CHRIS HEDGES
truthdig.com
Donald Trump, come gran parte del pubblico americano, è affascinato dalle immagini elettroniche. Interpreta la realtà attraverso le distorsioni dei media digitali. Le sue decisioni, opinioni, posizioni politiche, pregiudizi e la percezione del sè gli vengono riflessi dagli schermi. Vede la sua persona e il mondo che lo circonda come un enorme programma televisivo, con se stesso come protagonista. Le sue preoccupazioni principali come presidente sono i suoi indici di gradimento, la sua popolarità e la sua immagine. È una creatura, magari anche l’emblema, della cultura moderna post-letteraria, una cultura su cui critici come Marshall McLuhan, Daniel Boorstin, James W. Carey e Neil Postman ci avevano messo in guardia.
Non si tratta esclusivamente, come alcuni hanno suggerito, del fatto che Trump parla come un ragazzino di prima media o che è regredito ad una cultura orale pre-letteraria. Egli incarna l’incoerenza dell’era digitale moderna, fatta di improvvisi cambiamenti da un soggetto all’altro, una corsa su montagne russe di alti e bassi emotivi, inframmezzati da spot pubblicitari. C’è una continua esposizione agli stimoli. Raramente esiste qualcosa che impegna la nostra attenzione per più di pochi secondi. Niente ha un contesto. Le immagini sovrastano le parole. Siamo perennemente confusi, ma sempre intrattenuti. Ricordiamo a malapena ciò che abbiamo visto o sentito pochi minuti prima. Questo è voluto dalle élite che ci manipolano.
“Non si tratta unicamente del fatto che sullo schermo televisivo l’intrattenimento è la metafora di tutti i discorsi,” sottolinea Postman. “Fuori dallo schermo prevale la stessa metafora.” Gli Americani, proprio perchè la televisione mette in scena il loro mondo, “non parlano più fra di loro, si intrattengono l’un l’altro.” Trump è ciò che succede quando una società si distacca dalla parola scritta, quando essa spinge l’arte, l’etica, i classici, la filosofia, la storia e le discipline umanistiche ai margini delle università e della cultura, quando i suoi membri passano ore intere seduti immobili di fronte ad uno schermo. Oggi, le informazioni, le idee e l’epistemologia, come scrive Postman, sono fornite dalle immagini elettroniche.
Sarebbe un errore considerare quello che sta succedendo come una regressione culturale. È anche peggio. Le culture orali davano molto valore alla memorizzazione e coltivavano la nobile arte della retorica. Nelle culture orali, leader, drammaturghi e poeti non si rivolgevano al pubblico con la volgare terminologia usata da Trump. Più inquietante del limitato vocabolario del presidente è il fatto che non riesca a mettere insieme frasi di senso compiuto. Questa è una replica non solo dello scadente vocabolario televisivo, ma soprattutto dell’incoerenza della televisione. Trump è in grado di comunicare con decine di milioni di Americani, anch’essi cresciuti di fronte agli schermi, proprio perché anche loro sono stati trasformati, linguisticamente ed intellettualmente, dalle immagini digitali. Hanno perso la capacità di scoprire la menzogna o di pensare razionalmente. Fanno parte della nostra cultura post-fattuale.
Quasi tutti i tweet o i commenti ad alta voce di Trump mettono in luce questa incoerenza. In un’intervista del 31 gennaio al New York Times, quando gli era stato chiesto del macabro omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, aveva dato questa risposta:
“Si. Khashoggi. Pensavo fosse un crimine terribile. Ma se guardate ad altri paesi, molti altri paesi. Guardate all’Iran, non così lontano dall’Arabia Saudita, e date un’occhiata a quello che stanno facendo lì. Quindi, sapete, questo è proprio il modo in cui mi sento. Anche il Venezuela è in continua evoluzione. Fra tutti e due, sono probabilmente 14 anni che ne sentiamo parlare. E cose terribili stanno accadendo in Venezuela. Quindi, se posso fare qualcosa per aiutare la gente. E’ veramente un aiuto per l’umanità, se possiamo fare qualcosa per aiutare le persone, mi piacerebbe farlo.”
Le immagini elettroniche sono i nostri idoli moderni. Adoriamo il potere e la fama che da esse derivano. Bramiamo diventare celebrità idolatrate. Misuriamo le nostre vite in rapporto alle fantasie che queste immagini diffondono. Se qualcosa non appare su uno schermo o non viene proclamata da uno schermo, la sua autenticità viene messa in discussione. Costruiamo con fervore piattaforme in miniatura di media sociali, su cui aggiorniamo quotidianamente “il film della nostra vita,” confondendo l’auto-presentazione con la comunicazione e l’amicizia autentica. Questo desiderio di validazione da parte delle immagini elettroniche e del loro pubblico ci ha resi un popolo isolato, disinformato, alienato e molto infelice.
“Ora, la morte di Dio unita alla perfezione dell’immagine ci ha portati ad uno stato di aspettativa completamente nuovo,” scrive John Ralston Saul. “Noi siamo l’immagine. Noi siamo attori e spettatori. Non c’è nessun’altra presenza che distragga. E l’immagine ha tutti i poteri della divinità. Uccide a volontà. Uccide senza sforzo. Uccide magnificamente. Dispensa moralità. Giudica all’infinito. L’immagine elettronica è l’uomo come Dio e il rituale coinvolto ci porta non ad una misteriosa Santissima Trinità, ma a ritornare in noi stessi. In mancanza di una chiara comprensione del fatto che ora noi ne siamo l’unica fonte, queste immagini non possono fare a meno di regredire all’espressione della magia e della paura, proprie delle società idolatriche. Ciò, a sua volta, facilita l’uso dell’immagine elettronica come propaganda da parte di chiunque sia in grado di controllarne una parte.”
La fissazione di Trump per le immagini elettroniche sta a significare che lui e milioni di altri Americani adulti, che, secondo un rapporto del 2018 della società Nielsen, passano in media, ogni giorno, quattro ore e 46 minuti davanti alla TV e “più di 11 ore al giorno ascoltando, guardando, leggendo o, in generale, interagendo con i media,” sono ormai distaccati dal pensiero complesso. Sono stati infantilizzati. La televisione, compresi i telegionali, riduce tutta la realtà ad una semplicità infantile e fumettistica. Le notizie presentate sugli schermi “forniscono immagini degenerate o una pseudo-realtà di stereotipi,” scrive James W. Carey. ” Le notizie riescono ad avvicinarsi alla verità solo quando la realtà è riducibile ad una serie di dati statistici: risultati sportivi, notizie di borsa, nascite, decessi, matrimoni, incidenti, sentenze giudiziarie, elezioni, transazioni economiche come il commercio con l’estero o la bilancia dei pagamenti.” I notiziari, sui nostri schermi, sono ormai incapaci di trasmettere la complessità e le sfumature. Mancano di contesto storico, sociale o culturale. I telegiornali comunicano attraverso cliché e tropi politico-culturali facilmente assimilabili. Sono sensazionalistici e frammentati. Il ritmo frenetico delle notizie televisive significa che, tranne che per la divulgazione di dati statistici, i programmi possono operare solo sulla base di stereotipi consolidati. I notiziari televisivi sono, in sostanza, distaccati dal reale e irragionevolmente radicati nell’ideologia imperante neoliberista, militarista e suprematista bianca delle élite al potere.
Postman, nel suo libro “Amusing Ourselves to Death” [Divertendoci fino alla morte], scrive che dopo lo sviluppo del telegrafo, “le notizie avevano preso la forma di slogan, per essere notate con entusiasmo e dimenticare subito dopo l’invio [del telegramma].” Sostenendo che questa invenzione del 19° secolo sta alla base della comunicazione dell’era digitale, [Postman] dice, “Il suo linguaggio era anche assolutamente discontinuo. Un messaggio non aveva alcun legame con ciò che lo precedeva o lo seguiva. Ogni ‘titolo’ rappresentava il suo stesso contesto. Era il ricevente della notizia a dovergli attribuire un significato, se era in grado di farlo. Il mittente non ne era obbligato. E, proprio per questo motivo, il mondo descritto dal telegrafo aveva iniziato ad apparire ingestibile, persino indecifrabile. La forma lineare, sequenziale e continua della pagina stampata aveva cominciato lentamente a perdere la sua importanza di metafora sull’acquisizione della conoscenza e sulla comprensione del mondo. ‘Conoscere’ i fatti aveva assunto un nuovo significato, poiché non implicava più la conoscenza di riferimenti, background o connessioni. Il discorso telegrafico non concedeva tempo alle prospettive storiche e non dava priorità alla qualità.”
Coloro che cercano di comunicare al di fuori delle strutture digitali per mettere in discussione o sfidare la narrativa dominante, per affrontare le ambiguità e le sfumature, per avere discussioni radicate su fatti verificabili e su un contesto storico, stanno diventando incomprensibili alla maggior parte della società moderna. Non appena iniziano ad utilizzare un linguaggio non radicato nei cliché e negli stereotipi dominanti, essi non vengono più compresi. Televisione, computer e smartphone hanno assuefatto una generazione e l’hanno condizionata a parlare e a pensare con l’irrazionale, incoerente linguaggio infantile con cui viene nutrita, giorno dopo giorno. Questo analfabetismo culturale, storico, economico e sociale è la delizia delle élites dominanti, che progettano, gestiscono e traggono profitto da questi sofisticati sistemi di controllo sociale. Armati dei nostri dati personali e con la conoscenza delle nostre inclinazioni, abitudini e desideri, ci manipolano abilmente come consumatori e come cittadini, per accelerare l’accumulo di ricchezza e il consolidamento del potere da parte loro.
“Le uniche persone che comprendono la distinzione tra realtà ed apparenza, che capiscono le leggi del comportamento e della società, sono i gruppi dominanti e quelli che eseguono i loro ordini: le élite scientifiche e tecniche che studiano le leggi comportamentali e la funzione della società, cosicché le persone possano essere governate in modo sempre più efficace, seppur inconscio,” scrive Carey in “Communication as Culture: Essays on Media and Society.” [Comunicazione come cultura: saggi su media e società].
Daniel Boorstin in “The Image: A Guide to Pseudo-Reality in America” [L’immagine: una guida alla pseudo-realtà in America] sostiene che il costruito, l’inautentico e il teatrale hanno ormai sostituito la naturalità, la genuinità e la spontaneità. La realtà è diventata tecnica teatrale. Viviamo in un mondo, scrive, “dove la fantasia è più reale della realtà.” Egli avverte:
“Rischiamo di essere i primi nella storia ad essere riusciti a rendere le proprie illusioni così vivide, così persuasive, così ‘realistiche,’ da poterci vivere dentro. Siamo le persone più visionarie sulla Terra. Eppure non osiamo disilluderci, perché le nostre illusioni sono la casa stessa in cui viviamo; sono le nostre notizie, i nostri eroi, la nostra avventura, le nostre forme artistiche, la nostra stessa esperienza.”
Trump è un prodotto di questo decadimento culturale, non un’aberrazione. Il modo in cui parla, agisce e pensa è il modo in cui molti Americani parlano, agiscono e pensano. Un giorno sparirà, ma la degenerazione culturale che lo aveva prodotto rimarrà. Le istituzioni accademiche, che dovrebbero essere depositarie della cultura e dell’istruzione, si stanno trasformando, spesso proprio per i finanziamenti da parte delle multinazionali, in complementi dell’era digitale, espandendo i dipartimenti che si occupano di tecnologia, ingegneria ed informatica (i principali corsi di laurea in università come Princeton ed Harvard) mentre, allo stesso tempo, riducono le discipline che riguardano l’arte, la filosofia, l’etica, la storia e la politica. Questi precetti, radicati nella carta stampata, sono gli unici antidoti alla morte culturale.
Lo storico intellettuale Perry Miller nel suo saggio “The Duty of Mind in a Civilization of Machines” [Il dovere della mente in una civiltà di macchine], ci esorta a costruire contrappesi alla tecnologia della comunicazione per “resistere agli effetti paralizzanti sull’intelletto del nichilismo incombente” che caratterizza la nostra epoca. In breve, più spegneremo i nostri schermi e torneremo al mondo della carta stampata, più ricercheremo il potere trasformativo dell’arte e della cultura, più ristabiliremo relazioni autentiche, condotte di persona piuttosto che attraverso uno schermo, più useremo la conoscenza per comprendere ed inserire il mondo che ci circonda nel suo giusto contesto, più saremo in grado di proteggerci dalla distopia digitale.
Chris Hedges
Fonte: truthdig.com
Link: https://www.truthdig.com/articles/worshipping-the-electronic-image/
18.02.2019
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org