“Ero tra i morti. Ma non ero morto”. La storia di un superstite di Charlie Hebdo

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DI PHILIPPE LANCON

theguardian.com

Tarda mattinata, 7 gennaio 2015

Quando non te l’aspetti, quanto tempo ci vuole per capire che la morte sta arrivando? Non è solo l’immaginazione che viene aggirata dalla realtà, lo sono proprio i tuoi sensi. Sentii dei piccoli rumori secchi, niente di simile alle detonazioni dei film; semplici petardi, squilli senza eco. Per un momento, pensai che potessero esser stati dei bambini che giocavano.

Udii una donna piangere: “Che cosa …?”. Il grido di un’altra donna. Poi una terza voce emise un grande grido di rabbia, più stridente, più aggressivo, una specie di “Aaaaaah.” So di chi era quella voce. Era Elsa Cayat. Per me, il suo grido significava puramente e semplicemente: “Chi diavolo sono questi bastardi?”. Quella sillaba stridula si estendeva da una stanza all’altra. Era piena di rabbia e paura – ma ancor di più era piena di libertà. Forse era la prima volta nella mia vita in cui “libertà” era più di una parola: era una sensazione fisica.

I morti si stavano quasi tenendo per mano. Il piede dell’uno toccava il ventre di un altro, le cui dita sfioravano leggermente il volto di un terzo, che a propria volta era inclinato verso l’anca di un quarto, mentre quello sembrava fissare il soffitto. Così, in queste posizioni, e per sempre, erano diventati miei compagni. Poteva benissimo essere una posa di qualche danza macabra, come quelle che avevo visto occasionalmente nella chiesa di La Ferté-Loupière, sulla strada per la casa dei miei nonni a Nevers, nel centro della Francia. Oppure potevano essere una serie di piccole figure di carta tagliate dalla mano di un bambino, o anche una versione sconosciuta e molto oscura de La Danza di Matisse.

Ero uno di loro. Ma non ero morto.

Ero sdraiato sulla pancia, la testa girata a sinistra. Aprii per primo l’occhio sinistro. Vidi una mano sinistra insanguinata che spuntava dalla manica della mia giacca color verde pisello. Mi ci è voluto un momento per capire che questa mano era mia. Una nuova mano, distesa lì, una ferita tra due articolazioni metacarpo-falange – quelle dell’indice e del medio. Questi sono termini che appresi poi. Ho dovuto infatti imparare i nomi delle parti danneggiate del corpo, i trattamenti ricevuti e gli effetti collaterali che avrebbero potuto provocare. Li elencavo per esorcizzarli. Ed anche per conviverci con meno disagio. Un ospedale è un luogo in cui tutti, a parole e fatti, devono essere precisi.

La voce dell’uomo che ero sempre stato e che ancora ero mi diceva: “Ehi, ci hanno sparato alla mano. Eppure non abbiamo sentito niente”. Eravamo in due, lui ed io. L’uomo che ero sempre stato fino a quel momento e l’uomo che stavo per diventare. Ad un metro di distanza, vidi il corpo di un uomo sdraiato a faccia in giù. Riconobbi la giacca a quadri. Non si muoveva. I miei occhi scivolarono su di lui fino al cranio, dove, tra i capelli, potevo vedere il cervello di quest’uomo, di questo collega, di questo amico. Usciva un po’ dal suo cranio. Bernard era morto, disse l’uomo che ero, e il nuovo me rispose, sì, è morto. Concordammo su questo, l’uomo che ero e quello che stavo diventando, su di lui, sul posto da dove quel cervello stava uscendo (e che in qualche modo volevo rimettere nel cranio). Fu in quel momento che finalmente capii che era successo qualcosa di irreversibile.

A poco a poco, mi girai dalla mia parte. Poi mi sedetti sul pavimento, schiena contro il muro, di fronte ad una delle porte. Mi passai una mano sul collo: avevo ancora la mia sciarpa, ma aveva un buco. Davanti a me, quasi sotto il tavolo, il corpo di Bernard. E da un lato, a faccia in su, sulla porta, il corpo di Tignous. In quel momento non vidi però quello che lessi 18 mesi dopo nel rapporto ufficiale della polizia, cioè una penna serrata tra le dita di una delle sue mani, una penna che spuntava in aria, verticalmente.

Tignous stava scrivendo o disegnando qualcosa quando sono irrotti. Gli investigatori hanno preso nota di questo dettaglio. Simboleggia la terribile velocità del massacro e lo stupore che ha preceduto l’esecuzione di ciascuno di noi. Tignous è morto con la sua penna in mano, come un cittadino di Pompei, arso dalla repentinità della lava. Anzi, ancor più in fretta, senza nemmeno sapere che il Vesuvio aveva eruttato e la lava era arrivata.

[Sigolène Vinson, editorialista legale di Charlie Hebdo, ed il fumettista Coco sono stati tra i primi ad arrivare sulla scena.]

Sigolène Vinson

Consegnai il mio cellulare a Coco, di modo che potesse chiamare mia madre. Fu allora che, nel passarglielo, vidi il mio viso riflesso sullo schermo del telefono. I capelli, la fronte, gli occhi, il naso, le guance ed il labbro superiore – tutto era in ordine, tutto era intatto. Ma invece di un mento e della parte destra del labbro inferiore c’era, non un buco, ma un cratere di carne distrutta e penzolante. Ciò che restava di denti e gengive era apertamente esposto e l’intera cosa – questa fusione di un volto intatto per tre quarti e distrutto per un quarto – mi aveva reso un mostro. Ebbi qualche secondo di assoluta disperazione. Non molti. Misi la mano sotto la mascella, per tenerla e forse aggiustarla, come se tenendo quella carne, quelle carni l’una contro l’altra, si sarebbero ricomposte, il buco sarebbe scomparso e la vita sarebbe continuata.

Tranne che, in realtà, non era così. Sigolène mi disse, molto più tardi e con certezza, che già mi stavo stringendo la mascella a quel modo quando mi aveva raggiunto prima. Il che significava che avevo già visto il mio volto sullo schermo del mio cellulare qualche minuto prima. Avevo confuso Sigolène e Coco. Non riesco ancora a sopportare questa confusione. I fatti erano l’unico bagaglio che volevo portare nel viaggio che avevo appena iniziato. Ma i fatti, proprio come tutto il resto, si deformano sotto pressione. La violenza aveva corrotto ciò che non aveva distrutto.

Verso mezzanotte, 7 gennaio

Uno dei feriti viene portato in ospedale

Arnaud mi stava guardando. Era stranamente pallido e magro, bianco come la luce della sala di risveglio dalla quale sembrava essere apparso. Sembrava così giovane e così solo. Mi dispiaceva per lui. L’avrei abbracciato, ma le mie braccia non volevano muoversi. Ci sedemmo assieme, due fratelli. Due fratelli che erano andati vicini al non rivedersi mai più e che la vicina sfuggita alla morte aveva stretto saldamente, l’uno all’altro. Non provai neanche a parlare. Ero ancora ignaro delle medicazioni che tenevano la mia faccia insieme o della tracheotomia – la “trach”, come presto imparai a chiamarla. Non ero molto conscio del catetere nasale che presto avrebbe insopportabilmente sfregato ed infiammato naso e gola. Eppure qualcosa mi aveva preavvisato che sarebbe stato impossibile parlare. Il paziente spesso prevede ciò che ancora non sa.

Gli feci un segno. Arnaud capì che volevo la piccola lavagna che l’infermiera mi aveva portato, per poter comunicare scrivendo. Con laboriosa difficoltà, scrissi, a lettere maiuscole: “È finita con Gabriela”. Con incredibile velocità, avevo analizzato la situazione su Gabriela e me. Viveva a New York, senza soldi e con lo status di residenza traballante. Stava attraversando un brutto divorzio, che la stava facendo impazzire. Suo padre era nel deserto di Atacama, recitando poesie di Neruda ai fantasmi mentre moriva lentamente. Per quanto forte potesse essere il suo amore per me, non c’era alcuna possibilità che potesse affrontare la maratona di disavventure che evidentemente ero appena diventato. Ciò che seguì mostrò che avevo torto, perlomeno in parte.

Avevo scritto questa frase sulla piccola lavagna di plastica con la mia piccola punta di feltro, ma né per scongiurare questa verità né per aiutarla ad accadere. L’avevo scritta per alleviare la tristezza che vedevo arrivare. Scriverla era una protesta ma era anche un atto di accettazione. Questa prima frase scritta dal nuovo me aveva quindi questa immediata virtù: mi fece capire quanto la mia vita fosse appena cambiata.

Cancellai la frase e ne scrissi un’altra: “Questa piccola rivista che non ha mai fatto del male a nessuno”. Stavo parlando di Charlie Hebdo. Con una specie di stridente ingenuità, l’ingenuità di un bambino sgomento. Ma con qualcosa in più. Citiamo sempre liberamente le parole in punto di morte degli autori, col pregiudizio che siano sempre illuminanti. Quando Cechov morì mormorando Ich sterbe (sto morendo), fu così meravigliosamente Cechov. Disse l’unica cosa da dire quando si sta morendo. Io – neanche lontanamente paragonabile a lui ed ancora in una specie di limbo – scrissi le mie prime parole piuttosto che le ultime. E dato quanto sono pomposo e sentimentale, anche quelle parole lo furono: “Questa piccola rivista…”.

Il tono di quelle parole era anche tipico di mio nonno materno, un brav’uomo che pensava il meglio di tutti e tutto. Nato in una povera famiglia di contadini nei Pirenei, vicino al confine con la Spagna, era un tipo dal cuore tenero. Piangeva facilmente (forse a causa dell’enorme ghiacciaio fuso proprio di fronte al suo villaggio). Era un socialista della vecchia scuola, nato tra il popolo e rimasto tale. Anche se era morto da più di 30 anni, fu lui che sembrò prendere la mia mano in quel momento. Era morto proprio dopo che avevo fatto i miei inizi nella carriera che aveva finito per portarmi in quella stanza di recupero dell’ospedale. Nessun altro che conoscevo avrebbe scritto quelle parole. Dopo essersi tolto il berretto nero, le guance leggermente tremanti, con il leggero odore delle sue sigarette economiche preferite, solo lui avrebbe scritto: “Questa piccola rivista che non ha mai fatto del male a nessuno”.

La prima settimana

Una veglia per le vittime di Charlie Hebdo fuori dal Newseum di Washington

Entrò mio fratello e disse: “Sono stati fatti fuori, quei bastardi. Nessuno piangerà”. Quella fu la prima volta che venni a conoscenza dell’esistenza dei fratelli Kouachi. Il proprietario delle gambe vestite di nero che avevo visto quel giorno apparentemente aveva un nome e c’erano effettivamente due paia di gambe vestite di nero. Erano state messe all’angolo dalla polizia in una piccola stamperia, fuori Parigi. Sono morti lì.

“Fatti fuori”, “bastardi”. Non avevo mai sentito mio fratello parlare così. Non era il tipo. Capivo gli ingredienti emotivi di questa situazione, ma ero scioccato. Non potevo sopportare che anche il minimo tipo di violenza entrasse in quella stanza d’ospedale. Volevo che fosse una camera di decompressione, come quella in cui entri se sei riemerso troppo velocemente da un’immersione profonda. Qualsiasi cosa aggressiva era un ostacolo a questo processo, questo aggiustamento necessario a ciò che restava della mia vita. E tutto ciò che dissi e feci era soggetto alla stessa fisica morale. Doveva essere placido, decompresso, respirabile.

Per quattro giorni, non ero stato in grado di parlare. Mi sentivo come se non avessi mai parlato, ma anche che meritavo una specie di punizione per aver parlato per così tanto tempo. Non credi in Dio, mi dissi, ma qualcosa ti sta punendo per aver parlato così infinitamente e scritto così tanto ed inutilmente. Tutte le tue chiacchiere, i tuoi articoli, i tuoi giudizi, tutto il rumore infinito che hai fatto. Se vuoi, puoi tenere tutto quel rumore dall’altra parte della porta, con tutte le voci nel corridoio, le stridenti radioline della polizia ed i cigolanti carrelli delle infermiere. Sei stato punito esattamente dove hai peccato, anche se non credi né al peccato né alla redenzione, anche se i punitori lo hanno fatto per altri motivi. Non importa. Sfrutta al massimo il silenzio che questi pazzi assassini ti hanno imposto.

Nell’ospedale, sembravano tutti inorriditi. Per loro, io ero la vittima di ciò che li aveva sconvolti. Io, una vittima? Un giornalista può essere ucciso o ferito mentre fa un report, ma non è mai veramente una vittima. Non siamo esuli dalla storia che stiamo cercando di raccontare, ma non possiamo essere il cuore della stessa. Il povero vecchio giornalista è una pianta che cresce nel punto cieco degli eventi. Questo lavoro, avevo imparato, richiedeva discrezione. Come puoi rimanere discreto quando tutti ti  guardano?

All’inizio del pomeriggio dell’11 gennaio mio fratello mi disse: “Sembra che ci sia già una grandissima folla in corteo. Se non fossi qui con te, sarei lì, con loro. Tutti dicono Je suis Charlie. Tutti sono Charlie ora. È come se ci fosse un maremoto nel paese”. O, comunque, disse qualcosa del genere. Non me l’appuntai. Non ho mai preso appunti. In effetti, non prendere appunti era l’unica abitudine che non avevo perso. Il poco che scrissi, lo scrissi sulle lavagne, prima di cancellarle come se non fossero mai state scritte. Per tre mesi, ogni volta che dovevo star zitto per far guarire la parte inferiore del mio volto, le mie mani non smettevano di muoversi su quella piccola lavagna di plastica, le mie dita annerite dai pennarelli.

Mio fratello continuava a parlare del gran giorno della Francia. Laggiù stavano dimostrando. Io invece ero qui dentro.

Quel giorno, per la prima volta, udii questo ritornello – Je suis Charlie. L’enorme protesta ed il suo slogan riguardavano un evento di cui ero stato parte, di cui ero stato uno dei sopravvissuti. Ma, per me, questo “evento” era intimo. L’avevo portato con me, come un tesoro minaccioso, un segreto. L’avevo portato in questa stanza d’ospedale dove nessuno poteva davvero seguirmi. Nessuno tranne Chloé, il mio chirurgo (che avrebbe iniziato una serie di importanti operazioni il ​​giorno dopo). Non solo Chloé poteva seguirmi, doveva guidarmi.

Je suis Charlie? Ho scritto per Charlie. Mi avevano sparato e ferito dentro Charlie. Avevo visto morire i miei colleghi a Charlie. Ma non ero Charlie quel giorno. Quel giorno ero Chloé.

Le infermiere arrivano come ballerine al rallentatore.

“Ti piacerebbe della musica?”

Sul boombox di mio nipote metto su Bach. La musica mi calma come la morfina. Fa più che lenirmi, toglie ogni tentazione di lamentarsi, tutto il senso di ingiustizia, tutta la profonda stranezza del corpo. Bach ci avvolge, io, il mio letto, le infermiere ed il loro carrello. Col crescendo di questa musica, ogni movimento ed ogni gesto diventano astratti ed una sorta di pace cade su di noi. Il cambio dei bendaggi può iniziare.

A poco a poco, scartano le bende sulla mia testa, dal cranio al mento. Mi liberano le orecchie. Rimuovono le garze macchiate. Preparano quelle sterili con una pinza chirurgica, immergendone alcune in una soluzione salina e ricoprendo le altre con vaselina. I loro movimenti sembrano lenti come la musica. Quando il volto è completamente scoperto, uno di loro mi chiede: “Vuoi vedere?”

È diventata un rituale, questa domanda. Io dico si. Mi porge il piccolo specchio nero dal mio comodino. Guardo il buco. Da vicino. Per vedere come appare. Come sta evolvendo. Se si sta restringendo o sta crescendo. Se è cambiato da ieri. O dal giorno dell’attacco. Lo guardo freddamente mentre Bach suona. A parte me, lo staff medico e le persone che mi hanno trovato quel giorno, nessuno l’ha visto. Nel mezzo della carne triturata, ora c’è questa piccola museruola in titanio, in cui posso vedere quattro maglie, come quelle di una catena. Il labbro inferiore e la maggior parte dei denti inferiori sono andati. È con masochista soddisfazione che incontro nuovamente il famigerato mostro in fondo a quella faccia quasi intatta.

Questa particolare mattina, alzo gli occhi dallo specchio e incontro quelli di Ada, la terza delle infermiere. Mentre gli altri sono impegnati, lei mi sta fissando. È nuova. Venti anni. Il suo ragazzo è un croupier in un casinò. È metà francese e metà senegalese. A me però sembra più una principessa indiana, con i suoi lunghi capelli e la sua aria di leggera indifferenza e debole sgomento nel trovarsi lì. Le infermiere più anziane dicono sempre che alle più giovani manca il senso della vocazione, che a loro non importa davvero. A me Ada piace. Bach la annoia. Tutta la musica classica la annoia. Guardo quel viso perfetto, quella bellezza petulante ed immobile. Guardo di nuovo il buco ed il suo ammasso di carne. Poi guardo di nuovo la faccia di Ada. Io sono la Bestia e lei è la Bella. Ma in questa storia, è lei che ha le chiavi del castello. I suoi lunghi occhi spalancati si restringono in un debole sorriso. Alzo le sopracciglia come per dire: “La situazione è quella che è”. Eloquentemente, lei mi fa il broncio con il chiaro messaggio: “Sì, è quel che è”.

Due anni dopo

Depresso da una riabilitazione dolorosa ed infinita, incontro Alexandra in un bistrot. Era l’infermiera a cui ero sempre vicino.

“Non devi fartene una colpa”, mi dice. “Se avessi visto com’eri quando sei arrivato in reparto! Non ero lì quel giorno ma ho visto le foto”.

“Che aspetto avevo?”

“I due terzi superiori del viso andavano bene. Fino in fondo fino a qui…”

Indica il labbro superiore.

“Da lì in poi, eri una specie di bistecca. Non si poteva distinguere l’osso dai tessuti. Era una poltiglia”.

C’è un passaggio, in una tragedia di Racine, dove Athalie sogna sua madre morta, Jezebel:

La sua ombra sembrava piegarsi, ed io

Porsi le braccia per abbracciarla;

Ma trovai solo confusione orribile

Di ossa e carne straziate trascinate nel fango

E brandelli intrisi di sangue, di orribili membra,

Quei cani, nel divorare, combattevano l’uno con l’altro.

Da quando ho lasciato l’ospedale, gli estranei, in particolare i negozianti, mi chiedono sempre cosa mi è successo. “Un incidente”, rispondo io. Troppo vago per loro. Molti pensano di poter indovinare. “Sei stato morso da un cane, giusto?”. Io dico sempre di sì. Io dico di sì ad ogni ipotesi che si inventano. Dire di sì li rassicura. Ma sono venuto a preferire i teorici del morso di cane a tutti gli altri. Tanto più perché c’è qualcosa di plausibile a riguardo. Cani divoratori davvero.

Nessuno ha ancora indovinato.

 

Philippe Lançon

Fonte: www.theguardian.com

Link: https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/may/06/charlie-hebdo-attack-survivor-philippe-lancon

6.05.2018

 

Scelto e tradotto per comedonchisciotte.org da HMG

 

 

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