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La Redazione

 

Che fine faremo

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A cura di Moravagine
Il 14 Gennaio 2022
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Margherita la pazza (Dulle Griet) di Pieter Bruegel il Vecchio, olio su tavola, 1561

L’edificazione di un Nuovo Ordine Umano procede spedita. La discriminazione e la segregazione dei non allineati ne rappresentano gli assi portanti. Quale posto verrà loro riservato nella “nuova normalità”? Per dare corpo a delle ipotesi più o meno plausibili, senza seguire la famigerata tabella canadese e senza farsi per forza prendere dallo spirito di Cassandra, si andrà a pescare nella storia, nella geografia, nella letteratura…in quello che si definisce “l’immaginario”. Va da sé che la fine del mondo metterebbe tutti d’accordo: finiremmo noi e finirebbero Loro, all’unisono.

La fine letteraria

Dall’inizio di quest’immonda farsaccia (e anche da prima) è stato ampiamente dibattuto se la società che lorsignori vanno costruendo sia più simile a quella delineata da Orwell in 1984 o a quella profetizzata da Huxley ne Il mondo nuovo. Non ci sarebbe da stare allegri in nessuno dei casi, ma le somiglianze più stringenti sono con il modello huxleiano. A parte il soma, la droga di Stato somministrata per tenere sedata la popolazione (da noi non ce n’è bisogno), le visioni di Huxley sono già fra noi. Nel suo mondo nuovo i “selvaggi” vivono in riserve che fungono anche da attrazione turistica, trasformati in fenomeni da baraccone ad uso e consumo del Sistema.A qualcuno farà venire in mente la fine degli Indiani d’America, ma quelli avevano un minimo di potere negoziale.

La fine palestinese

Marginalizzati nella propria terra, sottoposti a vessazioni continue e arbitrarie, circondati da sgherri gonfi d’odio, trattati da carne da cannone o da cavie per la sperimentazione di nuovi e più letali cannoni,…si potrebbe fare la fine dei palestinesi. Il modello israeliano tira parecchio, in ambito global-covidista. La Nuova Intifada verrà combattuta a botte di post su Telegram.

La fine sovietica

Pure questa ha qualcosa di letterario: è grazie alle opere di Aleksandr Solženicyn (soprattutto Arcipelago gulag e Una giornata di Ivan Denisovic) che l’orrore dei campi di detenzione messi in piedi nell’URSS di Stalin è diventato patrimonio dell’opinione pubblica occidentale . In base alla fine sovietica, si finirebbe tutti in gulag più o meno futuristici. Noi non abbiamo una Siberia, ma abbiamo terre dei fuochi, poligoni militari, pianure di amianto. Ci saranno anche tante (ex) zone industriali piene di capannoni fantasma. A occhio, questi qui sono più cattivi di quei comunisti cattivi. Ci si troverà a rimpiangere le giornate di Ivan Denisovic.

La fine indonesiana

Per un paradosso della storia, stavolta i comunisti sono le vittime, e non i carnefici, della più violenta repressione mai attuata contro degli oppositori politici. In seguito al golpe che vide salire al potere in Indonesia il generale Suharto, nel 1965, spodestando grazie al decisivo contributo di USA e Giappone  il presidente legittimo, il “padre dell’indipendenza” Sukarno, che pur coltivando un rapporto conflittuale con i comunisti locali si era avvicinato all’URSS prima e alla Cina in seguito, prese corpo una macchina di morte che si accanì contro i comunisti veri e contro quelli presunti. Alla fine, restarono sul campo centinaia di migliaia di dirigenti, militanti e simpatizzanti di quello che era, all’epoca, il terzo partito comunista del mondo per numero di iscritti: le macabre stime che si fanno in questi casi parlano di un numero fra 500.000 ed 1.500.000 di morti. La campagna di sterminio sistematico, che andò avanti per un anno e mezzo rivolgendosi pure contro i sostenitori del deposto Sukarno e contro la minoranza di origine cinese, fu accompagnata da manifestazioni in cui folle di uomini con il capo cinto da nastri bianchi scandivano ritmicamente “Kommunist gantoung!” (Impicchiamo i comunisti). Qui da noi il colpo di Stato lo hanno già fatto da tempo. Il nostro potenziale Suharto, il macchiettistico Figliuolo, fa ridere, ma quelli che stanno sopra di lui fanno paura.

Fin qui, sarebbe andata maluccio. Tuttavia, non tutte “le fini” vengono per nuocere.

La fine degli schiavi fuggiaschi

Non ci si riferisce ai tempi di Spartaco, ma a quelli della deportazione nelle Americhe di milioni di Africani del Golfo di Guinea. Venduti come schiavi, appena potevano se la svignavano. I fuggiaschi venivano chiamati “cimarrones” nelle colonie spagnole e “maroons” in quelle britanniche. Contro di essi si scatenavano spietate cacce all’uomo che si chiudevano con massacri indiscriminati. Fra le pene più ricorrenti, vi era quella dell’evirazione. Va detto che ad animare queste insubordinazioni erano perlopiù quelli appena sbarcati, nei cui animi ancora ardeva la fiamma di quella libertà selvaggia alla quale erano stati strappati; gli schiavi di seconda generazione, invece, erano mansueti e servizievoli. Nel Nordamerica i disertori della schiavitù si organizzarono in bande seminomadi dedite alla razzia e al brigantaggio; nelle Antille e in Sudamerica, al contrario, si formarono insediamenti stabili in aree paludose, montuose, inaccessibili, nel fitto delle foreste e nel vuoto dei deserti. Il fenomeno fu particolarmente rilevante in Brasile, dove queste colonie venivano chiamate “quilombos” o “mocambos”. Alcune di esse diedero vita a comunità politiche stabili che restarono in piedi per centinaia di anni. La più nota è quella di Palmares, che si sviluppò nel Nord-Est brasiliano intorno alla guida di alcuni capi carismatici. L’ultimo di essi, Zumbi, fu ucciso nel 1695. Per sfatare la leggenda della sua immortalità, il governatore dispose che la sua testa mozzata fosse esposta in una piazza di Recife. La fine degli schiavi fuggiaschi comporterebbe dunque il darsi alla macchia. Al di là di facili ottimismi, va sottolineato che all’epoca dei cimarrones i droni e i satelliti non c’erano.

La fine dei clandestini

I clandestini di trent’anni fa, sia chiaro. Privi di documenti “aggiornati”, ci si sposterebbe come ombre per schivare invasivi controlli polizieschi e rapaci telecamere. Le frontiere esisterebbero solo per noi. Gli ospedali sarebbero inespugnabili. I più robusti potrebbero lavorare, in supernero e sotto il bastone di caporali senza scupoli, nei cantieri o nei campi di pomodori,  e chissà se e come verrebbero pagati. Per gli altri, resterebbe la poco appetibile prospettiva dell’accattonaggio a distanza, oppure quella di farsi sedici ore al dì in un opificio di cinesi di seconda generazione in cambio di una ciotola di riso. Per molti aspetti, questa fine è gia qui.

La fine degli zingari

Rispetto a quella dei clandestini, la fine degli zingari comportarebbe sì l’essere universalmete schifati come parassiti, ma anche la possibilità di parassitare in libertà, dedicandosi a traffici loschi ma non troppo, ai furti con scasso e con destrezza e, soprattutto, alla procreazione. Con gli spaventosi tassi di sterilità che è lecito ipotizzare avranno le masse siringate, si conquisterebbe demograficamente il paese in una generazione e mezza. Stavolta, però, non ci sarà nessun PD a dare impunità e case popolari, quindi bisognerebbe essere zingari fino in fondo. Rinuncerebbero pure gli zingari “veri”.

La fine dei monaci

Nell’Altissimo Medioevo, mentre i Barbari dilagavano nell’Italia stuprata, i più lungimiranti si rifugiarono sui monti, al riparo dalle spade degli invasori, dando vita a comunità monastiche isolate ed autosufficienti: una civiltà “parallela” che, seppur mutilata e trasfigurata, giunge fino ai giorni nostri. Questi insediamenti si svilupparono in base alla regola del cenobitismo, cioè della vita comunitaria; nell’ambito della storia del Cristianesimo, si tratta di una forma di monachesimo più “moderna” rispetto a quelle di natura eremitica, che presero piede a partire dal terzo secolo. Pur rispettando le istanze degli eremiti (soprattutto degli stiliti: difficile mancare di rispetto a uno che va a vivere sulla sommità di una colonna), è al modello cenobitico che si fa chiaramente riferimento. Fare la fine dei monaci significherebbe dare vita a quelle Comunità di Vicinato Solidale (o comunque si voglia chiamarle) in grado di reinventare la vita ai tempi del suo ingabbiamento (se non della sua soppressione). Un interessante tentativo di riscoperta e rivisitazione del monachesimo è stato fatto da Maurizio Pallante nel saggio del 2015 Monasteri del terzo millennio. I monaci o aspiranti tali, comunque, oltre al fine di salvare la pellaccia, avevano un orizzonte spirituale che a noi manca. Potrà bastarci il collante dell’opposizione al regimepseudosanitario? Potrebbe finire tutto in scissioni, guerre per bande, nuovi e più subdoli sistemi oppressivi. A quel punto, si aprirebbe la via dei Padri del deserto, e si potrebbe fare la fine di Sant’Antonio Abate, che si ritirò per vent’anni, in assoluta solitudine, su un’arida altura nei pressi del Mar Rosso. Noto anche come “nemico del Demonio” a causa dei tormenti che il Malvagio gli inflisse, Sant’Antonio trascorse gli ultimi anni della sua vita a liberare dal Demonio stesso tutti i disgraziati che gli capitavano a tiro.

La fine dei Figli Pellegrini

Si torna in America, ma stavolta dalla parte dei colonizzatori. Visto che i Padri Pellegrini ci sono già stati (e hanno fatto il po’ po’ che hanno fatto), i loro successori scappati di casa (in senso stretto) sarebbero i Figli Pellegrini. L’esilio sarebbe carico di speranze: comunque, una botta di vita. Si fuggirebbe dalla vecchia Europa a bordo di un cargo battente bandiera liberiana per dirigersi verso nuove terre illibate, scoprendo poi che l’ultima ha perso la verginità due secoli fa. Resterebbe al massimo qualche isola sperduta in cui ti cadono i vulcani addosso, o qualche atollo prossimo a inabissarsi nel’Oceano Pacifico. Più plausibilmente, ci si potrebbe dirigere verso le isole di Capo Verde o di São Tomé e Príncipe, o magari nell’Oceano Indiano, alla volta del Madagascar o di Zanzibar. Una volta imbarcato qualche migliaio di italiani, francesi e spagnoli (i tedeschi e affini andrebbero per i fatti loro), si proverebbe a trattare concessioni coi governi locali in cambio di soldoni, ma anche di medici, ingegneri e tecnici vari. Per quanto un governo possa rivelarsi ospitale, però, non potrà comunque sfuggire alle mire dei Grandi Resettatori. Da quelle parti, ci si mette poco a fare fuori un presidente. I Figli Pellegrini sarebbero quindi costretti a pellegrinare all’infinito verso la proverbiale isola che non c’è.

La fine dei pirati

Più avventurosa (e meno “globalista”) di quella precedente, la fine piratesca sarà appannaggio di pochi valorosi. Tre golette cariche di disperati all’ultimo stadio salperanno alla volta di Gorgona, nell’Arcipelago Toscano, l’isola- prigione, la piccola Alcatraz italiana dimenticata. Ivi approdati, disarmeranno i secondini, libereranno i carcerati per ingrossare le fila della loro ciurmaglia e puniranno esemplarmente il “responsabile covid”, punzecchiandolo su una passerella per farlo cadere in una piscina d’amuchina. Col pieno di armi, uomini ed entusiasmo, dopo aver sbaragliato la Guardia Costiera Covidista nella battaglia del Canale di Corsica, i nostri saccheggeranno Capraia e metteranno a ferro e fuoco Pianosa, prima di giungere sull’isola deserta di Montecristo, dove daranno vita ad una Libera Repubblica Indipendente. Da lì partiranno incursioni sulla costa corsa e scorribande nella Maremma maiala. A quel punto, l’Isola d’Elba comincerà a tremare…vi piacerebbe, eh?

 

(Nessun finale è scritto. Si fa ancora in tempo a fare la Storia e non a subirla)

di Moravagine per Comedonchisciotte

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