di mangrovie, habitat dove vivono migliaia di altre specie.
Siamo tenuti all’oscuro di questi problemi ma, come consumatori, ci sentiamo confusi, bombardati e quasi impotenti – e il potere delle multinazionali ha fatto di tutto per persuaderci che NOI siamo veramente impotenti. L’approccio della BBC alle questioni ambientali è altamente partigiano e si schiera dalla parte di un sistema che ha cercato di spostare le responsabilità di chi scrive le regole sul funzionamento delle strutture verso i singoli consumatori. Eppure è solo muovendoci come cittadini attivi nelle scelte politiche che possiamo promuovere un vero cambiamento.
La risposta alla domanda “Come dovremmo vivere?” È: “In modo semplice”. Ma vivere semplicemente è molto complicato. In Brave New World di Aldous Huxley (*NdT*), il governo massacrò i Simple Lifers, cosa però che ormai non è più necessaria: oggi quelli che contestano il sisitema si possono tranquillamente emarginare, insultare e licenziare . L’ideologia del consumismo è così diffusa che nemmeno la vediamo: è lo zuppone di plastica in cui nuotiamo tutti noi.
Il saper vivere in un pianeta non significa solamente cercare di ridurre i nostri consumi, ma anche mobilitarsi contro un sistema che produce una grande marea di (inutile) spazzatura. Questo significa combattere il potere delle multinazionali, voler cambiare i risultati prodotti dalla politica e sfidare il sistema consumistico mondiale basato sulla crescita, un sistema che noi chiamiamo capitalismo.
Come scriveva Hothouse Earth paper del mese scorso, esiste il pericolo di far arrivare il pianeta ad un nuovo stato climatico irreversibile e concludeva: “Progressivi cambiamenti lineari … non bastano per stabilizzare il sistema Terra. Probabilmente serviranno trasformazioni a tutto campo, rapide e fondamentali per ridurre il rischio di superare la soglia irreversibile.”
Le tazze da caffè usa e getta fatte con materiali differenti sono una non-soluzione: vuol dire solo voler perpetuare il problema. Difendere il pianeta significa cambiare il mondo.
George Monbiot scrive su The Guardian
Fonte : https://www.theguardian.com
Link : https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/sep/06/save-earth-disposable-coffee-cup-green
7.09.2018
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l’autore della traduzione Bosque Primario
(*NdT*) – A conferma della tesi dell’articolo: Ho inserito un link per mostrare il libro citato e mi sono reso conto che tutti i link riportati su Chrome fanno riferimento sempre e solo a Amazon che immagina che si possa continuare ad andare avanti così come facciamo oggi e che basterà sostituire un materiale con un altro. Il mese scorso, qualcuno ha chiesto a Starbucks e alla Costa di sostituire le tazzine di caffè di plastica con nuove tazzine fatte con amido di mais: questa richiesta è stata ritweettata 60.000 volte, prima di essere cancellata.