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La gestione del dilemma

Il dilemma per "Israele" è che, se gli Stati Uniti dicono "no" ad un attacco all'Iran (e lo intendono davvero), "Israele" si ritroverebbe di fronte ad una serie di sconfitte su tutti e sei i fronti, oltre ad un'incrinatura nella fiducia dell'opinione pubblica.
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A cura di Markus
Il 20 Aprile 2024
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Alastair Crooke
english.almayadeen.net

In mezzo al turbinio di immagini sganciate dalla realtà che vengono diffuse dagli schermi occidentali, è necessario concentrarsi su ciò che è veramente “reale”.

In primo luogo, a prescindere dalle trionfanti affermazioni avanzate dagli israeliani e dai loro amici sui successi della loro difesa aerea (ad esempio un tasso di “abbattimento del 99%”), Israele e gli Stati Uniti conoscono la verità: i missili iraniani sono stati in grado di penetrare direttamente nelle due basi e nei siti più sensibili e altamente difesi di Israele. Dietro la retorica spocchiosa c’è lo shock israeliano.

La propaganda esagerata deriva dal doppio colpo subito dall’Occidente. È di dominio pubblico il fatto che i sistemi di difesa aerea occidentali in Ucraina sono stati un flop. Se si ammettesse che le capacità missilistiche dell’Iran sono in grado di violare la più alta concentrazione di difese aeree, situata nella base aerea di Nevatim, nel sud del Paese, le implicazioni per la difesa occidentale a livello mondiale sarebbero terribili. Shhh! … Fate partire la cortina fumogena dello “Splendido Trionfo”.

In secondo luogo, sanno che il cosiddetto “assalto” non era un assalto, ma un messaggio volto a ribadire la nuova equazione strategica: qualsiasi attacco israeliano all’Iran o al suo personale comporterà una punizione da parte dell’Iran nei confronti di “Israele”. Questo segna una trasformazione della strategia dei Fronti di Resistenza: finora era costituita da movimenti che agivano di concerto, mentre gli Stati rimanevano rigorosamente sullo sfondo.

Ora, mentre l’unità degli attori non statali rimane attivata, Iran e “Israele” si affrontano direttamente. È una nuova fase. Si è aperto un sesto fronte contro “Israele”.

Il terzo elemento è che, per vent’anni, Netanyahu ha cercato di attirare gli Stati Uniti al fianco di “Israele” in una guerra contro l’Iran (anche se i vari presidenti degli Stati Uniti hanno sempre rifiutato questa pericolosa prospettiva).

La quarta realtà è che il programma nucleare iraniano è intoccabile, nascosto nelle profondità delle montagne. L’ex premier israeliano Ehud Barak lo aveva esplicitamente ammesso nel luglio 2022 sulla rivista Time: L’Iran è uno Stato di soglia nucleare – e non c’è nulla che “Israele” possa fare al riguardo. Abituatevi, consigliava Barak: “È ora di affrontare la realtà”.

Quindi non c’è alcun senso strategico in una risposta militare israeliana in Iran? Sarebbe solo una dimostrazione di forza? Non esattamente. Netanyahu vede lo stallo come un “equilibrio di potere”. Gli ricorda l’influenza e il potere dell’Iran durante l’era dello Scià: l’Iran sta silenziosamente tornando ad essere una grande potenza regionale.

Gli israeliani vorrebbero che quella potenza fosse ridotta a misura.

Qui sta il problema della gestione dei dilemmi: gli israeliani sono convinti che senza deterrenza – senza che il mondo abbia paura di loro – non potrebbero sopravvivere. Il 7 ottobre ha scatenato questa paura esistenziale nella società israeliana. La presenza di Hizbullah non fa che esacerbarla e ora l’Iran ha fatto piovere i suoi missili direttamente su “Israele”.

L’apertura del fronte iraniano, in un certo senso, ha inizialmente favorito Netanyahu: la sconfitta delle forze israeliane nella guerra di Gaza, l’impasse per la liberazione degli ostaggi, il continuo sfollamento dei coloni dal nord e persino l’omicidio degli operatori umanitari della World Kitchen sono stati temporaneamente dimenticati. L’Occidente ha fatto nuovamente quadrato al fianco di Israele. Gli Stati arabi hanno nuovamente collaborato. L’attenzione si è spostata da Gaza all’Iran.

Fin qui tutto bene (dal punto di vista di Netanyahu, senza dubbio). Ma, per riportare l’Iran a più miti consigli, sarebbe necessaria l’assistenza militare degli Stati Uniti. Il lancio dei missili iraniani lo ha sottolineato. I rapporti suggeriscono che sono stati gli Stati Uniti a fare il lavoro pesante [di intercettazione]. Se “Israele” dovesse andare da solo in un attacco di rappresaglia contro l’Iran, questo – di per sé – darebbe a “Israele” il dominio dell’escalation nella regione (e ripristinerebbe la deterrenza)? Oppure potrebbe scatenare una guerra regionale più ampia che potrebbe concludersi con la scomparsa di “Israele” come Stato così come lo conosciamo?

E Biden accetterebbe un’impresa così rischiosa (durante un ciclo elettorale statunitense)? Anche qui c’è un dilemma: Biden continua a sostenere “Israele”: “Sostegno ferreo”, dice. Ma l’ossimoro arriva quando contrappone il sostegno di ferro ad una guerra regionale più ampia.

Il dilemma per “Israele” è che, nel caso in cui gli Stati Uniti dicano “no” ad un attacco all’Iran (e lo intendano davvero), “Israele” si ritroverebbe di fronte ad una serie di sconfitte su tutti e sei i fronti, oltre ad una fiducia pubblica che si sta logorando.

Ma Biden lo pensa davvero (quando dice “no alla guerra”)? Sarebbe politicamente fattibile per la Casa Bianca tagliare le forniture di armi o di denaro dopo il lancio dei missili iraniani?

Biden avrebbe un altro problema: gli Stati Uniti sono impegnati SOLO in un sostegno “difensivo”. Tuttavia, l’Iran dispone di sofisticati sistemi di difesa aerea (anche se la loro efficacia  è ancora tutta da verificare). Se gli israeliani dovessero trovarsi nei guai in Iran, il passaggio degli Stati Uniti dal sostegno difensivo a quello “offensivo” per “Israele” comporterebbe per Biden altri problemi in patria, negli Stati Uniti.

Infine, se la scommessa di Netanyahu dovesse riuscire a sferrare un colpo sostanziale all’Iran, Netanyahu – indossando la fascia di alloro del vincitore – si troverebbe nella posizione (in termini di sostegno interno israeliano) di affamare e sfollare i gazesi dalla loro terra. Un risultato del genere potrebbe spaccare definitivamente il Partito Democratico.

Naturalmente, un colpo decisivo contro l’Iran rimane per ora assai ipotetico. Ma si sa che i giocatori d’azzardo, dopo una lunga serie di perdite, raddoppiano e puntano tutto sulla possibilità che pallina finisca sul rosso.

Alastair Crooke

Fonte: english.almayadeen.net
Link: https://english.almayadeen.net/articles/analysis/the-management-of-dilemma
18.04.204
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

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