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La Redazione

 

LAVORARE NON CONVIENE PI. PER MOLTI.

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A cura di Davide
Il 26 Marzo 2012
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DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com

La domanda alla quale vogliamo tentare di rispondere in questa circostanza è la seguente: ha ancora senso lavorare? Ancora meglio: è ancora utile farlo? Beninteso, stiamo parlando, ovviamente, del lavoro salariato, e possiamo anche restringere ancora di più il quesito, cercando di trovare una linea di confine al di sotto della quale la risposta potrebbe non essere così scontata come invece a prima vista la maggioranza dell’opinione pubblica crede. In questo caso il punto diventa: quale è il limite al di sotto del quale lavorare non solo è avvilente, ma nei fatti diventa anche controproducente.Il motivo di tale domanda è molto semplice: molti pensano che quando scriviamo di pensare realmente a cambiare il proprio modus vivendi, di spostarsi, cambiare attività e in senso generale cercare di crearsi un nuovo paradigma – anche pratico – per sopravvivere, parliamo di utopie che sono al di fuori della realtà. Come vedremo, in molti casi, è molto più al di fuori della realtà rimanere in alcune condizioni piuttosto che prendere seriamente in esame un cambiamento radicale di vita.

Un lavoro, in teoria, dovrebbe consentire di soddisfare, per il lavoratore, almeno tre ambiti: economico, pratico, psicologico. Ovvero esistenziale.

Dal punto di vista economico dovrebbe garantire quanto meno di poter arrivare, proprio dal punto di vista numerico, alla piena sussistenza ogni mese. Il che significa che deve essere necessario, se non a consentire di risparmiare economicamente qualcosa per le incertezze che in ogni caso il futuro porta con sé, quanto meno a pagare i conti necessari ad avere l’indispensabile. Alloggio e vitto, e spese accessorie collegate. Come vediamo, stiamo parlando proprio del minimo indispensabile.

Dal punto di vista pratico dovrebbe consentire di soddisfare alcune necessità, ma sopra a tutte una: poiché il tempo che il lavoro sottrae alla vita di tutti i giorni non può, siccome non abbiamo il dono dell’ubiquità, essere utilizzato per svolgere altre attività, il guadagno economico che si trae da una giornata lavorativa deve quanto meno servire a poter acquistare una serie di cose e servizi che non possiamo svolgere da soli, per ovvi motivi di tempo. E questo, sia chiaro, ancora prima di entrare nel merito del fatto che sia giusto o meno, positivo o negativo, scegliere di lavorare per acquisire denaro per comperare cose che invece si potrebbe fare da soli.

Dal punto di vista psicologico dovrebbe infine almeno poter garantire di vivere una esistenza che dal punto di vista emotivo possa scorrere senza ansie o paure, per esempio quella, sempre più diffusa nella nostra società, di riuscire a soddisfare le proprie necessità. Ma ancora: visto che il lavoro occupa non solo la maggior parte delle giornate, ma in senso lato la maggior parte della propria vita, dovrebbe essere essenziale pensare come imprescindibile il fatto che il lavoro che si svolge debba essere scelto e preferibile rispetto a un altro. Fare un lavoro che non solo costa fatica (il che è anche normale) ma che non piace e che magari reca profondi scontenti, equivale a passare la maggior parte della propria vita a fare una cosa controvoglia. In altre parole, a soffrire, soprattutto emotivamente, per tutto il corso della propria vita lavorativa (il che equivale, oggi come oggi, sino quasi alla morte).

È logico a questo punto fare un bilancio del proprio lavoro e verificare se questi tre ambiti sono soddisfatti, e come, oppure se siano in varia misura e combinazione più o meno disattesi. Ci sarà chi svolge un lavoro che non gli piace affatto, magari in un ambito che per propria inclinazione è diametralmente opposto al proprio sentire, ma che attraverso di esso soddisfa bene, diciamo ben oltre i limiti minimi che abbiamo indicato, gli altri due punti. Oppure chi in qualcuno di questi ambiti rilevi di essere ben al di sotto di un certo limite, ma che magari la cosa sia compensata in modo rilevante da almeno uno degli altri.

Ma esiste un caso in cui tutti i tre gli ambiti siano del tutto disattesi. In cui il lavoro che si svolge non consente di percepire uno stipendio in grado di far fronte alle mere indispensabili necessità economiche, in cui non lasci il tempo di fare altro e che apporti un profondo malessere al lavoratore.

Questo è, nel nostro modello e in modo particolare negli ultimi anni, il caso più diffuso. E presumibilmente, almeno leggendo i dati economici e sentendo le dichiarazioni stesse dei nostri governanti, sarà così a lungo. Molto a lungo: secondo Monti, ed è solo una previsione, in Italia abbiamo almeno “venti anni di regime controllato”. È una situazione, dunque, che non è destinata a cambiare sensibilmente in positivo per un periodo molto lungo. Quanti anni avremo tra (almeno) venti anni?

Indichiamo un caso scuola, puramente esplicativo, che può però essere calibrato da ognuno variando i parametri relativi alla propria situazione, al luogo di residenza e alle proprie necessità. È un caso che conosciamo di persona, e non è uno dei casi limite. Le condizioni di vita e lavorative che andremo a descrivere sono di una persona che oggi può addirittura considerarsi fortunata, rispetto alla maggioranza dei lavoratori della sua stessa età, o giù di lì.

Trentotto anni, contratto a tempo indeterminato, 1000 euro al mese di stipendio netto, per 8 ore di lavoro dal Lunedì al Venerdì. Comune di lavoro Roma, e così la residenza.

Il nostro lavoratore è single, vive in un appartamento di 35 metri quadrati in affitto, per il quale paga 550 euro al mese più 100 di condominio. E più, ovviamente, le utenze.

Come si vede, abbiamo scelto una situazione che, per chi conosce il mondo del lavoro in una grande città o comunque può immaginare quanto accade oggi in una situazione analoga, è già ben al di sopra di tante situazione che invece sono, e di molto, peggiori.

Per raggiungere il posto di lavoro, il nostro soggetto utilizza un motorino, e impiega circa 35 minuti per andare e lo stesso tempo per tornare.

Ebbene questa persona, pur avendo un contratto a tempo indeterminato nel settore privato, per riuscire ad arrivare alla fine del mese deve svolgere necessariamente un secondo lavoro (nel caso, un paio di serate in un locale).

Il motivo è semplice, tra affitto e utenze, assicurazione per il mezzo e la benzina, ciò che le resta non è sufficiente a poter comperare la quantità di cibo – meramente: il cibo – che le necessita per arrivare a fine mese. E non parliamo di altre cose: vestiario, oggetti di altro tipo, spese impreviste, svago.

Ma il punto non è solo meramente numerico. Il fatto è che le sue giornate iniziano alle 8 e terminano alle 19, spostamenti inclusi, tranne i giorni in cui lavora anche la sera, soprattutto nel fine settimana.

E ancora, in modo determinante, questa persona, in ogni caso, non è in grado di poter accedere a nulla di ciò che Roma “offre”, come la varietà di cinema e teatri, concerti ed esposizioni culturali, ristoranti, locali e più in generale tutto ciò che non sia lavoro e che (per chi apprezza) è possibile avere in una grande città: non ha denaro a disposizione per potersi permettere qualcosa. In pratica non può accedere a nulla per cui valga la pena vivere. Può solo lavorare per (tentare di) arrivare alla sopravvivenza sino alla fine del mese.

Ultimi tre punti. Il primo: svolge un lavoro impiegatizio che non le offre alcuna soddisfazione personale, che mediamente la annoia per otto ore ogni giorno e la impegna per nove ore o più. Il secondo: ha da poco scoperto che, nella migliore delle ipotesi – ovvero che l’azienda per la quale lavori non ceda alla recessione e sia costretta a licenziare, e che nel frattempo non occorrano altre manovre per la previdenza – potrà andare in pensione tra non meno di venticinque/trenta anni. Il terzo: non c’è alcuna possibilità all’orizzonte, mediamente logica o sulla quale puntare (che non sia una mera speranza) che le cose possano cambiare in meglio.

In sintesi: conduce una vita da schiavo – pur se in condizioni certamente migliori di tantissime altre – per riuscire a malapena ad arrivare alla fine del mese (quando non ci arriva si appoggia, anche solo per il vitto, a una rete di familiari) il più delle volte facendo i conti al millimetro, lavorando circa cinquanta ore a settimana in totale (tra primo e secondo lavoro) per fare cose dalle quali non trae neanche alcuna soddisfazione psicologica, senza poter godere nulla di ciò che una città come Roma offre ma soffrendone tutte le difficoltà (traffico, inquinamento, prezzi alti per ogni cosa) e con una prospettiva di condurre una vita del genere per arrivare, forse, a percepire una pensione quando avrà le forze, e il denaro sufficiente, appena per fare una passeggiata ai giardini comunali.

Nulla, a nostro avviso, vale un sacrificio simile. E stiamo parlando, ribadiamo, di una situazione infinitamente migliore di quella della maggior parte dei lavoratori della sua età, o poco più giovani. Ovvero della situazione lavorativa della generazione attuale e di quelle prossime.

Esiste dunque un limite minimo – anche se differente dal punto di vista del “quanto” in base al luogo in cui si vive, ad esempio se in una grande città oppure in provincia – al di sotto del quale lavorare diventa controproducente. Ed è, come abbiamo visto, un ragionamento prettamente logico, numerico, pratico.

Volutamente non abbiamo affrontato in questa sede, ma lo faremo a breve, l’aspetto più prettamente emotivo e se vogliamo filosofico del concetto di lavoro. Ovvero, detto sinteticamente, il concetto di “senso” – direzione e significato – che il lavoro dovrebbe avere (rispetto a quello che la maggioranza delle persone fa e che invece, di senso, ne ha poco, in generale e per sé). Come detto torneremo sul punto prossimamente, per ora valga almeno una riflessione: svolgere un lavoro che impegna la maggior parte delle proprie giornate e percepire che tale lavoro non ha senso se non (e non sempre) nella misura unica del ritorno pratico, economico principalmente, equivale a dire che si sarà spesa la propria vita intera senza senso. Se questa considerazione valga poco o molto, ognuno può dire. In ogni caso, affronteremo il tema presto.

Tornando a noi, moltissimi tra i lavoratori attuali vivono proprio una situazione al limite, e molti sono direttamente al di sotto di tale limite: lavorano anche moltissimo senza riuscire a percepire uno stipendio in grado di garantirgli anche il minimo che un lavoro dovrebbe garantire.

Semplice deduzione impone dunque una seconda domanda: perché si continua a perpetrare una situazione che, in modo evidente, non è in grado di risolvere la propria esistenza? La risposta è purtroppo brutalmente frustrante: la maggior parte di chi vive una storia del genere, pur rendendosi evidentemente conto della situazione nella quale versa, preferisce continuare a viverla piuttosto che anche solo ipotizzare la possibilità di imprimere un cambiamento radicale. Di più: molti vivono costantemente nella speranza illusoria che qualche cosa possa cambiare. Per quale motivo, vista la situazione, non è dato sapere.

È come essere una squadra di calcio che gioca una partita evidentemente truccata, in cui ogni minuto l’altra squadra segna dieci reti, e al momento il risultato è di 70 a 1, e però pensa ancora che siccome la palla è rotonda possa accadere qualcosa di non meglio precisato in grado di far invertire la tendenza e sperare almeno in un pareggio quando invece, chiaramente, l’unica cosa da fare sarebbe lasciare il campo in segno di protesta e andarsi a trovare una nuova partita, un nuovo campionato non truccato.

E invece no, malgrado tutto, si continua a stare alla macina. Malgrado l’evidenza si continua a disperdere tutti i giorni della propria vita per stare al gioco di chi non ha altro obiettivo di continuare a farci stare al (loro) tavolo da gioco.

Capire la situazione, rinunciare a credere all’impossibile, e decidere di imprimere un cambiamento alla sfera della propria vita, con tutto quello che questo comporta, naturalmente, è dunque un atto di ribellione. Che ovviamente non è per tutti, anche se, se fosse applicato da un numero elevato di persone e di popoli, sarebbe in grado di innescare ciò di cui ci sarebbe reale bisogno, ovvero una rivoluzione.

In ogni caso, posto che i dati sono questi, e la dimostrazione non è negoziabile, non è che si hanno poi molte altre scelte: o si continua a ignorare la realtà, oppure la si affronta, e se si ha coraggio, si scelgono altre strade. Per quanto inesplorate possano essere. Da una parte c’è una strada certa, e sappiamo senza possibilità di essere smentiti di che tipo è, cosa comporta, e molto probabilmente che non si modificherà, almeno nel corso della nostra vita. Dall’altro lato la possibilità, almeno la possibilità, di trovare altro. A ognuno la scelta, e ora. Non quando la vita sarà passata.

Valerio Lo Monaco
www.ilribelle.com
20.03.2012

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

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