Il limbo dei moderati

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di Furio Colombo

Il New York Times del 4 novembre non ha dubbi. Queste elezioni sono state un grande scontro tra radicali e moderati. I radicali sono i repubblicani che hanno vinto, i moderati sono i democratici che hanno perso. Da oggi, nel giornalismo americano, la parola “radicale” , nel senso tipicamente americano di “estremo” sostituisce la parola conservatore o neoconservatore o cristiano evangelico.

Infatti a pag. 1 del New York Times del 4 novembre trovate questa frase di Richard Viguerie , che ha avuto un ruolo chiave nel mobilitare per Bush il voto cristiano fondamentalista: «Adesso arriva la rivoluzione. Se non facciamo la rivoluzione adesso, quando dovremmo farla? Basta con le chiacchiere di unire il Paese. Chi ha votato in massa per Bush ha fatto con lui un patto. Adesso vogliamo i valori morali di cui Bush, in tutta la campagna elettorale, si è fatto paladino e sostenitore».

I “valori” sono perentori: abolizione dell’aborto, eliminazione da tutte le scuole e università della teoria di Darwin, eliminazione della scienza quando contrasta con la religione, esclusione dei gay da ogni responsabilità pubblica e da qualunque genere di contratto che richiami il matrimonio, divieto di adozione fuori dalle regolari famiglie cristiane, preghiere cristiane in tutte le scuole, sussidi alle scuole private organizzate per l’insegnamento della Bibbia, equiparazione dell’aborto all’omicidio a partire dagli embrioni e carcere per i medici, censura rigorosa dei testi scolastici (di cui i giornali americani hanno dato notizia il 6 novembre) e nomina di giudici (le nomine che spettano al Presidente e al Senato) scegliendo rigorosamente tra i giuristi accettati dai cristiani evangelici. «Dio ci sta dando un’ultima occasione» – sostiene, sempre nelle pagine del New York Times del 4 novembre, James Dobson, leader e fondatore del movimento “Focus on Family”, che ha portato a Bush milioni di voti della estrema ala radicale cristiana. «Ma Dio ci sta mettendo alla prova per un periodo brevissimo. Appena i quattro anni della nuova presidenza di Bush. L’America era sull’orlo della rovina. Ora Dio ci porge la mano della salvezza». Il linguaggio non inganni il lettore. Viguerie e Dobson non sono predicatori delle praterie che agitano il tuono di Dio per spingere a un più severo comportamento morale i fedeli della chiesetta di campagna.

Non siamo in un film americano degli anni Quaranta o Cinquanta, in cui il predicatore burbero diventa buono oppure viene mandato via. Qui siamo alla Casa Bianca di Bush. Viguerie e Dobson sono personaggi del cerchio stretto del presidente. Le due dichiarazioni riportate dal New York Times sono parte di telefonate rese pubbliche dall’ufficio di Bush. Sono voci dell’esercito di sostenitori che ha portato il cristiano fondamentalista George Bush al trionfo della Casa Bianca. Il giornale di New York ha condotto anche un’inchiesta fra i più poveri di questi elettori e anche fra coloro che non sono sostenitori della guerra in Iraq. La risposta è sempre la stessa: «La prima cosa che mi ha attratto in Bush è il suo coraggio nel sostenere apertamente i nostri valori. È uno deciso, che non cambia idea, e sostiene Dio. Mai pensato, neppure per un minuto, di votare Kerry. Non c’è Dio dalla sua parte». Nel supplemento del New York Times dedicato alla spiegazione di un risultato elettorale così inatteso (14 milioni di elettori in più vanno a votare e vince il presidente in carica) il giornale torna e ritorna a citare dichiarazioni come questa, a livelli alti e bassi, periferici e di potere. Torna alla frase chiave e sembra il nuovo slogan di sostenitori di Bush, come se, finita la campagna elettorale fossero liberi di abbandonare ogni finzione: «Non perdiamo tempo a unire il Paese. Il messaggio di Dio è chiaro. Non puoi salvare chi non vuol salvarsi. Fuori dalla salvezza non c’è che la dannazione».

Tutti così gli elettori di Bush? No, naturalmente. Milioni di cittadini normali, guidati da buon senso e da inclinazione politica, hanno scelto di votare per Bush come avrebbero votato in passato per Reagan o per Bush padre. Ma ciò di cui i commentatori si meravigliano è il traino che gli evangelici hanno esercitato, superando e ignorando tutti gli argomenti con cui si misurano i praticanti della politica. Qui non c’entrano né il mercato né la guerra. Ti dicono: «Questa è una rivoluzione» come per svegliarti dalla immagine di un’altra America che è ormai il passato.

Se volete una storia esemplare, ecco quella di Tom Daschle, capo della minoranza democratica al Senato e senatore di immenso prestigio per 26 anni. Di fronte ai nuovi cristiani di Bush, Daschle aveva scelto di “capire” e di “dialogare”. Dicono di lui i commentatori politici che è un uomo sempre misurato nel linguaggio, sempre preoccupato di trattare gli avversari da colleghi e non da nemici. Ma poiché si è opposto al famoso taglio delle tasse per i più ricchi è stato prontamente definito “ostruzionista e traditore”, lui che era sempre stato considerato, non solo in Senato, “statista e patriota”. In ogni altro momento della storia americana, Daschle sarebbe stato tipicamente definito “di centro”, anche perché, contrariamente a illustri colleghi come Kennedy e come Byrd, ha sempre sostenuto la guerra.

Ma “la rivoluzione” dei nuovi radicali non tiene conto dei centristi dal linguaggio misurato. In una sola, breve campagna elettorale lo hanno travolto e cacciato dalla politica. Il suo avversario, lo sconosciuto John Thune ha chiamato a raccolta cristiani conservatori che non potevano perdonare a Daschle un voto contro la discriminazione dei gay e un voto – uno solo – contro la libera circolazione delle armi. A quanto pare Tom Daschle, senatore da 26 anni ed efficace e telegenico protagonista di infiniti dibattiti televisivi in tutto il Paese, ha continuato i suoi comizi, nello Stato del South Dakota che lo aveva sempre rieletto, senza rendersi conto del pericolo: l’associazione dei produttori di armi aveva messo a disposizione dei cristiani fondamentalisti e dello sfidante di Daschle un finanziamento dieci volte più grande delle risorse niente affatto modeste del senatore. Perciò Dio, le armi e i valori morali hanno stravinto in questo esemplare episodio della rivoluzione radicale americana, che è stata anche la più costosa campagna senatoriale nella storia degli Stati Uniti. Ma a quanto pare Dio, i cristiani fondamentalisti e i produttori di armi non badano a spese. Daschle è scomparso dalla politica come sono scomparsi altri quattro colleghi al Senato (tutti tra i più moderati, tutti nella lista di coloro che avevano votato per Bush sulla guerra). Sono finiti nello stesso limbo in cui è caduto John Kerry. In quel limbo appaiono per ora confinati tutti coloro che hanno fatto una campagna elettorale cauta e sottovoce, rifiutandosi di denunciare l’enorme conflitto di interessi del vice presidente Cheney, il disastro – che continua e si aggrava – dell’Iraq e di confutare con energia le false accuse ricevute ogni giorno dai vivaci e aggressivi leader repubblicani.

Il New York Times offre un ritratto, che è anche un elogio funebre, del più timido candidato democratico dell’ultimo decennio.
«È stato un personaggio sempre un po’ fuori fuoco, come se avesse avuto timore di rivelarsi e di rivendicare la sua vita e il suo passato. Ha esitato e tardato prima di rispondere alle atroci accuse di reduci del Vietnam appositamente mobilitati dalla campagna elettorale di Bush per diffamarlo. Non ha risposto, lui che è stato insignito di tre medaglie al valore, alle accuse di codardia e di tradimento, lanciate contro di lui da uno come Bush che si è sottratto alla guerra.

Bush lo ha costantemente attaccato, irriso, insultato, denigrato con veemenza. Kerry ha mostrato una singolare cautela. Il più delle volte ha scelto di ignorare le accuse». Gli amici di Kerry fanno notare l’immensa sproporzione di mezzi fra la campagna di Kerry e quella di Bush. Bush disponeva di un sostegno finanziario molte volte superiore, e, insieme con gli evangelici, lo ha portato alla vittoria. Ma forse fanno luce queste parole di Carl Rove, stratega elettorale del vincitore: «Bush ha vinto perché abbiamo saputo diffondere il dubbio sulla moralità e l’integrità dell’altro candidato, e perché i cristiani evangelici sono venuti in massa a votare per lui». Può essere utile aggiungere che quando Kerry, nei suoi comizi, parlava di “valori” intendeva i diritti dei lavoratori, le scuole pubbliche, gli ospedali, la separazione fra Stato e Chiesa. E lo ha fatto costantemente con rispetto e mitezza.

Infatti, quando Bush parlava di “valori” intendeva esclusione dei gay, emendamento alla Costituzione contro i matrimoni dello stesso sesso, abolizione e criminalizzazione dell’aborto, preghiera obbligatoria nelle scuole pubbliche, finanziamento di scuole private ispirate alla Bibbia.
Dice l’economista Paul Krugman: «Kerry non si è accorto della svolta radicale dei suoi avversari. Ha condotto una campagna moderata. Ha lasciato la sinistra senza guida, ed è affondato insieme al centro».

da L’Unità del 7 / 11/ 04

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