Fare l’indiano in tutti i Modi: Nuova Delhi è l’ago della bilancia di questo mondo

L'India si trova tra i Brics+, con i quali intende instaurare il nuovo mondo multipolare, e l'Impero anglo-americano a cui rimane necessariamente legata per ragioni di sicurezza strategica. I prossimi vertici potrebbero confermare cosa l'India vorrà diventare da grande.

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Di Matteo Parigi per Comedonchisciotte.org

I prossimi 9 e 10 settembre Nuova Delhi ospiterà la diciottesima edizione del G20. Narendra Modi ha già chiesto in piena linea con lo spirito del tempo presente di aggiungere l’Unione Africana in qualità di membro pieno e ufficiale del summit. Non è certo una coincidenza il fatto che Modi abbia preso in considerazione proprio l’istituzione panafricana creata da Gheddafi, tra l’altro in contemporanea ai preparativi per l’imminente(?) intervento dell’ECOWAS in Niger. Ma al netto delle considerazioni tattiche, è il segno ineludibile che l’India ha ben capito il ruolo del continente africano nei prossimi equilibri mondiali multipolari.

Nel frattempo, la coalizione BRICS+ durante l’ultimo incontro multilaterale di Johannesburg ha ufficializzato l’entrata dal 1° gennaio 2024 di altri sei membri: Argentina, Egitto, Iran, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita. A riguardo, sempre il premier indiano Modi non ha dubbi sul felicitarsi dell’ampliamento[1], mentre Gli Stati Uniti per bocca di Jake Sullivan reagiranno cercando l’appoggio proprio dell’India quale ago della bilancia della geopolitica asiatica, cercando allo stesso tempo di rafforzare le organizzazioni che la connettono al continente[2].

È il cuore della dottrina diplomatica indiana l’atteggiamento ambiguo (per i profani) ma strategicamente intelligente (per gli addetti al settore) nei confronti dei suoi partner/rivali, la cui cartina di tornasole è rappresentata in primis dai rapporti con Russia e Cina da un lato, con gli Stati Uniti (o se vogliamo l’Occidente) dall’altro.

Fare l'indiano in tutti i Modi: Nuova Delhi è l'ago della bilancia di questo mondo

Il ruolo della Russia per l’India

L’appartenenza all’alleanza per un mondo multipolare, in aggiunta alle considerazioni  che le fanno temere l’enorme potenza cinese, ha (come facilmente prevedibile) evitato l’applicazione delle sanzioni alla Russia in sede ONU dopo il 24 febbraio 2022. L’India di Modi ha infatti tutto da guadagnarci nel sostegno a Putin: dopo l’inizio del conflitto la Russia fornisce i suoi combustibili fossili a prezzo scontato ai suoi alleati, tanto che la Russia, vendendo il suo petrolio deprezzato del 30%, è diventata il secondo (passando dal nono) fornitore dell’India già a fine 2022, importando una media 2 milioni di barili al giorno a fine primavera 2023. Indiani che compongono a loro volta il terzo mercato mondiale importatore di energia e sono a loro volta diventati fornitori alternativi (rispetto a Gazprom) dell’Europa[3]. Inoltre, i russi sono fornitori privilegiati di armi e tecnologie militari avanzate dell’Unione, fondamentali per la sicurezza dal confinante e geopoliticamente rivale impero celeste. Attualmente le armi russe coprono il 60% della fornitura in dotazione all’esercito indiano, sebbene vada applicata la tara del passaggio di gran parte di esse tramite gli ucraini.

Gli attriti con la Cina

Il sostegno – più taciuto e pragmatico che aperto e convinto – alla Russia è in sintesi la chiave di volta per la sicurezza geopolitica indiana alla luce della competizione con la Cina. Quest’ultima è per Nuova Delhi fonte rivale di assorbimento economico, tecnologico e di influenza sul continente. Rivalità di per sé fredda, con momenti di tensione e confronto diretto a macchia di leopardo, sia in senso spaziale che temporale, riguardanti prevalentemente la regione intorno alla c.d. linea di controllo effettivo: tra il 2020-21 si sono avuti scontri militari nel Ladakh. A differenza di quanto ritenuto, le diatribe non riguardano solo le rivendicazioni di cinesi e tibetani, ma soprattutto i tradizionali “fratelli nemici” pachistani e le comunità musulmane del Kashmir, collegate allo Xinjiang in territorio di confine sino-pakistano e sino-indiano. Tanto che pure la Turchia è attore fondamentale delle attività anti-indiane dei pakistani nel Kashmir. Attività figlie di un ultranazionalismo di Erdogan (in questo caso definibile “neo-moguliano”) la cui fenomenologia si attua nel sostegno ai gruppi turcofoni in Xinjiang e nel c.d. “Sovietistan”.

Completa la linea di territorio conteso la linea di confine est corrispondente allo stato Arunachal Pradesh (ex North East Frontier Agency) che proprio in queste ore sta suscitando diatribe in seguito alla presunta inclusione unilaterale del territorio nella nuova mappa ufficiale del territorio cinese[4].

Il confronto al confine del Ladakh tra pattuglie indiane e cinesi

Il sealand asiatico: dall’Asia-Pacifico all’Indo-Pacifico

Tuttavia, i rapporti India-Cina saranno decisi a seconda di cosa entrambe faranno nella questione del c.d. «Indo-pacifico», neologismo inventato da Shinzo Abe in combutta con Obama nel 2013 nel contesto deli preparativi per il contenimento dell’influenza cinese sul mare che collega il Pacifico all’Oceano indiano, Mar Arabico e Golfo del Bengala compresi. L’india partecipa infatti, insieme a Stati Uniti, Giappone ed Australia al QUAD: la più importante alleanza militare anticinese in Asia, per questo chiamata anche la «NATO asiatica». Sorta a Manila nel 2007 su iniziativa del già premier giapponese Abe, l’alleanza si è stretta negli anni seguenti sino a convincere l’India dell’utilità per la sicurezza dei suoi mari, sulla scia a dire il vero delle esercitazioni congiunte India-Usa che già dagli anni Novanta avevano luogo sulle coste di Malabar. L’apice fu raggiunto nel 2013 con l’adozione dello slogan ufficiale che esprime il fine dell’alleanza: da Asia-Pacifico la regione diventa invece «Indo-Pacifico libero e aperto».

Tradotto, la Cina – secondo il volere di Washington, Tokyo, Canberra e Delhi – non deve prima di tutto azzardarsi a continuare la sua rivendicazione di sovranità nei mari ad essa più funzionali; secondo, la competizione sui mari dell’Asia per il commercio internazionale è squilibrata in senso quasi-monopolisitco dalla circolazione di merci cinesi. In verità il premier Modi ha dichiarato di non aderire alla definizione di «Indo-Pacifico libero e aperto», a favore di un più super partes «libertà di navigazione e conformità con il diritto internazionale». Il ruolo dell’India è in questo senso quello di roccaforte occidentale dello stretto di Malacca: essa deve provocare pressione alla Cina attraverso esercitazioni, ispezioni, missioni nei dintorni. Tentativo imbastito nel 2019 attraverso l’«Iniziativa per l’oceano Indo-Pacifico» rivolto a vari Stati asiatici, i quali tuttavia non ci pensano nemmeno lontanamente a inimicarsi il loro più grande fornitore di cibo, manifatture, tecnologie, nonché prestatore finanziario di ultima istanza. In particolare, Nepal, Bangladesh, l’acerrimo nemico pakistano, Sri Lanka e Birmania sono intensamente affratellati commercialmente con i cinesi e i recenti subbugli (Pakistan e Birmania) hanno sigillato la posizione nello scacchiere.

Fare l'indiano in tutti i Modi: Nuova Delhi è l'ago della bilancia di questo mondo

Addirittura, gli stessi Australia e Giappone rischiano grosso nel caso di una guerra economica con la Cina, dal momento che questa rimane anche per loro maggior base di manodopera manifatturiera, tecnologica e soprattutto di materie prime. Motivo per cui gli USA stanno facendo grandi sforzi per costruire una rete di scambio efficiente e alternativa nella regione. Prova ne è la recente creazione dell’«Indo-Pacific Economic Framework (IPEF)»: un nuovo forum imbastito da Biden a maggio 2022 comprendente tutti gli stati che potrebbero avere interesse a contrastare l’influenza cinese. Gli americani affermano di voler ottenere il risultato attraverso investimenti e creazione di infrastrutture. Al monento tuttavia non v’è alcuna informazione chiara, né piano programmatico preciso, dimostrando al contrario, di essere alla meglio una copia del precedente TTP (Trans-Pacific Partnership), o al peggio una confessata dimostrazione della superiorità cinese.

Ultimo ma non per importanza, la questione della penisola araba (e del mare che la collega all’India): essa rimane la principale fornitrice di petrolio (soprattutto l’Arabia Saudita) di Nuova Delhi ed è sede di una diaspora che comprende 7 milioni di indiani, i quali spostano verso la madrepatria 80 miliardi di rimesse (in dollari) all’anno. Non può quindi che avvantaggiare gli indiani la nuova entrata di Iran e Arabia Saudita nel forum dei multipolari, reduci tra l’altro di una nuova epoca di relazioni diplomatiche reciproche dopo essere stati per decenni nemici giurati.

Dottrina Modi

Nel frattempo, i due ministri degli esteri Wang Yi per la Cina e Subrahmanyam Jaishankar per l’India si sono incontrati a luglio proprio per «rafforzare i rapporti tra i due paesi» e continuare sulla scia di una cooperazione bilaterale in vari campi[5]. In politica internazionale Cina e India continuano a fare scuola dimostrando che il bilateralismo orizzontale è sempre utilitaristicamente più efficace rispetto al multilateralismo condizionato da potenze dominanti, ossia ciò che fanno USA e UE. Motivo per il quale attori come i BRICS sono capaci di una strana eterogenesi dei fini, per cui allo stesso tempo hanno strade diverse, multipolari, ma riescono comunque a trovare intese utili per tutti. Anche nell’ambito delle organizzazioni internazionali i funzionari indiani adottano ad oltranza la dottrina Modi: neutralismo super partes in ogni diatriba tra terzi, ampio ricorso al diritto internazionale a discapito del realismo machiavellico (aperto), nonché l’usuale invito ad un «ordine internazionale democratico libero ed aperto»[6].

I due ministri degli esteri Subrahmanyam Jaishankar e Wang Yi urante l’ultimo incontro bilaterale

Il ministro degli esteri Subrahmanyam Jaishankar ribadisce di propendere per la generazione di utilità attraverso le contraddizioni di cui sono ben consapevoli[7]. In altre parole, la politica è caratterizzata da un radicale nazionalismo che riesce a non cadere nelle trappole da dilemma della sicurezza, bensì è capace di instaurare reti di sviluppo bilaterali e regionali tutt’altro che a somma zero. L’India di Modi (non esente, va ricordato, da grossi problemi etnico-religiosi interni) ha trovato al momento i due piccioni (Brics e rete difensiva USA) con una fava dai quali può trarre le risorse attualmente necessarie (in primis armi, tecnologie avanzate, infrastrutture, medicine) se riesce a mantenere un equilibrio complicatissimo tra i due principali competitor dell’economia mondiale (Cina e USA).

Di Matteo Parigi per Comedonchisciotte.org – CDC Geopolitica

04.09.2023

NOTE

[1] https://www.aljazeera.com/news/2023/8/23/india-fully-supports-brics-expansion-as-summit-continues

[2] https://today.rtl.lu/news/world/a/2108310.html

[3] https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/04/11/limport-europeo-di-gasolio-indiano-sale-del-30-in-marzo-ma-il-carburante-e-prodotto-con-il-petrolio-russo/7125698/

[4] https://www.indiatoday.in/world/story/china-releases-new-edition-of-standard-map-showing-its-territorial-claims-2427973-2023-08-29

[5] https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/202307/t20230730_11119839.html

[6] Sarà Delhi a vincere la guerra?, Limes 7/2022, La grande Guerra, p.84.

[7] https://www.agenzianova.com/news/il-ministro-degli-esteri-indiano-lindipendenza-resta-la-chiave-della-nostra-politica/

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