Date una possibilità alla guerra, una guerra che anche i pacifisti possano sostenere

L'Occidente si trova ora di fronte alla realtà di un ordine globale emergente, policentrico e fluido.

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Alastair Crooke
strategic-culture.su

A più di un anno dall’inizio dell’Operazione speciale della Russia, l’iniziale entusiasmo europeo per l’aggressione dell’Occidente contro la Russia si è dissipato. L’umore si è trasformato in “timore esistenziale, un sospetto assillante che la civiltà [occidentale] possa auto-distruggersi”, scrive la professoressa Helen Thompson.

Per un istante, l’euforia si era coagulata intorno alla presunta proiezione dell’UE come potenza mondiale, come attore chiave in procinto di competere su scala mondiale. Inizialmente, gli eventi sembravano aver convinto l’Europa dei suoi poteri di mercato: l’Europa stava per abbattere una grande potenza – la Russia – solo con un colpo di stato finanziario. L’UE si sentiva “alta due metri”.

All’epoca, sembrava un momento galvanizzante: “la guerra aveva riportato in auge la vecchia e sopita immagine manichea del conflitto esistenziale tra Russia e Occidente che aveva assunto dimensioni ontologiche e apocalittiche. Il mito dell'”Occidente” era stato ribattezzato” nei fuochi spirituali della guerra, suggerisce Arta Moeini.

Dopo l’iniziale delusione per la mancanza di un “colpo di grazia”, era rimasta la speranza che, se solo le sanzioni avessero avuto più tempo e fossero state più generalizzate, la Russia sarebbe sicuramente crollata. Quella speranza si è trasformata in polvere. E ha cominciato ad emergere la realtà di ciò che l’Europa ha fatto a se stessa – da qui il terribile avvertimento della professoressa Thomson:

“Coloro che presumono che il mondo politico possa essere ricostruito dagli sforzi della volontà umana, non hanno mai dovuto scommettere così pesantemente sulla tecnologia rispetto all’energia [fossile] come motore del nostro progresso materiale”.

Per gli euro-atlantisti, tuttavia, ciò che l’Ucraina sembrava offrire – finalmente – era la convalida del loro desiderio di centralizzare il potere nell’UE, in misura sufficiente da guadagnarsi un posto al “tavolo principale” con gli Stati Uniti, come partner nel Grande Gioco.

L’Ucraina, nel bene e nel male, ha rimarcato la profonda dipendenza militare dell’Europa da Washington e dalla NATO.

In particolare, il conflitto in Ucraina sembrava poter finalmente consolidare la strana metamorfosi della NATO da alleanza militare ad alleanza illuminata, progressista e di pace! Come aveva affermato Timothy Garton Ash sul Guardian nel 2002, “la NATO è diventata un movimento di pace europeo”, dove si può vedere “John Lennon che incontra George Bush”.

La guerra in Ucraina viene descritta, in questo senso, come la “guerra che anche gli ex pacifisti possono sostenere“. Tutto ciò che i suoi sostenitori sembrano cantare è “Give War a Chance“”.

Lily Lynch, scrittrice di Belgrado, sostiene che,

“… soprattutto negli ultimi 12 mesi, leader femminili telegenici come il primo ministro finlandese Sanna Marin, il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock e il primo ministro estone Kaja Kallas si sono fatti sempre più portavoce di un militarismo illuminato in Europa…”.

“Nessun partito politico in Europa esemplifica meglio dei Verdi tedeschi il passaggio dal pacifismo militante all’ardente atlantismo favorevole alla guerra. La maggior parte dei Verdi, nati durante le proteste studentesche del 1968, erano di tendenze radicali… Ma, quando i membri fondatori erano entrati nella mezza età, nel partito erano cominciate ad apparire quelle fratture che un giorno lo avrebbero fatto a pezzi”.

“Il Kosovo aveva cambiato tutto: nel 1999, i 78 giorni di bombardamenti della NATO su ciò che restava della Jugoslavia, apparentemente per fermare i crimini di guerra commessi dalle forze di sicurezza serbe in Kosovo, avevano trasformato per sempre i Verdi tedeschi. La NATO per i Verdi era diventata un patto militare attivo che si preoccupava di diffondere e difendere valori come i diritti umani, la democrazia, la pace e la libertà – ben oltre i confini dei suoi Stati membri”.

Qualche anno dopo, nel 2002, un funzionario dell’UE (Robert Cooper) aveva potuto immaginare l’Europa come un nuovo “imperialismo liberale”. Il “nuovo” consisteva nel fatto che l’Europa rifuggiva dal potere militare duro, per utilizzare come armi una “narrazione” controllata e una partecipazione controllata al suo mercato. Cooper auspicava “una nuova era dell’impero”, in cui le potenze occidentali non avrebbero più dovuto seguire il diritto internazionale nei loro rapporti con gli Stati “vecchio stile”; avrebbero potuto usare la forza militare indipendentemente dalle Nazioni Unite e avrebbero potuto imporre protettorati per sostituire i regimi che “malgovernavano”.

Il ministro degli Esteri dei Verdi tedeschi, Annalena Baerbock, ha proseguito questa metamorfosi, rimproverando i Paesi con tradizioni di neutralità militare e implorandoli di aderire alla NATO. Ha invocato la frase dell’arcivescovo Desmond Tutu: “Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore”. E la sinistra europea ne è rimasta completamente affascinata. I principali partiti hanno abbandonato la neutralità militare e l’opposizione alla guerra e ora sostengono la NATO. È una sorprendente inversione di tendenza.

Tutto questo può essere musica per le orecchie delle euro-élites, ansiose che l’UE assuma lo status di Grande Potenza, ma questo Leviatano europeo del soft-power era interamente sostenuto dal presupposto, non dichiarato (ma essenziale), che la NATO “avrebbe coperto le spalle all’Europa”. Ciò implicava, naturalmente, che l’UE doveva legarsi sempre più strettamente alla NATO – controllata dagli Stati Unit.

Ma il rovescio della medaglia di questa aspirazione atlantista – come aveva notato il Presidente Emmanuel Macron – è la sua logica inesorabile, in base alla quale gli europei sarebbero semplicemente diventati vassalli degli americani. Macron aveva invece cercato di spingere l’Europa verso l’imminente “età degli imperi”, sperando di posizionare l’Europa come “terzo polo” in un concerto di imperi.

Gli atlantisti si erano doverosamente infuriati per le osservazioni di Macron (che tuttavia avevano attirato il sostegno di alcuni Stati dell’UE). Per gli atlantisti furiosi sembrava quasi che Macron avesse richiamato lo spettro del generale de Gaulle, che aveva definito la NATO una “falsa pretesa” volta a “mascherare la morsa dell’America sull’Europa”.

Da questa NATO “reimmaginata” sono tuttavia scaturiti due scismi correlati: in primo luogo, ha messo in luce la realtà delle rivalità interne all’Europa e degli interessi divergenti, proprio perché la guida della NATO nel conflitto ucraino contrappone gli interessi dei falchi dell’Europa centro-orientale che vogliono “più America e più guerra alla Russia” a quelli dell’asse occidentale originario dell’UE che vuole l’autonomia strategica (cioè meno “America” e una rapida fine del conflitto).

In secondo luogo, sarebbero soprattutto le economie occidentali a dover sostenere i costi e a dirottare la loro capacità produttiva verso catene logistiche militari. Il prezzo economico, la deindustrializzazione del settore civile e l’alta inflazione potrebbero essere sufficienti a spezzare l’Europa – almeno economicamente.

La prospettiva di un’identità paneuropea coesiva potrebbe essere ontologicamente attraente – ed essere vista come un “accessorio appropriato” per un aspirante “attore mondiale” – ma tale identità diventa una caricatura quando il mosaico europeo viene trasformato in un’identità astratta de-territorializzata che riduce le persone al loro aspetto più astratto.

Paradossalmente, la guerra in Ucraina – lungi dal consolidare l'”identità” dell’UE, come inizialmente immaginato – l’ha fratturata sotto le sollecitazioni dello sforzo concertato per indebolire e far crollare la Russia.

In secondo luogo, come ha osservato Arta Moeini, direttore dell’Institute for Peace and Diplomacy:

“Fin dal 1991, la spinta americana per l’espansione della NATO aveva ampliato l’Alleanza aggiungendovi una serie di Stati in difficoltà dell’Europa centrale e orientale. La strategia, iniziata con l’amministrazione Clinton ma pienamente sostenuta dall’amministrazione di George W. Bush, era stata quella di creare un pilastro decisamente filoamericano nel continente, centrato su Varsavia, che avrebbe costretto a spostare il centro di gravità dell’alleanza verso est, lontano dal tradizionale asse franco-tedesco”.

“Usando l’allargamento della NATO per indebolire i vecchi centri di potere in Europa che avrebbero potuto occasionalmente opporsi a [Washington], come nel periodo precedente l’invasione dell’Iraq, Washington si era assicurata un’Europa più compiacente nel breve termine. Il risultato, tuttavia, era stata la formazione di un colosso di 31 membri con profonde asimmetrie di potere e scarsa compatibilità di interessi” – che è molto più debole e vulnerabile – di quanto crede di essere”.

Ecco la chiave: “l’UE è molto più debole di quanto creda di essere”. L’inizio del conflitto era stato caratterizzato da una mentalità affascinata dalla nozione dell’Europa come “motore e agitatore” degli affari mondiali e ipnotizzata dalla prosperità dell’Europa del dopoguerra.

I leader dell’UE si erano convinti che questa prosperità avesse conferito all’Europa il potere e la profondità economica per affrontare una guerra – e farsi carico dei suoi rovesci – con panglossiano ottimismo. Invece ha prodotto il contrario: ha messo in pericolo il suo stesso progetto.

In The Imperial Life Cycle di John Raply e Peter Heather, gli autori spiegano il ciclo:

“Gli imperi diventano ricchi e potenti e raggiungono la supremazia attraverso lo sfruttamento economico della loro periferia coloniale. Ma, nel corso del processo, inavvertitamente, stimolano lo sviluppo economico di quella stessa periferia, fino a quando questa non è in grado di ridurne l’importanza e, alla fine, prendere il posto del suo stesso padrone”.

La prosperità dell’Europa nel dopoguerra, quindi, non era stata tanto una sua creazione, ma aveva tratto beneficio dalla coda degli accumuli di un ciclo precedente, ora invertito.

“Le economie che crescono più rapidamente nel mondo sono ora tutte nella vecchia periferia; le economie che registrano i risultati peggiori sono in misura sproporzionata in Occidente. Sono queste le tendenze economiche che hanno creato l’attuale scenario di conflitto tra superpotenze, soprattutto tra America e Cina”.

L’America potrà anche pensare di essere esente dallo stampo coloniale europeo, eppure, fondamentalmente, il suo modello è

“un collante politico-culturale aggiornato che potremmo chiamare “neoliberismo, NATO e blue-jeans” [*], che segue l’eterno modello imperiale: la grande ondata di decolonizzazione che aveva seguito la Seconda Guerra Mondiale avrebbe dovuto porvi fine. Ma il sistema di Bretton Woods, che aveva creato un regime commerciale che aveva favorito i produttori industriali rispetto a quelli primari e aveva consacrato il dollaro come valuta di riserva globale, aveva fatto sì che il flusso netto di risorse finanziarie continuasse a spostarsi dai Paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati. Anche quando le economie dei nuovi Stati indipendenti erano cresciute, le economie del G7 e dei loro partner erano cresciute ancora di più”.

Un impero un tempo potente è ora sfidato e si sente in difficoltà. Colpito dal rifiuto di molti Paesi in via di sviluppo di unirsi agli sforzi per isolare la Russia, l’Occidente si sta ora svegliando di fronte alla realtà di un ordine globale emergente, policentrico e fluido. Queste tendenze sono destinate a continuare. Il pericolo è che i Paesi occidentali, economicamente indeboliti e in crisi, tentino di riappropriarsi del trionfalismo occidentale, pur non avendo la forza e la profondità economica per farlo:

“Nell’Impero romano, gli Stati periferici avevano sviluppato la capacità politica e militare di porre fine al dominio romano con la forza… L’Impero romano avrebbe potuto sopravvivere – se non si fosse indebolito con guerre d’elezione – al suo rivale persiano in ascesa”.

L’ultimo pensiero “trasgressivo” va a Tom Luongo: “Permettere all’Occidente di continuare a pensare di poter vincere – è il modo definitivo [di Russia e Cina] di logorare un avversario superiore”.

Alastair Crooke

[*] Peter Heather aveva definito la cultura imperiale di Roma “latino, città e toghe” [N.D.T.]

Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2023/06/05/give-war-a-chance-a-war-that-even-pacifists-can-get-behind/

05.06.2023
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

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