DI PIERO VALERIO
Tempesta-perfetta
Che l’eurozona sia nel caos ormai è un dato di fatto. La mancanza di un governo centrale capace di prendere decisioni univoche e chiare (e magari anche razionali e comprensibili, che non guasta) si sta facendo sentire proprio adesso che bisogna fare delle scelte e nessuno sa bene chi sia autorizzato a farle. In mezzo a questo putiferio istituzionale l’Irlanda nel silenzio più assoluto dei media (perché parlare di cose importanti, ci sono tante belle scemenze di cui parlare? Gli occhi di Berlusconi, le lacrime di Bersani, le bacchettate di Grillo, l’elezione del papa, insomma per i cialtroni dell’informazione c’è solo l’imbarazzo della scelta), la piccola Irlanda ha fatto una mossa che potrebbe mettere presto in crisi il colosso d’argilla europeo e nessuno sembra avere la capacità di cambiare gli eventi. La Commissione Europea scarica il compito alla BCE e la BCE, a sua volta, per bocca del suo governatore Mario Draghi, passa la patata bollente al Consiglio Direttivo, che a quanto pare sul caso specifico dell’Irlanda dovrà pronunciarsi entro la fine dell’anno.
In questo contesto di confusione assoluta, il governo irlandese guidato dal primo ministro Enda Kenny (foto a sinistra) pare sia l’unica istituzione ad avere le idee chiare e abbia deciso di continuare ad andare avanti per la sua strada, in attesa che qualcuno si decida a pronunciarsi chiaramente sul da farsi.
Il risultato odierno è un passo storico sulla strada per la ripresa economica” ha detto trionfante al Parlamento di Dublino Kenny qualche giorno fa “Questa manovra assicura la futura sostenibilità finanziaria dello stato“.
Ma cosa ha fatto di così rivoluzionario ed epocale Kenny?
Si tratta di un’ennesima bufala o fregatura per i cittadini, oppure questa decisione aiuterà concretamente la ripresa di uno stato a pezzi? Andiamo con ordine perché la posizione attuale dell’Irlanda è molto delicata. Malgrado tutti i plausi pervenuti da ogni parte, da Bruxelles e Berlino in particolare, per il rigore teutonico con cui l’Irlanda ha seguito il suo programma di austerità, fatto principalmente di licenziamenti nel settore pubblico e tasse, la situazione del paese è ancora drammatica, con l’economia che ristagna e la disoccupazione che si attesta intorno al 14%. Senza considerare tutti i massicci movimenti migratori dei giovani
ragazzi irlandesi verso l’Australia, soprattutto. Una catastrofe sociale che come i
meglio informati sanno non è dovuta affatto all’eccesso di debito pubblico,
agli sprechi o alla corruzione della classe politica, ma alle sciagurate
gestioni fallimentari di un ristretto manipolo di banchieri privati, appoggiati e spalleggiati ovviamente dai politici locali, che nel giro di pochi anni sono riusciti a sommergere di
debiti l’intero paese. Chi ancora ha dei dubbi su come si sia sviluppata e
quale sia la vera origine della crisi finanziaria che attanaglia oggi
l’eurozona, dovrebbe studiare meglio il caso dell’Irlanda che è sicuramente il più emblematico di tutti. E con qualche piccola variante, dovuta alla minore o maggiore compartecipazione del settore pubblico, applicarlo poi agli altri paesi PIIGS. Italia compresa.
Ma vediamo innanzitutto a grandi linee quali sono gli elementi e gli eventi principali che caratterizzano il caso irlandese. Prima dello scoppio della bolla speculativa dei titoli subprime americani del 2008, l’Irlanda era a detta di tutti il paese più “virtuoso” d’Europa per quanto riguarda i conti pubblici: aveva raggiunto il pareggio di bilancio fra entrate e uscite e il suo debito pubblico era sceso addirittura sotto il 40% del PIL. Il regime di defiscalizzazione degli investimenti, con una tassazione media del 12% fra le più basse del mondo,
aveva convinto molte multinazionali (Google è soltanto la più famosa, ma ci
sono anche IBM, Apple, Xerox, Intel) a prendere sede in Irlanda, per godere dei
vantaggi di arbitraggio concessi dalla globalizzazione. I nuovi capitali che arrivavano a fiumi in Irlanda, oltre a dare la parvenza di un paese sviluppato con bassa disoccupazione,
avevano ingrossato anche i depositi presso le banche locali che prese
dall’euforia si erano lanciate con entusiasmo nel campo degli investimenti speculativi in titoli derivati, soprattutto americani, e nell’attività creditizia interna nel settore immobiliare. Insomma fra l’acclamazione generale si stavano creando le premesse per la nascita di una piccola bolla bancaria all’interno della più grande bolla finanziaria che intanto si stava minacciosamente gonfiando a livello internazionale.
Attirate dagli alti rendimenti, le banche tedesche e francesi non
avevano lesinato a sua volta ad investire in titoli delle banche irlandesi,
mantenendo in piedi uno schema finanziario molto fragile, perché sostenuto appunto
dai capitali e dagli investimenti esteri e non dai risparmi interni. E così mentre il debito pubblico scendeva rapidamente, il debito
estero, contratto soprattutto dal settore bancario privato, continuava ad
ingigantirsi senza che nessuno suonasse mai il campanello di allarme. Anzi, gli
analisti finanziari più esperti si sperticavano in una serie interminabile di
elogi per il modello di sviluppo applicato in Irlanda, presentandolo al mondo
come un esempio da seguire per molte altre nazioni che stentavano a far
ripartire l’economia. L’Irlanda era chiamata la “Tigre Celtica”, proprio
per la sua intraprendenza nel campo finanziario, cosa che in effetti avrebbe
dovuto preoccupare e insospettire qualcuno dei residenti visto la fine che
avevano fatto le “Tigri Asiatiche” dopo lo scoppio della bolla speculativa del 1997. Ma gli analisti finanziari come si sa hanno la memoria corta, soprattutto quelli che lavorano all’interno di
grandi gruppi bancari e finanziari e devono tenere alto il valore degli
investimenti fatti dalle rispettive società di appartenenza. Importante in
questi casi è non rimanere mai l’ultimo con il cerino in mano quando scoppia la bolla, ma fino a quando gli affari si gonfiano bisogna soffiare aria fritta e parole a vanvera con tutta l’energia
e la credibilità possibile.
si trovarono strette in una doppia morsa di crisi di solvibilità e liquidità, dato che gran parte delle attività finanziarie e immobiliari si erano deprezzate drasticamente e chi era
ancora in tempo aveva provveduto a prelevare i suoi depositi per riportarli
all’estero. Per impedire che iniziasse una furibonda corsa agli sportelli, il governo irlandese si vide costretto ad apporre la garanzia statale sui depositi
delle banche intervenendo pesantemente per evitare il collasso e fornire il
salvataggio pubblico necessario. E qui finisce la storia della virtù pubblica
dell’Irlanda, che da stato “virtuoso”
cominciò ad essere additato dai soliti analisti come uno stato spendaccione, un
maiale, alla stregua degli altri PIIGS dell’eurozona (pochi ebbero la decenza e il pudore di spiegare che il governo irlandese era intervenuto
soprattutto per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi, che
in caso contrario avrebbero subito ingenti perdite). Ma per capire meglio le
dimensioni del debito estero
accumulato dall’Irlanda, guardiamo il grafico sotto diviso per categorie (investimenti diretti, investimenti di portafoglio, debiti bancari e
finanziari, banca centrale): già nel 2010,
il debito estero complessivo ammontava a €1,73 trilioni circa, ovvero 10 volte
maggiore del PIL del paese di €173 miliardi. Una situazione molto preoccupante,
che non si discostava affatto da ciò che stava accadendo intanto in Spagna, Portogallo e Grecia.
dal cui saldo derivava una posizione netta sull’estero passiva superiore al 90% del PIL (quindi ben oltre il livello di guardia fissato dai più autorevoli
economisti intorno al 50% del PIL). Nel 2010, il governo irlandese ormai alle
corde, impossibilitato a finanziarsi sui “mercati” a rendimenti accettabili, si vide costretto a chiedere un piano di salvataggio internazionale da
€67,5 miliardi all’Unione Europea, alla BCE e al FMI. In particolare i €30,6 miliardi concessi dalla BCE dovevano servire per il salvataggio diretto delle due banche più in crisi, la AIB e la
INSB, che furono fuse in un’unica banca chiamata IBRC (Irish Bank Resolution Corporation).
Gli investitori stranieri furono così tutelati senza alcuna perdita e
ricevettero la garanzia del ritorno del 100% del loro investimento iniziale,
mentre tutto il peso della cattiva gestione delle banche irlandesi ricadde sul governo e indirettamente sui cittadini, che furono penalizzati con
un notevole aumento della pressione fiscale e un taglio netto della spessa
pubblica, che comportò migliaia di licenziamenti nel settore statale. In
finanza accade sempre questo strano fenomeno: chi investe grosse somme non
perde mai, mentre chi scommette poco o non ha mai messo piede in una banca e
non sa nemmeno cosa sia la borsa deve pagare per i primi. E così, gravati da questa pesante passività, i conti pubblici andarono in rovina, il surplus faticosamente raggiunto prima del 2008 passò a diventare un deficit pubblico, che dal disastroso -30,9% del 2011 è passato al -8,2% attuale (grafico sotto). Anche perché come capita spesso in questi casi oltre alle maggiori uscite per il salvataggio pubblico delle banche il governo dovette assistere ad un calo delle entrate tributarie dovuto al crollo del reddito nazionale.
Il programma di assistenza, Emergency Lending Assistance (ELA),
negoziato dal governo con la Banca Centrale d’Irlanda, prevedeva in cambio della liquidità necessaria per far
funzionare la nuova banca IBRC la firma e la consegna di vere e proprie cambiali (Promissory Note) pagabili dal governo in 20 anni. Il piano di rientro era così composto: €3,1
miliardi ogni anno per 12 anni (il 2% del PIL nazionale), €2,1 miliardi nel
2024, quindi €0,9 miliardi per 5 anni e infine €0,1 miliardi a saldo nel 2031, con un
interesse complessivo associato all’operazione di €17 miliardi che il governo
avrebbe dovuto corrispondere durante tutto il corso dei venti anni. Con le
solite tasse e i tagli alla spesa pubblica. Di conseguenza il debito pubblico, sotto il peso di
questo macigno, è sprofondato dalla sua iniziale quota “virtuosa” inferiore al 30% agli oltre 100% del PIL attuali (grafico sotto), facendo allarmare sia i
politici che i cittadini sulla reale sostenibilità dell’intera manovra di
salvataggio bancario. Anche perché a più riprese, la protesta dei cittadini si è fatta sentire rumorosamente, sia con manifestazioni contro le crescenti tasse
che con proteste di piazza contro i
banchieri truffatori e i governanti compiacenti.
Ma a questo punto comincia la parte più interessante del racconto.
Già ad inizio gennaio del 2013, il premier Kenny
intraprende i suoi primi viaggi della speranza verso Bruxelles e Francoforte per
trovare nella Commissione Europea o nella BCE degli interlocutori validi per ritrattare l’intero programma di rientro. La situazione già precaria dell’economia irlandese che mostrava qualche timido cenno di ripresa non poteva essere appesantita con i previsti prelievi annuali
e secondo Kenny era più che mai necessaria una ristrutturazione del debito per consentire un atterraggio più morbido e allungare il piano generale di rimborso. Tuttavia il classico
balletto dello scaricabarile inscenato dagli inconcludenti tecnocrati europei unito
all’avvicinarsi della data del 31 marzo in cui l’Irlanda avrebbe dovuto
rimborsare la sua quota annuale, hanno convinto Kenny a prendere una decisione perentoria.