DI EDUARDO ZARELLI
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Recentemente è stato tradotto e pubblicato per le Einaudi il libro dell’antropologo premio Pulitzer Jared Diamond che già dal titolo, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali, si pone a confronto con la modernità. Nelle isole del Pacifico e dalle testimonianze sugli Inuit, sugli Indios dell’Amazzonia, sui San del Kalahari, sui Nuer o sugli Andamani e molti altri popoli, emerge il mondo di ieri e qui, fuori da una scontata nostalgia, torna per confrontarsi con la verità stessa della vita, che – ereticamente, per i contemporanei – non è fatta di desideri individuali da trasformare in diritti.
Dai viaggi in aereo ai telefoni cellulari, dall’alfabetizzazione all’obesità, la maggior parte di noi dà per scontate le caratteristiche della modernità, ma la società umana, per la quasi interezza dei suoi svariati milioni di anni di vita, non ha conosciuto nulla di tutto ciò. E se il baratro che ci divide dai nostri antenati primitivi può apparirci incolmabile, osservando le società tradizionali ancora esistenti, o esistenti fino a poco tempo fa, possiamo farci un’idea di com’era il nostro antico stile di vita. Insieme alla consuetudine di trasmettere usi e costumi (tradizioni), l’uomo aveva saggezza di vita, misura, capacità di adattamento e sopravvivenza senza violare gli equilibri naturali. L’antico non sbaglia mai, sul modo di accostarsi agli anziani; l’antico educa i figli, nel momento in cui li alleva; l’antico, quando sente un’afta scavare l’incavo del labbro, mette il sale sulla ferita, cauterizza senza farsi piagare da una pomata allopatica, che il linguaggio affinato definisce “crema”. L’antico magari sbaglia – è iscritto nel senso tragico del “limite” – ma si prende sempre la responsabilità del suo agire, è quindi fonte di ammirazione e di lezioni degne di essere imparate, a partire dall’approccio tradizionale a questioni universali. In realtà Diamond afferma poi che le società tribali sono considerevolmente più violente di quelle industrializzate e che “la maggior parte dei popoli tribali si trova intrappolata in uno stato di guerra cronico”. Per questo, non solo hanno bisogno dell’intervento dello Stato per mettere fine ai loro comportamenti cruenti, ma lo apprezzerebbero anche.
Dubitabile, nonostante la maggior parte dei risultati della ricerca di Diamond abbia origine dal periodo trascorso in Nuova Guinea, l’autore non parla né tiene conto dell’invasione e dell’occupazione della Papua occidentale da parte del governo indonesiano, responsabile dell’uccisione di circa 100.000 indigeni papuasi.
Forse sarebbe più opportuno confrontarsi con le culture native su un altro piano, ove non sono le istituzioni a cambiare il carattere e il pensiero degli uomini, a renderli religiosi o scettici, o a insegnare loro a governarsi da soli, invece di appoggiarsi allo Stato e ridursi in schiavitù. Se una società ha più successo di un’altra, noi attribuiamo la riuscita alle sue istituzioni, e la stessa cosa avviene per il fallimento; non ci viene in mente di incriminare la civilizzazione, le odierne società industriali, diventate autodistruttive. Se correggiamo questo pregiudizio ed esaminiamo la vita sociale tradizionale, scopriamo che, dietro l’impressionante varietà delle forme culturali che monopolizzano ancora oggi l’attenzione degli antropologi, esistono dei tratti comuni, i quali si caratterizzano come principi universali di consapevolezza olistica, di condivisione cosmocentrica.
Uno dei comuni denominatori delle comunità tribali è appunto la relativa assenza di istituzioni governative. Nei popoli tradizionali, la funzione legislativa, paragonata a quella delle civiltà più complesse, è ridotta; tutto ciò di cui i rapporti sociali hanno bisogno è fornito dalle norme consuetudinarie, che hanno il ruolo di garantire l’adesione autorevole agli usi e costumi. Nelle società primarie, infatti, non esiste alcunché di corrispondente alla nostra accezione di governo. La cosa che assomiglia di più a un’istituzione politica è il Consiglio degli Anziani, uso a interpretare le tradizioni e i costumi della tribù incarnanti l’esperienza e le pratiche delle generazioni precedenti. Paradossalmente, una società del genere ha un elevato livello di ordine: l’assenza di istituzioni formali, invece di permettere qualsiasi cosa, come ci si potrebbe aspettare, è associata a una rigorosa disciplina e alla rigida adesione al codice etico della tribù. Un comportamento che in una società instabile verrebbe represso da una brutale coercizione, in una società tribale lo si evita con la pressione sociale, la persuasione morale (cioè esemplare), ì provvedimenti degli anziani e la paura di fare un torto agli antenati, ossia agli Spiriti. Si condivide un ethos pubblico, identificato sacralmente con il bene comune.
Le società moderne, in realtà, sono sistemi disgregati; le società tribali osservano invece le leggi elementari, che governano il comportamento di tutti gli altri sistemi naturali. È difficile valutare le implicazioni del nostro rifiuto di accettare che l’uomo possa essere parte di sistemi più vasti, quali una famiglia, una società, un ecosistema proprio come le cellule non si rendono conto di fare parte di un organismo biologico. In entrambi i casi, si potrebbe pensare che il comportamento tenda solo a soddisfare uno scopo individuale. In tal modo, il sistema – che dipende dalla cooperazione delle parti – sarebbe condannato inevitabilmente alla disintegrazione. In un organismo vivente, uno sviluppo simile si chiama metastasi: le cellule proliferano in modo erratico, come i membri di una società egoistica.
Il principio più importante delle società tradizionali è che esse sono orientate verso uno scopo. Ma quale? La risposta è la stabilità, e non si tratta di uno stato fisso nello spazio-tempo, ma di una specie di corsa o traiettoria, in cui le discontinuità, gli squilibri e i bilanciamenti sono ridotti al minimo. Fino a poco tempo fa, le società umane obbedivano a questa esigenza di stabilità: le finalità della cultura erano il mantenimento delle norme. La stabilità come sinonimo di continuità non significa immobilità: un sistema immobile, incapace di adattarsi a un ambiente mutevole, non sarebbe stabile. Si pensi alla resilienza di un ecosistema, la capacità di tornare a uno stato simile a quello iniziale, dopo avere subito uno sconvolgimento dovuto a un evento di tipo antropico o naturale (inquinamento, disboscamento, cambiamento climatico, invasione da parte di una o più specie esogene ecc.).
Una volta accettato il fatto che la stabilità è un obiettivo, abbiamo a disposizione dei criteri, per giudicare le strategie comportamentali utilizzate per governare le società umane. Invece di emettere giudizi arbitrari e soggettivi, possiamo valutare queste strategie in relazione al criterio oggettivo dell’armonia, perché ogni sistema stabile è autoregolato. Per il sistema sociale, questa autoregolazione è garantita da una coerente visione del mondo. La visione del mondo della società industriale porta alla dissipazione; quella dei popoli tradizionali, al contrario, ha permesso loro di perpetuarsi nella forza rituale, che addomestica il tempo senza invadere lo spazio.
In molte culture tradizionali ritroviamo una parola, per definire tale modello di comportamento: per gli Indiani dell’epoca vedica, era rta; nell’Avesta, è a_a; per gli antichi Egiziani, era maat; un altro termine indù, in seguito mutuato dai buddhisti, è dharma; per i Cinesi, era Tao.
Il Tao come “principio primo” di tutte le cose. Tutti gli esseri viventi, uomini inclusi, fanno parte di questo ordine naturale onnicomprensivo soggetto al Tao, che ne è il principio regolatore. Il Tao come ordine della natura, ne governa l’azione. Nella tradizione taoista, «l’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità». La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico. Fuori dal conformismo delle convenzioni, l’uomo deve «volgersi alla radice», ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità, che vigevano prima dell’introduzione della regola sociale. Una visione politica, basata su queste leggi e sul modo in cui opera il mondo del vivente, sarà indisposta a un potere autoritario (tecnocratico), che etero-dirige gli elementi fondanti l’organismo stesso, e sarà invece propensa alla autorevolezza di un potere condiviso e partecipativo, la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità.
Eduardo Zarelli
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26.07.2013
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