GRECIA, UNA LUNGA STORIA DI FALLIMENTI

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Da alcuni giorni, l’emozione sembra

prevalere sulla ragione in alcuni commentatori della crisi greca, soprattutto

dopo le immagini delle manifestazioni violente della notte tra Domenica

e lunedì. E se la Grecia fosse solamente la prefigurazione di quello

che dovevamo aspettarci?

La pozione somministrata a questo paese

è amara e provoca un sacco di sofferenze, è indubitabile.

Ma ci si dimentica troppo velocemente di sottolineare che l’Europa è

solidale con questo paese, una solidarietà che non ha precedenti: le

sono già stati prestati 110 miliardi di euro, 130 miliardi di euro

versati a breve (sono 240 miliardi dei contribuenti europei) e si è

torto il braccio agli obbligazionisti privati per fargli rinunciare

a circa il 70% dei loro titoli di Stato.
Inoltre, una missione europea si è

dotata di 15 miliardi di euro per aiutarli a ricostruire lo Stato sul

posto e per ristabilire la sua economia.

Bisogna tenere a mente che la Grecia

ha beneficiato per trent’anni di un piano Marshall alla decima potenza,

ricevendo circa il 4% del PIL ogni anno in fondi europei. E per dieci

anni ha potuto, grazie all’euro, ottenere prestiti sul mercato a tassi

tedeschi: quindi, Atene ha beneficiato di una prefigurazione degli eurobond.

Per questo, dire che l’Europa stia maltrattando la Grecia è un tantino

esagerato e ingiusto, anche se si possono avere dubbi sull’efficacia

delle misure prefissate.

Non dovremmo dimenticarci di verificare

le responsabilità locali di questo terzo fallimento greco nell’arco

di 120 anni che mostra come non ci sia una soluzione magica per questa

crisi.

Perché, invece di investire il denaro

nella costruzione di un’economia competitiva, la Grecia ha fatto la

scelta di sviluppare a oltranza un modello basato interamente sul consumo,

come suggerisce la sua bilancia commerciale fortemente deficitaria.

La storia ha tramandato a questo paese delle strutture politiche, giuridiche

ed economiche che non hanno molto a che vedere con quelle del resto

dell’Europa occidentale.

Ripubblico oggi l’intervista dello storico Nicolas Bloudanis

che ho già pubblicato il 30 ottobre scorso: ci permette di comprendere

cosa sta accadendo in Grecia. Vi raccomando anche l’intervista del sociologo Constantin Tsoukalas pubblicata

oggi su Libération, che ci fornisce lo sguardo dello storico, e questa analisi (in inglese) dell’economista Aristos Doxiadis.

Lo storico greco Nicolas Bloudanis,

54 anni, che vive a Patmos (l’isola dove fu deportato l’evangelista

Giovanni, dove scrisse l’Apocalisse), ha appena pubblicato “Fallimenti

greci: una fatalità storica?” (edizioni Xérolas). È anche autore

di una “Storia della Grecia moderna, 1828-2010, miti e realtà”

(Xérolas). Propone una visione abrasiva della storia greca moderna,

sbarazzandosi dei suoi cliché nazionalisti, che illumina di nuova luce

la crisi del debito pubblico che minaccia la stabilità dell’eurozona.

Si può

dire che la Grecia sia un paese senza Stato?

C’è uno Stato in Grecia, ma funziona

a intermittenza. Così fu, ad esempio, all’indomani della guerra

civile nel 1950, alla fine della dittatura dei colonnelli nel 1974.

Ma ogni volta che lo stato ha più o meno ben funzionato, si trattava

di un Stato autoritario dove le libertà politiche e civili erano limitate.

Anche senza parlare degli anni della dittatura, ci sono stati alcuni

periodi della storia greca dove lo stato era governato da personalità

molto forte, come Elefthérios Venizélos all’inizio del secolo o Constantin

Caramanlis negli anni ‘50 –‘60. Nella memoria collettiva

greca, lo Stato è uno Stato autoritario di cui conviene diffidare.

La Grecia

è sotto tutela europea. Ora, non

è la prima volta che si ritrova in questa situatione…

Effettivamente, dopo il fallimento

del 1893, la Grecia è stata messa sotto tutela nel 1897 dai suoi

creditori, principalmente la Gran Bretagna, la Francia e la Germania,

e le cosa ebbe un effetto positivo, anche se il 10% della popolazione

dovette emigrare. La tutela dell’epoca che prese la forma di una Commissione

Finanziaria Internazionale (CFI) insediata ad Atene e incaricata di

controllare direttamente il bilancio dello stato, permise di costruire

uno Stato. La situazione finanziaria ed economica migliorò. Le storture

e gli abusi che caratterizzavano la Grecia dell’epoca (tra il 1828 e

il 1892, il 75% del totale dei prestiti venivano pilotati dalla classe

politica) vennero limitati e il paese poté tornare nuovamente a chiedere

prestiti sul mercato per effettuare importanti lavori infrastrutturali

di cui c’era un gran bisogno, visto che l’Impero Ottomano non lasciò

molto alle sue spalle.

Alla fine, poterono emergere una borghesia

moderna e un capitalismo locale, che presero il potere nel 1909 portando

a capo del governo, Elefthérios Venizélos, il dirigente del Partito

Liberale. Una nuova Costituzione permise di sanare la vita politica

e la giustizia, l’amministrazione iniziò a essere purgata dei suoi

elementi corrotti, furono approvate riforme sociali (imposta sui redditi,

riforma agraria, eccetera). La società greca si avviò sulla strada

della modernizzazione.

Ma la guerra contro la Turchia

tranciò di netto questo movimento…

La Grecia voleva terminare la liberazione

dei territori (Macedonia, Epiro, Creta) e delle popolazioni greche ancora

sotto dominio ottomano. Le guerre balcaniche, iniziate nel 1912 e che

finirono col trattato di Londra nel 1913, furono dei successi: il territorio

con le dimensioni triplicate e la popolazione passata da 2,5 a 5 milioni.

La Prima Guerra Mondiale permise di

estendersi anche in Tracia e in Anatolia (nei pressi di Smirne), l’attuale

costa turca. Ma questa “Grande Grecia” svegliò il nazionalismo

turco. Una nuova guerra si concluse con un disastro: il trattato di

Losanna del 1923 segna la perdita di Smirne e della Tracia e 1,2 milioni

di greci che vivono da due millenni in Asia Minore devono trasferirsi

in una Grecia rovinata da dieci anni di guerra. Immaginate lo shock:

1,2 milioni di persone su una popolazione di 5 milioni.

Inoltre, questo afflusso di popolazione

venuta dall’Asia Minore riportò la Grecia alle tradizioni orientali

del secolo precedente: il loro spirito levantino, fatto di abilità,

di compromesso e di finezza, ma anche di passività e di indifferenza

politica, frutti della realtà dell’Impero Ottomano del XIX secolo,

rafforzarono il clientelismo e la corruzione che stavano cominciavano

a smorzarsi.

La classe politica greca acquista

in questo periodo le i tratti che la caratterizzano ancora oggi.

La classe politica cominciò già allora

a preoccuparsi più del mantenimento del potere e dei privilegi che

ne conseguono che dell’interesse dello stato. Acquisì una propria “coscienza

all’epoca dei periodi di dittatura, come quella del generale Métaxas,

nel 1936-1940, o dei colonnelli, tra il 1967 e il 1974: questi regimi

autoritari costituiscono una robusta concorrenza per i politici, soprattutto

per il livello dei privilegi e delle possibilità di arricchimento riservato

ai detentori del potere.

Sia prima della guerra che all’inizio

degli anni ‘70, si sviluppò una convergenza di interessi e una solidarietà

tra fazioni politiche nemiche, e che avevano perso i loro privilegi.

Dopo il ripristino della democrazia

nel 1974, una parte della sinistra greca, fino a quel momento emarginata

a causa della guerra civile (1946 –1949), fu integrata nella “famiglia“.

Con rare eccezioni, questa situazione non è cambiata. Ancora oggi,

mentre si chiedono enormi sacrifici alla popolazione, i deputati e politici

di ogni risma si rifiutano ostinatamente di abbassare i propri stipendi,

ancorché smisurati, o di disfarsi di una virgola dei loro privilegi.

Il secondo fallimento, quello

del 1932, fu dovuta a una certa imperizia dello Stato?

Direi di no. Il periodo 1929-1932 è

stato, economicamente parlando, molto più difficile di quello che viviamo

oggi e numerosi Stati andarono in fallimento, come l’Austria, la Bulgaria,

o anche la Germania. Inoltre la Grecia non poté permettersi di dilapidare

la totalità dei crediti stranieri che aveva ottenuto tra il 1924 e

il 1930, perché per la maggior erano gestiti dalla Società delle Nazioni

e servivano al reinserimento dei 1,2 milioni di profughi del 1922-1923.

In un certo senso, lo stato greco rimase

formalmente sotto tutela: la Commissione Finanziaria Internazionale

creata nel 1897 fu infatti insediata ad Atene sin dal 1936. La situazione

greca difficilmente sarebbe potuta andare diversamente. Alla fine, i

governi greci negoziarono il servizio del debito con i creditori, assicurando

un pagamento tra il 30 ed il 45%. Le procedure di rimborso furono ridefinite

nel 1944-1945 in seguito e si conclusero nel 1969.

Gli americani, all’epoca del

piano Marshall, si scontrarono anche con la “realtà

greca”.

Nel 1947-1949 gli Stati Uniti, come

condizione del loro aiuto finanziario, imposero un risanamento delle

politiche economiche e della situazione sociale del paese. Paul Porter,

che era alla testa della commissione incaricata della valutazione della

situazione greca nel 1947-1948, così descrisse lo stato del paese nel

suo rapporto al Congresso: “Il tenore di vita della popolazione

estremamente basso è il fattore principale della tensione sociale che

caratterizza la Grecia. L’economia si trova a un punto morto, mentre

somme favolose sono inghiottite nelle operazioni finanziarie fraudolente

e per l’importazione di prodotti di lusso. Il governo non ha altra politica

che mendicare senza tregua l’aiuto straniero per mantenere il potere

e preservare gli interessi della cricca di commercianti e di banchieri

[…] decisa a difendere a ogni costo i propri interessi senza preoccuparsi

di ciò che ciò che potrebbe costare al paese.” Evidentemente,

mister Porter era un uomo del New Deal.

La terapia shock che l’Unione

Europea e Fondo Monetario Internazionale stanno infliggendo alla Grecia

da due anni è stata adatta a questo paese?

La struttura economica della Grecia

è largamente statalizzata, l’apparente svantaggio dei paesi dell’Europa

dell’Est dopo il crollo del comunismo all’inizio degli anni ‘90.

Bisognerebbe invece applicare le ricette che si furono utilizzate dalle

vecchie “democrazie popolari” nella fase di transizione,

in particolare privatizzando le imprese pubbliche e riducendo drasticamente

la dimensione della funzione pubblica. Bisogna anche attaccare l’immunità

fiscale di cui godono le libere professioni e la chiesa ortodossa. Caricare

i cittadini di nuove tasse, senza che il sistema fiscale funzioni se

non in modo imperfetto, non serve a granché, se non ad alimentare il

sentimento di ingiustizia sociale di coloro che non possono sfuggire

alle tasse. Non avendo ricevuto una diagnosi corretta, il malato riceve

un trattamento inadatto e il suo stato si aggrava al contrario di ciò

che accade, per esempio, in Irlanda.

L’economia greca non

è quindi un’economia di mercato?

Non è un’economia di mercato

funzionale, anche se esiste in Grecia, accanto al settore pubblico,

un settore privato importante. Il problema è che è formato essenzialmente

di imprese minuscole (tra uno e dieci lavoratori) che vanno dai ristoranti

alla piccola manifattura, passando dagli artigiani. Ci sono anche alcune

grandi imprese private, soprattutto nell’armamento marittimo che, essendo

in contatto con l’economia mondiale, funzionano efficacemente. Ma sono

un’eccezione. Tutto lo resto dell’economia è controllato dallo stato.

Come si

è arrivato a questo punto?

Fino alla fine degli anni ‘70, la

Grecia non era un’eccezione in Europa. Era il regno dell’”economia

mista di mercato“, con lo stato che controllava un gran numero

di imprese, anche in Francia o in Gran Bretagna. All’inizio degli anni

’80 questo modello, a torto o a ragione, è stato messo in discussione

dall’ideologia liberista giunta dai paesi anglosassoni e ciò ha portato

a un reflusso dello stato dal settore economico.

Questo movimento è avvenuto ovunque,

eccetto che in Grecia. Probabilmente perché lo stato greco ha dovuto

sostituire nel corso di tutta la storia moderna le carenze del capitale,

che ha investito raramente sul posto: lo stato ha dovuto creare imprese

o infrastrutture industriali.

Il peggio è che la Grecia, piccolo

stato totalmente dipendente dall’ambiente internazionale, ha navigato

controcorrente statalizzando l’economia anche a partire dal 1981,

con l’arrivo al potere del Pasok (Partito Socialista) di Andréas Papandreu,

il padre dell’attuale Primo ministro. Così, tra il 1981 e il 1985,

furono nazionalizzate almeno 230 imprese. Oggi, lo stato impiega direttamente

o indirettamente il 45% della popolazione attiva. In Francia, ci sono

state certo le nazionalizzazioni del 1982, ma si è privatizzato a partire

dal 1986.

Questa statalizzazione non

è stata un successo…

C’est un insuccesso patente. Le imprese

pubbliche sono poco competitive e innovative: bisogna dire che si affidano

a un personale pletorico molto meglio pagato rispetto al settore privato,

ma largamente incompetente perché assunto secondo criteri politici.

Inoltre, sono quasi cogestite dai sindacati che hanno sempre da dire

la loro dire sulle scelte strategiche, ma senza che i loro rappresentanti

ne abbiano le capacità. Il bilancio della politica economica del Pasok

è catastrofico. I soli punti positivi è stato la riduzione della disoccupazione,

perché lo stato ha creato decine di migliaia di impieghi “fittizi”,

con una sicurezza sociale relativamente avanzata.

Il Partito Socialista ha dunque

una grossa responsabilità per l’aggravamento dei conti pubblici greci?

Andreas Papandreu ha costruito un “socialismo

a credito”. Ma non è il solo responsabile: la destra è statalista

quanto il Pasok. Questo per dire che la crisi del debito pubblico non

risale al 2009, anche se i mercati ci hanno messo del tempo per accorgersi

che ci fosse un problema. La classe politica greca ha sempre confuso

drammaticamente redditi e prestiti. Soprattutto dopo l’adesione della

Grecia all’euro, nel 2002, gli è stato permesso di chiedere in prestito

quasi alle stesse condizioni della Germania.

Sono in pochi ad aver provato a reagire.

Bisogna capire che la classe politica non vuole mettere in discussione

la politica statalista, perché le permette di costituirsi le clientele

politiche. Non si vota ideologia in Grecia, si vota per colui che vi

aiuterà materialmente. Del resto i partiti politici sono strutturati

intorno a grandi famiglie: figlio, nipoti e protetti rimangono fedeli

all’anziano.

Si possono quindi trovare in seno al

Pasok, il partito che ha più governato il paese negli ultimi trenta

anni, persone con sensibilità di estrema destra, ma che restano fedeli

per tradizione familiare. Questo sistema clientelare, che è la base

della società greca, risale al XIX secolo e all’indipendenza.

Nel 2002 la Grecia non sarebbe

dovuta entrare nella zona euro?

Obiettivamente, no. Ma nel 2001, la

Germania e la Francia, che volevano il maggior numero di paesi possibile,

fecero pressione sulla Commissione. Si pensò che l’adesione

avrebbe potuto fare del bene alla Grecia: fino al 2005 era ancora

possibile raddrizzare la situazione. Ma il governo di destra di Costas

Caramanlis junior (nipote di Constantin Caramanlis), eletto nel 2004,

non fece niente di spiacevole per la sua clientela: nessuna privatizzazione,

nessuna riduzione della funzione pubblica, nessuna riforma dello stato.

E quando il Pasok è tornato al

potere nell’ottobre 2009, era troppo tardi: la situazione di bilancio

era già fuori dal controllo. Oggi, l’appartenenza della Grecia

all’eurozona è un fatto: la tutela federale che subisce, conseguenza

diretta della sua scelta per l’Europa, potrebbe essere positiva. È

obbligatorio costruire uno Stato di diritto, un’economia di mercato

degna di questo nome e porre fine alle illusioni della cosiddetta “realtà

greca” che ha scusato ogni genere di deriva.

**********************************************

Fonte: La Grèce, une longue histoire de faillites

13.02.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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