Che cosa resta della democrazia quando comanda il mercato?

Nota sulla democrazia - José Saramago

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INTRODUZIONE

Democrazia?

La parola democrazia viene dalle parole greche “demos”, che significa popolo e “Kratos” che significa potere; quindi la democrazia va pensata come “il potere del popolo”: un modo di governare che dipende dalla volontà del popolo.

Ci sono così tanti modelli diversi di governi democratici nel mondo che a volte risulta più semplice comprendere l’idea di democrazia in base a cosa assolutamente non è. La democrazia, dunque, non è l’autocrazia o la dittatura, dove a governare è un solo individuo; non è nemmeno l’oligarchia, dove a governare è un ristretto gruppo della società. Intesa correttamente, la democrazia non dovrebbe nemmeno essere “il governo della maggioranza”, se questo significa che gli interessi delle minoranze siano completamente ignorati. Una democrazia, almeno in teoria, è il governo a nome di tutto il popolo, secondo la sua “volontà”.[1]

Dopo le devastazioni della  2GM, per non andare troppo indietro con la Storia, la necessità di riaggregare il sentire collettivo attorno a dei valori universalmente condivisi  favorì  la formulazione di definizioni  emotivamente indiscutibili  identificate come “Democrazia” e “Diritti umani” . Una eggregora nella quale tutti, quasi tutti, si trovarono a vivere, consapevoli di poter essere citoyens e di essere portatori sani dell’essenza del migliore dei mondi possibili, dell’apice della civiltà fino ad allora espressa dall’umano consesso. Dichiarazioni, discorsi, scritti ed ogni espressione della comunicazione erano-sono imbellettati da tali espressioni che raccontano tutto e nulla, che si possono interpretare secondo opportunità o funzione.  La “Democrazia”, questa, è sia un equivoco che una favola giustificanti ogni sfumatura interpretativa -un equivoco  borghese. Tutti, tutti noi, fieri di sentirci i rappresentanti della espressione massima della civiltà , così come pollame in un allevamento intensivo, abbiamo ritenuto le dinamiche all’interno dell’ “universo pollaio” le uniche che avessero dignità d’essere, e ad ondate siamo stati  ammassati negli angoli del capannone e spinti a condividere e sostenere ogni interpretazione della nostra gloriosa e pura essenza “occidentale”. Le genti del glorioso occidente hanno condiviso, sostenuto, subito e sventolato fieri  le bandiere dei loro/nostri valori. Siamo stati, talvolta, conniventi e complici di enormi nefandezze su ogni popolo ed ogni nazione, giustificando il  tutto come necessaria esportazione dei valori occidentali contro la barbarie dell’altro, non riconoscendo che venivano riproposte le stesse logiche esportatrici di “civiltà” proprie dei periodi coloniali. Abbiamo sostenuto, sovente inconsciamente ed inconsapevolmente,  ogni tipo di neocolonialismo e di imperialismo nell’autoassoluzione della santità di quello che credevamo di essere, alla fine soddisfatti  di sentirci superiori, un po, rispetto agli incivili.

La nostra crociata per la Civiltà, almeno dalla fine della 2GM , globalmente ci ha “dopato”, ci ha resi ciechi ed incapaci di squarciare il velo di Maya sulla nostra condizione esistenziale, incapaci di riconoscere la ragnatela che avvolgeva noi tutti , o quasi. Almeno l’ultimo lustro ha cominciato ha mostrare a molti il vero volto del totalitarismo liberale e liberista, duro, subdolo  e spietato nell’essenza sua profonda più che non altri storici totalitarismi nei quali almeno era possibile identificare il volto del nemico, mentre ora codesto è un fantasma che si aggira per l’Europa. Gli apparenti responsabili altro non sono che dei burattini gestiti da fili che si perdono nel buio. La Democrazia non esiste, questa Democrazia non è, quasi nessuno ci rappresenta e le elezioni forse sono una pantomima per giustificare i nomi di esecutori di altrui interessi; se qualche organizzazione o movimento diventano significativi con intenti ed idee scomodi vengono posti fuori dal consesso “democratico”. Essere citoyens forse richiede di ripensare l’interpretazione dei fiori all’occhiello dei nostri valori perché il pollaio occidentale e democratico si è rivelato un bluff soprattutto per i propri cittadini, sempre meno liberi di pensare , agire, esprimersi , esistere.

 “Peccato però che lei non vivrà! Sempre che questo sia vivere…” (“Too bad she won’t live. But, then again, who does?“)[2]

Essere citoyens chiama ora a delle riflessioni ulteriori di filosofia politica, ad una rifondazione del noi-insieme e per cosa. Fortunatamente qualche anima pensante nei decenni scorsi ha cercato di porre sul tavolo il dibattito, anche se purtroppo sempre meno si sono posti alla riflessione, essendo i più, noi, beati e beoti nel fruire della insostenibile leggerezza dell’essere del mondo epicureo del nostro ultimo passato europeo, e non solo. Molto tempo fa Josè Saramago ha provato a sollevare la questione, così come molti altri dal secondo dopoguerra, anche se il pensiero critico si è viepiù annacquato fino a non essere più tale. Proviamo a scoprire un po’ il telo che vela il ritratto di Dorian Grey

“Questo bisogna dirlo forte e chiaro perché lo stratagemma, solo per metà manifesto, e a volte occulto, avanza molto rapidamente nei giorni che passano e, secondo la nostra opinione, dobbiamo riconoscerlo quale è, incessantemente ed eternamente, ed opporci ad esso.”[3]

 

Che cosa resta della democrazia quando comanda il mercato?

 

In un prossimo futuro, si andrà a votare in una vasta gamma di paesi, dall’Indonesia all’Afghanistan, dall’Iraq agli Stati uniti. Nata nel 507 a.C. ad Atene, la democrazia sarebbe la forma di governo più naturale per l’umanità, fra tutti i sistemi politici il meno negativo. Ma è necessario che funzioni bene e che non sia deviata da poteri che non sono né eletti dal voto popolare né controllati dai cittadini. 

NOTE

[1] www.coe.int

[2] Blade Runner.

[3]Una lettera di John BergerNoam ChomskyHarold Pinter, José Saramago, Gore VidalMieussyFrancia, 23 luglio 2006.

 

José Saramago 

Nella Politica Aristotele ci dice inizialmente questo: «In democrazia i poveri sono re, perché sono il più gran numero, e perché la volontà del più gran numero ha forza di legge». In un secondo passaggio sembra limitare la portata di questa prima frase, poi l’allarga ancora, la completa e finisce per formulare un assioma: «L’equità all’interno dello stato esige che i poveri non possiedano in alcun modo più poteri dei ricchi, che non siano i soli sovrani, ma che tutti i cittadini lo siano in proporzione al loro numero. Sono queste le condizioni indispensabili perché lo stato garantisca in maniera efficace l’eguaglianza e la libertà».
Aristotele ci dice che i cittadini ricchi, anche se partecipano in piena legittimità democratica al governo della Polis, saranno sempre una minoranza per effetto di una proporzionalità incontestabile.
Su un punto, ha visto giusto: per quanto si risalga indietro nel tempo, mai i ricchi sono stati più numerosi dei poveri. Ciononostante, i ricchi hanno sempre governato il mondo, o manovrato le fila di coloro che governavano. Una constatazione oggi più attuale che mai.
Notiamo en passant che per Aristotele lo stato rappresenta una forma superiore di moralità.
Qualsiasi manuale di diritto costituzionale c’insegna che la democrazia è «un’organizzazione interna dello stato secondo cui il potere politico emana dal popolo e viene esercitato dal popolo – un’organizzazione che consente al popolo governato di governare a sua volta per il tramite dei propri rappresentanti eletti». Accettare definizioni come questa, di una pertinenza al limite delle scienze esatte, in una trasposizione alla nostra esperienza di vita, equivarrebbe a non tener conto della infinita gradualità di condizioni patologiche di fronte alle quali si può trovare il nostro corpo in qualsiasi momento del tempo.
In altri termini: il fatto che la democrazia possa essere definita con grande precisione non significa che funzioni nella realtà. Un rapido excursus attraverso la storia delle idee politiche ci porta a due osservazioni spesso frettolosamente accantonate, con la scusa che il mondo cambia. La prima per ricordare che la democrazia è sorta ad Atene, verso il V secolo A.C.; presupponeva la partecipazione di tutti gli uomini liberi al governo della città: era fondata sulla forma diretta, le cariche erano effettive o assegnate secondo un sistema misto di estrazione a sorte e di elezione; e i cittadini avevano il diritto di voto e di presentare proposte nelle assemblee popolari.
Tuttavia – è questa la seconda osservazione – a Roma, continuatrice dei greci, il sistema democratico non è riuscito a imporsi. Si è scontrato con l’ostacolo del potere economico smisurato di un’aristocrazia latifondista che vedeva nella democrazia un nemico frontale. Nonostante il rischio insito in qualsiasi estrapolazione, è possibile evitare di chiedersi se gli imperi economici contemporanei non siano, anch’essi, avversari radicali della democrazia, anche se per il momento si salvano le apparenze?
Le istanze del potere politico tentano di distogliere la nostra attenzione da un fatto evidente: all’interno stesso del meccanismo elettorale, si trovano in conflitto una scelta politica rappresentata dal voto e un’abdicazione civica. Non è forse vero che, nel preciso momento in cui la scheda viene introdotta nell’urna, l’elettore trasferisce in mani terze, senza alcuna contropartita se non le promesse intese durante la campagna elettorale, quella parte di potere politico che possedeva fino allora in quanto membro della comunità di cittadini?
Il ruolo di avvocato del diavolo che mi assumo può sembrare imprudente.
Motivo di più per esaminare che cosa sia la nostra democrazia, quale sia la sua utilità, prima di pretendere – ossessione della nostra epoca – di renderla obbligatoria e universale. Questa caricatura di democrazia che, missionari di una nuova religione, cerchiamo d’imporre al resto del mondo, non è la democrazia dei greci, bensì un sistema che i romani stessi non avrebbero esitato a imporre ai loro territori.
Questo tipo di democrazia, attenuata da mille parametri economici e finanziari, sarebbe riuscito senza alcun dubbio a far cambiare idea ai latifondisti del Lazio, che si sarebbero trasformati allora in democratici della più bell’acqua…
Può sorgere, nella mente di qualche lettore, uno sgradevole sospetto sui miei convincimenti democratici, tenendo conto delle mie inclinazioni ideologiche ben note… Difendo l’idea di un mondo veramente democratico che diventerebbe finalmente realtà, duemilacinquecento anni dopo Socrate, Platone e Aristotele. Questa chimera greca di una società armoniosa, senza più distinzione tra padroni e schiavi, così come la concepiscono le anime candide che credono ancora alla perfezione.
Qualcuno mi dirà: ma le democrazie occidentali non sono basate sul censo e non sono razziste, e all’interno dell’urna il voto del cittadino ricco o di pelle chiara conta esattamente quanto quello del cittadino povero o di pelle più scura. Fidandoci di simili apparenze, avremmo raggiunto il culmine della democrazia. A costo di raffreddare questi entusiasmi, dirò che le realtà brutali del mondo in cui viviamo rendono ridicolo questo quadro idilliaco, e che, in un modo o nell’altro, finiremo per ritrovarci con un corpo autoritario dissimulato sotto i più begli ornamenti della democrazia.
E così, il diritto di voto, espressione di una volontà politica, è nel contempo un atto di rinunzia a quella stessa volontà, in quanto l’elettore la delega ad un candidato. Almeno per una parte della popolazione, l’atto di votare è una forma di rinunzia temporanea ad un’azione politica personale, tenuta in sordina sino alle elezioni successive, momento in cui i meccanismi di delega torneranno al punto di partenza, per riattivare lo stesso processo. Questa rinuncia può costituire, per la minoranza eletta, il primo passo di un meccanismo che, nonostante le vane speranze degli elettori spesso autorizza a perseguire obiettivi che non hanno nulla di democratico e che possono costituire un’autentica offesa alla legge. In linea di principio, a nessuno verrebbe in mente di eleggere come rappresentanti in Parlamento degli individui corrotti, anche se sappiamo per triste esperienza che le alte sfere del potere a livello sia nazionale che internazionale, sono occupate da tali criminali o dai loro mandatari.
Nessun esame al microscopio dei voti deposti nell’urna avrebbe il potere di rendere visibili i segni rivelatori delle relazioni che intercorrono tra gli Stati e i gruppi economici i cui atti delittuosi, se non addirittura atti di guerra, spingono alla catastrofe il nostro pianeta.
L’esperienza conferma che una democrazia politica che non si basi su una democrazia economica e culturale è di ben scarsa utilità.
Disprezzata e relegata nel dimenticatoio delle formule arcaiche, l’idea di una democrazia economica ha ceduto il posto ad un mercato trionfante fino all’oscenità. E all’idea di una democrazia culturale si è sostituita quella, non meno oscena, di una massificazione industriale delle culture, uno pseudo melting pot di cui ci si serve per mascherare il predominio di una sola di esse.
Noi crediamo di aver fatto dei passi avanti, ma in realtà regrediamo.
Parlare di democrazia diventerà sempre più assurdo, se ci ostineremo a identificarla con istituzioni che hanno il nome di partiti, Parlamenti, governi, senza procedere a un esame del modo in cui questi ultimi utilizzano il voto che ha loro consentito l’accesso al potere. Una democrazia incapace di autocritica si condanna alla paralisi.
Non dovete concludere da queste parole che io sia contrario all’esistenza dei partiti. Anzi, sono un militante in uno di loro. Non dovete credere neppure che io aborri i Parlamenti: li apprezzerei, se si impegnassero ad agire più che a discettare. E non immaginatevi neppure che io sia l’inventore di una ricetta magica che consenta ai popoli di vivere felici senza aver bisogno di un governo. Soltanto mi rifiuto di ammettere che si possa governare e desiderare di essere governati esclusivamente secondo i modelli democratici vigenti incompleti e incoerenti. Li definisco così perché non trovo proprio altre parole più adatte.
Una democrazia autentica, che come un sole inondasse della sua luce tutti i popoli, dovrebbe cominciare da quello che abbiamo tutti sottomano, cioè il paese in cui nasciamo, la società in cui viviamo, la strada in cui abitiamo. Se questa condizione non viene rispettata – e non lo è – vengono inficiati tutti i ragionamenti precedenti, vale a dire il fondamento teorico e il funzionamento empirico del sistema.
Purificare le acque del fiume che attraversa la città non servirà a nulla, se il focolaio di contaminazione si trova alla fonte. Il problema principale che, da che mondo è mondo, si pone qualsiasi tipo di organizzazione umana, è quella del potere. Il problema principale consiste nell’identificare chi lo detiene, e verificare con quali mezzi lo ha ottenuto, come l’utilizza, di quale metodo si serve e quali sono le sue ambizioni. Se la democrazia è veramente il governo del popolo, per il popolo e da parte del popolo, non ci sarebbe nulla da discutere, ma le cose non stanno così. E soltanto uno spirito cinico si azzarderebbe ad affermare che tutto va per il meglio nel mondo in cui viviamo. Si dice anche che la democrazia sia il sistema politico meno peggiore, e nessuno fa osservare che questa accettazione rassegnata di un modello che si contenta di essere «il meno peggiore» può frenare a una ricerca verso qualcosa di «migliore».
Il potere democratico per sua natura è sempre provvisorio. Dipende dalla stabilità delle elezioni, dal flusso delle ideologie, e dagli interessi di classe. Si può vedere in lui una sorta di barometro organico che registra le variazioni della volontà politica della società. Ma, in maniera flagrante, sono innumerevoli le alternanze politiche apparentemente radicali, che hanno come conseguenza il cambiamento di governo, ma che non sono poi accompagnate da quelle trasformazioni sociali, economiche e culturale fondamentali che lasciava supporre il responso elettorale.
Infatti, dire governo «socialista» o «socialdemocratico» o ancora «conservatore» o «liberale» e chiamarlo «potere», è semplicemente un’operazione estetica di basso rango. Vuol dire pretendere di definire qualcosa che non si trova là dove si vorrebbe farci credere che sia.
Perché il potere, il potere vero, si trova altrove: è il potere economico.
Quello di cui si percepiscono i contorni in filigrana, ma che ci sfugge allorché si cerca di avvicinarsi, e che contrattacca se ci viene voglia di limitare il suo dominio, sottomettendolo alle regole dell’interesse generale.
Parliamoci chiaro: i popoli non hanno eletto i loro governi perché questi li «offrano» al mercato. Ma il mercato condiziona i governi affinché questi gli «offrano» i loro popoli. Nel nostro tempo di globalizzazione liberista, il mercato è lo strumento per antonomasia dell’unico potere degno di tale nome, il potere economico e finanziario.
Questo non è democratico perché non è stato eletto dal popolo, non è gestito dal popolo e soprattutto perché non si prefigge come finalità la felicità del popolo.
Dicendo questo, mi limito a enunziare verità elementari. Gli strateghi politici, senza differenza di colore di appartenenza, hanno imposto un prudente silenzio affinché nessuno osi insinuare che noi continuiamo a coltivare la menzogna e accettiamo di esserne complici. Il sistema definito democratico assomiglia sempre di più a un governo dei ricchi, e sempre meno a un governo del popolo. Impossibile negare l’evidenza: la massa di poveri chiamata a votare non è mai chiamata a governare.
Nell’ipotesi di un governo formato dai poveri, in cui questi rappresentassero la maggioranza, come ha immaginato Aristotele nella sua Politica, essi non disporrebbero dei mezzi necessari a modificare l’organizzazione dell’universo dei ricchi che li dominano, li sorvegliano e li soffocano.
La pretesa democrazia occidentale è entrata in una fase di trasformazione retrograda che non è più in grado di fermare e le cui conseguenze prevedibili saranno la sua stessa negazione. Non c’è alcun bisogno che qualcuno si assuma la responsabilità di liquidarla, è essa stessa a suicidarsi ogni giorno che passa.
Che fare? Riformarla? Sappiamo che riformare, come ha scritto con tanta eloquenza l’autore del Gattopardo, altro non è se non cambiare quello che è necessario perché non cambi nulla. Rinnovarla? A quale epoca del passato sufficientemente democratica si vorrebbe ritornare, e partire da lì per ricostruire con nuovi materiali quello che ci porta sulla via della perdizione? Quella dell’antica Grecia? Quella delle repubbliche mercantili del Medio evo? Quella del liberalismo inglese del XVII secolo? Quella del secolo francese dell’Illuminismo?
Le risposte sarebbero non meno futili delle domande… Che fare allora? Finiamola di considerare la democrazia un valore acquisito, definito una volta per tutte e intoccabile in eterno.
In un mondo in cui si è abituati a discutere di tutto, resiste un solo tabù: la democrazia. Salazar (1889-1970), il dittatore che ha governato il Portogallo per più di quarant’anni, affermava: «Non si rimette in discussione Dio, non si rimette in discussione la patria, non si rimette in discussione la famiglia». Oggi come oggi, noi rimettiamo in discussione Dio, rimettiamo in discussione la patria, e se non rimettiamo in discussione la famiglia è perché ci pensa a farlo da sola. Ma non si rimette in discussione la democrazia.
Allora io dico: rimettiamola in discussione, in tutti i dibattiti.
Se non troveremo un mezzo di reinventarla, non si perderà soltanto la democrazia, ma anche la speranza di vedere un giorno i diritti umani rispettati su questo pianeta. Sarebbe questo il fallimento più clamoroso del nostro tempo, il segnale di un tradimento che segnerebbe per sempre l’umanità.

 

Articolo tratto da: Le Monde Diplomatique, settembre 2004.

Traduzione di TenGri

 

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