L’accordo sulla brexit è un successo per il Regno Unito

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In questo articolo, scritto originariamente da “Musso” per AtlanticoQuotidiano due giorni prima dell’annuncio ufficiale dell’accordo commerciale raggiunto in seguito alla decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea (la cosiddetta “brexit”), l’autore aveva correttamente previsto quale tipo di conclusione avrebbe avuto la trattativa. Infatti, l’accordo è stato poi siglato davvero il 24 dicembre 2020 dopo aver richiesto una gestazione di quattro anni e mezzo dallo svolgimento del referendum sulla “brexit”. Sino all’ultimo si erano rincorse voci discordanti sulle possibilità che le trattative si concludessero con esito positivo (e quindi si raggiungesse quello che in inglese è chiamato un “deal” ) oppure che l’esito fosse una uscita senza avere raggiunto un accordo commerciale (cioè lo scenario chiamato “no deal”). Si tratta di un successo rilevante per la diplomazia britannica. Da oggi si stabilisce un precedente importante per qualsiasi nazione voglia uscire dall’Unione europea. 

L'accordo Regno Unito-UE viene raggiunto il 24 dicembre 2020

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L’Ue sembra aver deciso di tornare sulla terra, per gli interessi commerciali della gran parte degli Stati membri e il pragmatismo last-minute di Berlino: nessuno vuol morire per il Mercato Unico. Ma Parigi è furibonda e chiude il confine: fallo di frustrazione, o Macron può ancora bloccare tutto? L’Ue otterrebbe un accordo commerciale anomalo (“level playing field“ – ossia “parità di condizioni“ – e aiuti di Stato), ma non gli strumenti dei quali avrebbe bisogno (legge Ue e Corte europea) per impedire a Londra di difendersi, magari pure rivoltandolo contro l’Unione. L’accordo che si prospetta offrirebbe un quadro di riferimento per un processo negoziale permanente tra Ue e Uk. Ma tra pari, obbedendo a leggi e corti diverse e senza che alcuna delle due parti abbia sin dall’inizio il sopravvento. Il che renderebbe giustizia alla determinazione dell’attuale primo ministro britannico, Boris Johnson, e alla “brexit“.

TRATTATI COMMERCIALI: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA

Il Regno Unito sta negoziando con l’Unione europea un trattato commerciale inteso a regolare i rapporti dopo l’uscita definitiva del primo dalla seconda. Per orientarsi, occorre disporre di un minimo di nomenclatura.

(A) Nel commercio internazionale esistono barriere tariffarie, i dazi, ed esistono barriere non tariffarie, fra le quali le restrizioni quantitative: entrambe sono escluse dalle negoziazioni in corso: l’accordo sarà ‘zero tariff, zero quota’.

(B) Esistono poi altre barriere non tariffarie, in forma di regole particolari, fatte in modo che i concorrenti stranieri fatichino a rispettarle: esse possono includere gli standard di prodotto (come il rispetto di determinate caratteristiche di igiene), ovvero standard di produzione (come il rispetto di determinate leggi di tutela dell’ambiente o del lavoro). Tali standard sono particolarmente pervasivi nel mercato unico europeo in quanto gli Stati membri debbono rispettare gli standard sia di prodotto che di produzione. Al contrario, gli altri Stati non membri debbono rispettare solo gli standard di prodotto: possono vendere merce pur se fabbricata da operai bambini, in capannoni pericolanti ed inquinanti; le eccezioni sono sporadiche come l’impegno a rispettare qualche obiettivo sul ‘clima’ (accordo Ue-Mercosur) o sul lavoro (accordo Ue-Corea).

(C) V’è poi il tema degli aiuti di Stato, sotto il titolo di ‘concorrenza sleale’. Nel mercato unico europeo la Commissione ha il potere di controllare gli aiuti di Stato alle aziende anche prima che il denaro sia distribuito. Al contrario, gli Stati non membri si impegnano unicamente ad evitare aiuti particolarmente distorsivi (come si è visto nei due arbitrati incrociati contro Boing ed Airbus).

(D) In caso di disputa, nel mercato unico europeo gli Stati membri ed i privati si rivolgono alla Corte europea di giustizia, che decide in base alla legge dell’Unione. Al contrario, ogni normale accordo commerciale prevede una clausola di arbitrato: una parte terza decide secondo il disposto del trattato commerciale, in modo che una parte non abbia a dipendere dalle corti o dalla legge dell’altra parte.

Come il lettore può vedere, il commercio nel mercato unico è una cosa ben diversa dal normale commercio internazionale. Orbene, nel nuovo accordo commerciale col Regno, l’Unione pretendeva di mantenere tutte intere le esistenti protezioni: standard sia di prodotto che di produzione, disciplina contro gli aiuti di Stato, che a tutti questi si applicasse la cangiante legge europea e che le dispute fosse risolte di fronte alla Corte europea di giustizia. Opponendo un fermo diniego al Regno che, al contrario, aveva in testa un normale accordo commerciale: con standard di prodotto ma senza standard di produzione, senza impegni sugli aiuti di Stato e con clausola di arbitrato; al massimo concedendo che le due parti si impegnassero a non ridurre gli standard di prodotto in essere al 1° gennaio 2021, ma senza impegni riguardo all’adeguamento futuro (“non-regression clause”).

La city si era schierata contro la brexit
Durante la campagna referendaria, una parte rilevante della City si era schierata contro la brexit.

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Accettare le condizioni dell’Unione avrebbe significato, per il Regno, ridursi allo status di colonia commerciale, al pari della Norvegia.

Naturalmente, tale cruda realtà veniva e tutt’ora viene giustificata con argomenti fantasiosi. Scrive un avvelenato avversario della “brexit”, Martin Sandbu, che la Ue vuole impedire alle imprese estere di aggirare “le regole per governare il modo in cui una popolazione democraticamente ha deciso di vivere”, “le regole che esprimono democratiche preferenze su come i lavoratori debbano essere trattati, se i produttori possano inquinare o come gli stati sovvenzionino le aziende” . In altre parole, è solo della ‘popolazione europea’ che ci si preoccupa: e se quella britannica la pensasse diversamente? Inoltre, quando mai i cinesi hanno espresso la propria ‘democratica preferenza’?! Un poco meno stupidamente, il primo ministro olandese ricorre ad argomenti asseritamente tecnico-pratici: “non si tratta di sovranità o di essere liberi, siamo tutti liberi, si tratta degli aspetti pratici del mercato unico” . Gli aspetti ‘pratici’ sono però risolti dagli standard di prodotto: che importa a me, consumatore italiano, se la ciminiera della tale fabbrica inglese non usa tutti i filtri che deve usare il suo concorrente italiano? Tanto più quando ho la certezza che il concorrente cinese di entrambe le fabbriche, di filtri non ne usa alcuno?!

D’altronde, è cosa ben nota che non tutti i Paesi possono permettersi gli stessi standard di produzione. Anzi, è inquinando e sfruttando il lavoro e favorendo massicciamente imprese pubbliche, o semi-pubbliche, che i Paesi sottosviluppati si sono fatti potenze industriali. Non ultima l’Italia: non v’è chi non veda che imporre alla Romania gli stessi standard di produzione della Germania sia solo un modo per ritardare lo sviluppo del capitalismo romeno, il quale non può certo mettersi ad investire le somme necessarie per costruire uno stabilimento a regola d’arte come se si fosse a Stoccarda; mentre sarebbe ben capace di comprarne uno usato a Stoccarda, salvo riservarsi di portarlo a regola d’arte una volta che il successo imprenditoriale gli avesse successivamente arriso quanto basta. Che dire, poi, degli aiuti di Stato, vietatissimi sempre tranne quando è in difficoltà pure la Germania: basti pensare a quanto accaduto quest’anno, allorché l’Unione sospese le proprie regole sugli aiuti di Stato. Insomma, la pretesa avanzata da Bruxelles non mira affatto alla “concorrenza leale”, della quale blatera la Von der Leyen, bensì alla perpetuazione del vantaggio della Germania e degli Stati membri più avanzati. Questo è ciò che gli europeisti definiscono come “integrità del mercato unico”.

Naturalmente, la Gran Bretagna non è la Romania e nemmeno un Paese sottosviluppato, ma deve recuperare una enorme perdita di potenza manifatturiera, ben riflessa nel suo gigantesco deficit commerciale: ciò che le sarebbe ben più difficile all’interno, piuttosto che all’esterno, della legge scritta dalle imprese tedesche e nominalmente detta ‘europea’. Certamente, l’accesso al mercato unico consentiva alla Gran Bretagna di parzialmente rifinanziare tale spropositato deficit commerciale con un notevole avanzo nei servizi finanziari: il mercato unico ha, infatti, questa particolarità. Ma con alcuni spiacevoli effetti, come quello di creare differenze sempre maggiori fra Londra (che tali servizi finanziari produce) e il resto del Regno. Non è un caso che la Gran Bretagna si sia rifiutata di sottoporsi al giogo della legge Ue e della Corte europea.

Scheda elettorale del referendum del 23 giugno 2016
Scheda elettorale del referendum tenutosi nel Regno Unito il 23 giugno 2016.

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Alla propria prima stellare pretesa l’Unione rinunciava nel luglio 2020, sostituendola con una seconda. In merito agli aiuti di Stato, che la legge europea fosse trasposta nella legge britannica (“dynamic alignment”), inclusa l’istituzione di una autorità contro gli aiuti di stato identica a quella di Bruxelles, e che i privati dell’Unione fossero autorizzati a ricorrere di fronte ai tribunali del Regno. Quanto agli standard di produzione, l’Unione proponeva che le dispute fossero risolte da una commissione mista e, nell’attesa di un suo (improbabile) pronunciamento, che l’Unione avesse diritto di adottare autonomamente misure ‘provvisorie’, ciò attraverso: prima una “ratchet clause” (se entrambe le parti innalzeranno insieme i propri standard, accetteranno pure di non tagliarli nell’avvenire), poi una “evolution clause” (quando una delle due parti avesse voluto inasprire una propria normativa, avrebbe proattivamente consultato l’altra e, in difetto di accordo, imposto dazi), infine un “evolution mechanism” (quando una delle due parti avesse addolcito una propria normativa, l’altra avrebbe reattivamente imposto dazi, senza dover portare evidenza dei danni subiti).

Le cose erano a questo punto al Consiglio europeo del 10-11 dicembre, quando di “brexit” si è parlato “otto minuti”, le posizioni restavano “distanti” per Von der Leyen, il divario “ampio” secondo Rutte che pure scandiva “dobbiamo essere fermi”. Merkel salmodiava: “la vera grande domanda in cui abbiamo bisogno di una risposta soddisfacente”  è“capire come reagirà ciascuna parte quando cambieranno le leggi, nell’Ue o nel Regno Unito” . Ossia quando il Regno si sarà sottratto alla legge dell’Unione; e la risposta di Merkel era “abbiamo bisogno di condizioni di parità, non solo per oggi, ma anche per domani e dopodomani” . Ergo, debbono esserci le stesse leggi cioè il Regno deve mimare le legge dell’Unione.

Al referendum vince l’uscita dall’UE
Al referendum ha successo l’uscita dall’Unione europea, con il 51,9% dei voti favorevoli alla “brexit”.

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Pochi giorni e al Parlamento di Westminster veniva chiesto di tenersi a disposizione sotto Natale. Cosa era successo? Beh, pare che la Ue abbia finalmente deciso di scendere sulla terra: ammetterebbe che la parte, che si senta danneggiata dagli aiuti di Stato concessi dall’altra parte, si riterrebbe soddisfatta concedendone di suoi; non chiederebbe più al Regno di seguire le proprie future evoluzioni sugli standard di produzione; inoltre rinvierebbe la valutazione di una futura rilevante divergenza, su entrambi i temi, ad un arbitrato. Da risolvere, di sostanziale, rimarrebbe solo il livello di documentazione necessaria per azionare l’arbitrato. Chi a Westminster ha ribattezzato tali nuove condizioni come “freedom clause”, clausola della libertà, non ci pare abbia tutti i torti.

Certo, l’Unione avrebbe ottenuto un accordo commerciale anomalo (“level playing field“ – ossia “parità di condizioni“ – e aiuti di Stato), ma non gli strumenti dei quali avrebbe avuto bisogno (legge Ue e Corte europea) per impedire al Regno di difendersi, magari pure rivoltando l’accordo contro l’Unione. In Germania sono realistici e la Süddeutsche Zeitung già prevede che sarebbe il Regno a servirsi per primo dell’accordo, denunciando il Recovery Fund come distorsivo della concorrenza. Ma lo stesso potrebbe fare con riguardo agli standard. Col risultato di guadagnare preziose monete di scambio che, se avesse dovuto obbedire o mimare le leggi Ue (e tanto più se avesse dovuto obbedire alla Corte europea anziché ad un arbitrato), non avrebbe guadagnato.

Lo stesso si può dire della parallela negoziazione sui diritti di pesca: essa ha importanza per Francia e Danimarca che pescano nelle acque britanniche sopra tutti, mentre è indifferente a Berlino. Sicché Londra ha potuto evitare di concedere impegni a lungo termine, garantendosi una ulteriore moneta di scambio per l’avvenire. Ciò che ha mandato in bestia Parigi in questi giorni, quando (in barba alle diverse attitudini dell’Unione e di parecchi altri Stati membri) ha bloccato l’intero traffico (passeggeri e persino merci) attraverso la Manica (dove passa circa il 90 per cento del traffico fra il Regno e l’Unione), con la scusa di una certa variante del Covid, peraltro nota da mesi; mentre Londra si divertiva a punzecchiarla, per esempio ordinando a navi della Marina Militare di Sua Maestà di tenersi pronte a dar la caccia ai pescatori francesi.

Un altro caso particolare è quello della piccola Irlanda la quale, nell’accordo di ritiro del 2019, ha ottenuto che la parte nord dell’isola resti nell’unione doganale Ue, cioè che un confine doganale, sorvegliato in presenza di doganieri Ue, la separi dal resto del Regno. Invero Londra aveva provato a rinnegare quell’impegno ma, in ultimo, ha rinunciato. Resta da capire quale vantaggio ne abbiano mai ottenuto i restanti Stati membri, diversi dalla Repubblica d’Irlanda: la risposta è “nessuno”. Talché, si può ben pensare che, alla prima occasione, la Ue scambi questa ‘vittoria’ con altri vantaggi, per esempio maggiori diritti di pesca nelle acque britanniche. E non ne parleremmo più.

Il sottofondo sono gli interessi commerciali nella massa degli Stati membri, in generale poco disposta a morire per il mercato unico. Bruxelles, oggi, è costretta a promettere loro, in caso di “no deal”, di “riportare il Regno al tavolo dei negoziati, il più presto possibile”. Domani passerà il tempo a scambiare una più lasca legge sul lavoro con un po’ di pesce.

Insomma, l’accordo che si prospetta non offrirebbe la descrizione dell’universo, bensì un quadro di riferimento, all’interno del quale Unione e Regno svolgeranno un processo negoziale permanente, fra due parti che obbediscono a leggi e corti diverse e senza che alcuna delle due parti abbia sin dall’inizio il sopravvento. Ciò rende giustizia alla determinazione mostrata da Londra nel perseguirlo, in particolare rinunciando a chiedere una estensione delle trattative oltre il 31 dicembre 2020, non insistendo per un accordo sui servizi finanziari e ripetendo sempre di essere pronta al “no deal“.

bandiera ue in fiamme
Bandiera dell’Unione europea data alle fiamme. Dal 2020 in Germania è in vigore una legge che definisce tale azione come reato penale punibile con una detenzione massima di tre anni di carcere.

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I primi frutti del possibile accordo si vedono nella più ricca fra le colonie commerciali dell’Unione, ossia la Norvegia. Qui, il partito destinato a prendere più voti alle prossime elezioni generali del settembre 2021 (il Partito Agrario o Vedum) sta proponendo di ridurre il contributo del Paese al funzionamento del mercato unico (circa 2,7 miliardi di Euro) e vuole “discutere le alternative”. Certo, il governo in carica risponde che sarebbe follia. Chissà se però potrà più dirlo dopo l’accordo commerciale che l’Unione concluderà con la Gran Bretagna? A cose fatte, noi italiani potremo chiederci: “se un Paese con una moneta tutta sua giudica saggio liberarsi dal gioco della legge Ue e della Corte europea, cosa dovremmo fare noi che non disponiamo neppure di una nostra moneta? Accettare per sempre la perpetuazione del doppio vantaggio della Germania e degli Stati membri più avanzati? Oppure, andarcene dalla moneta unica, limitando il loro vantaggio al solo mercato unico? Oppure ancora, facendo come la Gran Bretagna, negare loro entrambe i vantaggi?” Ecco le domande, alle quali il trattato commerciale fra Regno e Unione risponderà.

Musso

Fonte: AtlanticoQuotidiano

L’uscita del Regno Unito stabilisce un precedente importante per qualsiasi nazione voglia uscire dall’UE
La “brexit” stabilisce un precedente importante per qualsiasi nazione voglia uscire dall’Ue.

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