DI ALCESTE
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Vado non vado. Ci andiamo: è inutile. Non ci andiamo: il potere dilaga. Allora ci andiamo? Ma no: è inutile! Basterebbe ammettere che entrambe le cose sono vere. Sì, le elezioni democratiche sono inutili. Votare lo è. La democrazia è inutile ai fini di un cambiamento radicale degli eventi (l’unico cambiamento che interessa). E però sono utilissime; per il PD, Giorgia Meloni e compagnia cantante addirittura fondamentali. C’è bisogno di un perdente credibile per simulare ecumenismo. Non si sottovaluti, poi, il bisogno di pagnotta. Per la pagnotta ci hanno venduti al miglior offerente. Entrambi gli schieramenti, dal 1989 a oggi.
Rifondare. Un ristorante al centro di Roma, famosissimo, varie centinaia di euro per uno spuntino. Un dirigente comunista, lì rifugiatosi dopo le fatiche del comizio antiberlusconiano, è al telefono con un conoscente. Sta trattando l’acquisto di un casale, in Umbria o in Toscana. Si intrattiene, per venti minuti circa, predisponendo fittamente bonifici e sconti. La cifra si aggira sui 300.000 euri. Un cameriere orecchia la conversazione. Il dirigente, un altissimo dirigente isolano, chiude la comunicazione e ordina gli antipasti, un po’ stanco delle pieghe multiformi della sua impegnatissima esistenza. Il cameriere, ossequioso, muove i piedi piatti sul pavimento di pregio: scatta, veloce; non ha malanimo, odio di classe: vuole solo ottenere una mancia più sostanziosa. L’accaduto, la cui veridicità era, ed è, indubbia, mi scosse sino all’amarezza. Sono passati millenni. Ora guardo a quell’episodio con un sorriso. Ah, la pagnotta!
Consistenza. I movimenti apparentemente più credibili (Salvini, M5S, Casapound; fra essi ci saranno sicuramente uomini di valore) non potranno smuovere alcunché. Potrebbero mediare fra bisogni veri della popolazione e istanze tecnocratiche, ma non ne saranno in grado.
Basti confrontare, a tale scopo, le prose dei vecchi democristiani e comunisti con quelle attuali. Da una parte una lingua, o accademica o retorica; dall’altra afonia concettuale. Per tacere dell’oratoria rabberciata. La decadenza della scuola ha prodotto tipi di scarsissima consistenza morale e intellettuale. Tale declino si propaga per via aerea contagiando i migliori: anch’essi, nei loro giri logici, ogni passione spenta, trasmettono ormai un senso di scipita acculturazione.
Seneca. “Nessun vento è favorevole al marinaio che non conosce porto“, affermava il maestro del primo Nerone, Claudio Cesare Augusto Germanico Nerone, ingiustamente dileggiato da Hollywood.
Ante 1989. Prima del 1989 esisteva, perlomeno, un filtro tra Italia profonda e direttive transnazionali. Ci si barcamenava fra l’Asse del Male e l’Asse del Bene. I protagonisti di allora erano uomini di mondo, dallo spessore notevole. Si valutava la risultante delle forze in campo, tra istanze popolari e ragion di Stato, e si agiva di conseguenza. Qualcuno è rimasto schiacciato dal compito. Il cadavere rattrappito di Aldo Moro, le eruzioni cutanee di Cossiga, sono lì a ricordare l’immane impegno dei piedi in due staffe.
Giulio Andreotti. Nel 1991 vidi, a tu per tu, per ragioni di servizio, quasi tutti i protagonisti della Prima Repubblica. De Michelis, Cossiga, Andreotti, Craxi, Pannella, Occhetto, Forlani, Martelli, La Malfa, Altissimo, Spadolini, Jotti.
Uno di questi era un notorio pederasta e lo scoprimmo de visu; un altro, chiacchierone e gaudente, benché scopofilo, come si sussurrava, affettava la conoscenza strabiliante dell’universo svariando da una materia all’altra come un calabrone impazzito: buffone, ma simpatico.
I migliori: Andreotti e Craxi.
Difficile descrivere l’umiltà di Andreotti. Ingobbito, ma più alto della media e con un portamento sicuro che smentiva gli sberleffi satirici di mezzo secolo, egli non parlava; nessuno, peraltro, osava rivolgerglisi direttamente, almeno lì. Per farlo si ricorreva a valletti o portaborse adeguati alla bisogna. Ognuno, perciò, parlava necessariamente a essi, quali entità prossime; questi relazionavano un loro simile, ma più autorevole, forse il segretario particolare, e lui, solo lui, vantava l’onore di bisbigliare all’orecchio di Giulio. La compagnia di Andreotti si muoveva all’unisono, con grazia felpata, movendosi senza arrecare rumore; dove transitava Andreotti, anzi, si creava naturalmente del silenzio. Tacevano militi, furieri, marescialli e ufficiali. Solo il generale della base aerea poteva salutarlo tête-à-tête, come un conoscente con cui si ha familiarità, seppur non bastevole a dissolvere la deferenza e il “Lei”. Brevi parole di circostanza cui Andreotti rispondeva con un gentile borborigma. Poi il Nostro sedeva nella poltrona della sala, in attesa della scorta: pochi minuti per ordinare qualcosa. Intanto famigli e secondi armeggiavano discretamente con valigette, borse di pelle e documenti. In quelle carte, infatti, si decideva il destino della nazione: se gli Americani dettavano il tragitto, è vero che durante il tragitto la DC si concedeva numerose scampagnate. Lo sguardo fisso di Giulio Andreotti, atarassico, di una placidità vitrea dietro le lenti spesse, aveva qualcosa del bonzo orientale. Egli sapeva. Sapere equivale a condannare, in certi casi. Agire o lasciare che si agisca, nostro malgrado. Il peso del potere era lì. La figura nerovestita, incravattata, impeccabile, di sbieco sulla seggiola damascata, irrigidita in un formalismo agghiacciato dalla consapevolezza. Aiutare, lasciare soli, rendere estranei. Soppesare intere esistenze. Mi sorpresi a fissarlo più del dovuto; scorsi un movimento appena percettibile dietro le lenti e ne rimasi quasi sconvolto, come un peccatore colto negli andirivieni della colpa più meschina. Avevo vent’anni! Andreotti, durante quelle brevissime e rare visite, non faceva nulla. Posava. Rimuginava? Forse. Meditava mosse sulla scacchiera? Chi lo sa. Se mi avessero detto che lo avrei rimpianto non avrei creduto alla panzana, ovviamente. Quando decadde la stella di Giulio Andreotti? Nel 1989. Sì, nel 1989 la finzione storica, una delle tante, cominciò a mostrare i fondali di cartapesta. Neanche lui, il Capocomico, poteva tenere in piedi la recita. Quanto sangue sparso, quanta futilità, quanto dolore! Fu necessario. Sì.
Cravatte. La cravatta di Giulio Andreotti, il nodo texano di Francesco Speroni. Simboli di una staffetta che ci ha portati al Nulla.
Bettino Craxi. Craxi era diverso. Una personalità impressionante. Un’arroganza senza pari, affascinante, materica, maschia, concretata in cenni di malcelato disprezzo verso i sottoposti, ordini bruschi e sgraziati e offensivi disconoscimenti. Craxi sudava e, in maniche di camicia, emanava una forza bestiale e tracotante di dominio. Anche qui: nessuno osava fargli domande dirette. I militari, tutti, lo detestavano poiché legati a un mondo pievano e reazionario. A colonnelli e capataz non piaceva l’abbandono della forma, la mancanza di senso della gerarchia e della misura, la liquidazione della penitenza ecclesiastica. Non li convinceva, poi, il frenetico attivismo di marca oltreatlantica, così alieno dall’aplomb cattolico che tutto tiene, a qualsiasi costo, sino allo sfinimento, e chiunque accontenta e ciascuno accomoda, nel rispetto delle parti e della verticalità dell’organizzazione. Attenda il suo turno, sia devoto e la ricompensa seguirà. Il monsignore ha il proprio mondo, l’assessore il suo, ma anche l’impiegato del Catasto o il bidello vantano il proprio: nessuno rimane indietro! Craxi, invece, operò diversamente simulando efficientismo e merito, sdoganando personaggi impresentabili (che, lui per primo, reputava impresentabili) solo per spezzare il monopolio democristiano. In un pomeriggio assolato, estate 1991 (allora non ricopriva alcuna carica istituzionale), lo vidi sulla pista d’atterraggio, a capo scoperto, massiccio, definitivo, con la giacca in mano, la camicia bianca un po’ spiegazzata, e leggermente attaccata alla schiena umida, come un Bonaparte incredulo e spaesato che presagisse la fine. Tutti gli obbedivano ancora ciecamente: la scorta sfrecciò prontamente. Ne scesero gli uomini di sempre, fidatissimi. Lui, tuttavia, rimase per una manciata di secondi, che dilatavano la loro breve vastità nelle aspettative sbalordite dei suoi, a fissare le lontananze degli atterraggi. Cosa avrà pensato, allora? Seguì, mi ricordo, il planare di un Falcon … cosa rimuginava? Presentiva l’esilio, oppure stava organizzando le dita del suo immenso potere in un velleitario pugno risolutivo? Di chi si fidava? La solitudine coglie sempre di sorpresa i potenti. Carlo Alberto dalla Chiesa, eroe plurimedagliato nella lotta al terrorismo, ha la scrivania ingombra di pratiche, mattinali, foto, soffiate. Eppure il suo telefono più non squilla. Nessuno lo cerca. È un segnato. Un morto che cammina. Escluso dalla comunità patrizia, è ormai abbandonato agli dei, sacro e perciò sacrificabile: chiunque, fosse pure un bandito, può ucciderlo senza rischiare alcuna pena. E così fu. Craxi sapeva? Sentiva d’essere sacrificabile? Nel 1991, all’apice della forza, aveva sentore di tradimenti, movimenti segreti? Capiva, da uomo intelligente qual era, che il disgregarsi di un’epoca lo avrebbe reso “sacer”? Nessun cardinale o papa avrebbe perorato arringhe in sua difesa. Troppa ambizione aveva divorato le amicizie, la fulminea parabola era insufficiente a guadagnarsi la riconoscenza delle masse: i veri beneficiari del suo impero, d’altronde, non erano che pagliacci da cui non sperare nulla. Era solo. Il labbro superiore imperlato di sudore, non solo per il caldo, ma per l’interiore forza vitale, volgare e debordante, ecco Craxi toccarsi gli occhiali con movimento inconscio e riscuotersi sparendo nelle frescure dell’auto di servizio.
Quei pochi secondi sull’asfalto arroventato di Ciampino aspettano uno Zola, un Balzac, un Maupassant.
Pecore e montoni. La Criptocrazia esige delle pecore. Alcuni si sentono montoni, per un poco. Altri riescono a patteggiare: la fuga in cambio della vita. Altri erano pecore e come pecore si sono comportati: sono gli Zapatero, i Blair, gli Schroeder, gli Tsipras e, inevitabile, la paccottiglia italiana.
Lorenzin. La Lorenzin? E chi l’ha votata? Eppure è lì, ha deciso atti capitali. Chi conosceva questa signora prima del 2013? Nessuno. Chi sa quali personalità danneranno l’Italia nel 2019? Nessuno. Si vota a caso. Il potere, tuttavia, ha già deciso. Improvvisamente, fra qualche mese, alcune sconosciute personalità cominceranno improvvisamente a prendere peso e spessore. Alcune inspiegabili defezioni avranno luogo. Inversioni di marcia ideologica si spiegheranno sotto i nostri occhi increduli. E allora? Dove sarà allora il voto? La forza vincolante delle matite copiative? E allora giù col Silvio traditore, il Salvini mollaccione, il Di Maio inconcludente. Ma ormai i giochi saranno conclusi: altri cinque anni di merda e sangue. In attesa di nuove elezioni.
Crucifige? Come possa girare a testa alta Romano Prodi nel 2018: questo è un enigma psicologico di alto contenuto. La risposta: mai e poi mai donare all’elettore la verità. Solo la bella menzogna muove la storia. Lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo di più … Una menzogna, ben fatta, però. Ha servito, egregiamente. E ora? Sotto con altre menzogne, altri attori, altri giri di valzer.
The running man. La civiltà occidentale stessa è, oggi, un complotto. Entro i limiti dell’Occidente ogni cosa è segnata, il movimento apparente. Non c’é, a breve termine, possibilità di fuga o redenzione. La fuga o il grande botto. Il botto? E perché dovrebbero farci un tale favore? La fuga? Dove volete sparire, tontoloni? Solo il no irriducibile al complotto può servire a qualcosa. La fuga? … La fuga dei cervelli italiani in un mondo migliore, reclamizzata con incessante sicumera da Il Fatto Quotidiano, mi ricorda L’implacabile, il film tratto dal bel romanzo di Stephen King, L’uomo in fuga (The running man, 1982).
Ambientazione: stato totalitario dell’America del Nord, ex Stati Uniti. I Corridori (running men, appunto) che sopravviveranno agli attacchi degli Sterminatori nel gioco televisivo omonimo potranno incassare cifre sardanapalesche e condurre così una vita agiata alle Hawaii o in qualche dolce paradiso del Sud. Immagini idilliache dei concorrenti “che ce l’hanno fatta” scorrono davanti agli occhi dei telespettatori prima della tenzone gladiatoria vera e propria. Sì, loro sono fuggiti, da veri Corridori, prima degli altri, meglio di tutti e ora se la godono, come afferma il mellifluo presentatore Killian. Solo più tardi il Corridore più tosto, Ben Richards, scoprirà che quelle sequenze sono inventate di sana pianta; quelli “che ce l’hanno fatta” son solo specchietti per i gonzi: i loro cadaveri putrefatti giacciono dietro le quinte della finzione Tri-Vu.
Evangelium. Dire no, sempre e solo no, tutti i giorni. Questo è un inizio … interrompere carriere, subire attacchi, allontanare continuamente i cretini, ingoiare bile nera, sopprimere amici. Difficile, duro, durissimo. Infatti si preferisce una croce.