Virus killer, Coagulazione Intravascolare Disseminata, Tempesta delle Citochine: qual è la causa dei decessi?

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DI PIERO RIVOIRA

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Il tema trattato in questo articolo è decisamente ostico, e per affrontarlo con il necessario rigore scientifico ho dovuto soffermarmi su diversi aspetti tecnici, probabilmente più di quanto il lettore medio di CdC, che ha maggiori competenze in campo economico-politico e storico-sociale, gradirebbe. Me ne scuso anticipatamente. Tuttavia, trattandosi della nostra vita e della nostra salute, forse vale la pena fare uno sforzo aggiuntivo, anche per non prendere per oro colato tutto ciò che medici, virologi e altri «scienziati» ci raccontano.

Una settimana dopo esser risultato positivo al test del Covid-19, Joshua Fiske salì in macchina e, con quasi 40 di febbre, guidò fino all’ospedale del New Jersey. L’esame del sangue rivelò livelli di ossigeno estremamente bassi per un atleta di 47 anni, mentre la radiografia toracica segni inequivocabili di polmonite bilaterale, o almeno così sembrava. Le sue condizioni peggiorarono rapidamente. Temendo di non farcela, chiamò la moglie per dirle che l’amava, e i suoi due figli per chiedere loro di prendersi cura di lei.

Joshua se l’è cavata, non così il trentaquattrenne Emanuele Renzi. Ricoverato d’urgenza al policlinico Tor Vergata di Roma dopo sei giorni di febbre, quando giunse in ospedale era già gravissimo.

Il protocollo terapeutico standard prevede la somministrazione di clorochina, un antimalarico (e antiinfiammatorio) noto fin dal 1934 in grado di inibire sia la replicazione di flavivirus (es. il virus che causa l’encefalite da zecche: state attenti se vi dovesse capitare di fare una passeggiata nella taiga siberiana), retrovirus (come l’HIV) e coronavirus sia la sintesi dell’interleuchina 6, una citochina che svolge svariate funzioni tra cui quella di mediatore della febbre.

Una zecca di mammifero (Ixodes ricinus): questo aracnide ematofago che assomiglia ad un mostro alieno, può trasmettere un virus che provoca encefalite.

Alla clorochina viene associata la azitromicina, un antibiotico macrolide di seconda generazione, in base ai risultati di una ricerca condotta su pazienti francesi positivi al test per il Covid-19, sei dei quali erano asintomatici, 22 avevano sintomi di infezione alle vie respiratorie superiori e otto a quelle inferiori: venti casi furono trattati in questo studio e mostrarono una significativa riduzione del carico virale rispetto ai controlli (non trattati), e furono portatori del virus per molto meno tempo rispetto ai casi di pazienti non trattati riportati in letteratura. L’azitromicina aggiunta all’idrossiclorochina si è rivelata significativamente più efficace per l’eliminazione del virus. In effetti, le proprietà antivirali dell’azitromicina erano già emerse da alcuni anni, così come la sua azione antinfiammatoria: come gli altri macrolidi, essa inibisce le interleuchine 6 ed 8 riducendo l’afflusso dei neutrofili (un tipo di globuli bianchi) verso la sede dell’infezione.

L’arsenale farmacologico dei medici comprende anche diversi farmaci antivirali, come il Remdesivir, sviluppato come trattamento per la malattia da virus Ebola e da virus Marburg da Gilead Sciences, una ditta farmaceutica nota ai lettori di questo sito per lo scandalo del farmaco chemioterapico Truvada, approvato per la profilassi dell’AIDS dalla Food & Drug Administration americana nonostante i gravi effetti collaterali che può provocare, grazie alla manipolazione dei dati dei test clinici da parte della stessa Gilead, con la complicità del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, diretto dal controverso dr Anthony Fauci.

Il Center for Disease Control and Prevention, invece, raccomanda soltanto l’utilizzo del Remdesivir e di idrossiclorochina (o clorochina).

Niente paracetamolo (tachipirina).

E se hai la febbre, come il 98% di un campione di 41 pazienti, ricoverati con tosse secca e altri sintomi comuni in caso di influenza presso un ospedale appositamente predisposto della città cinese di Wuhan a partire dal 31 dicembre 2019, di cui 20 di età compresa fra 25 e 49 anni e 14 tra 50 e 64 anni?

Distribuzione per classi di età di un campione di pazienti positivi al test del Covid-19 e ricoverati in un ospedale della città cinese di Wuhan nei primi giorni dell’anno.

Te la tieni. Almeno fino a quando arrivi in ospedale, anche dopo 5 o 6 giorni.

Infatti, secondo i medici di Medicina di Segnale: «Oggi che pare chiaro e assodato che il decesso avvenga a causa di una forte coagulazione intravascolare molte vite possono essere salvate con l’uso della semplice eparina. Ma non basta: servono anche attenzioni specifiche a seconda del timing della malattia: ai primi sintomi, ai primi aggravamenti, o in fase procoagulativa. In particolare a noi medici di segnale risulta difficile comprendere l’uso massivo di paracetamolo o di altri antipiretici una volta acclarato che la febbre è un potente antivirale per l’organismo.»

Cosa succede, nel tuo corpo, durante tutti quei giorni di febbre? Si scatena la «tempesta delle citochine». Come scrive il Dr. Antonio Marfella, Presidente dell’associazione Medici per l’Ambiente – sezione di Napoli: «… sono indispensabili interventi terapeutici efficaci per il Covid-19 entro e non oltre tre giorni non dal tampone positivo ma dalla insorgenza dei sintomi. Leggere che, come si riporta in Campania, la somministrazione concreta di farmaci antitempesta di citochine come la idrossiclorochina possa avvenire, per meri motivi burocratici, solo entro un lasso di tempo di tempo non inferiore ai 5-7 giorni dalla richiesta significa certificare di non usare correttamente questo tipo di farmaci, utili per prevenire, non per curare la mortale tempesta infiammatoria!».

Ah, quindi la polmonite interstiziale, il virus killer che distrugge il tessuto polmonare imponendo il ricorso alla ventilazione assistita, che fine hanno fatto? Andiamo con ordine, cercando innanzitutto di capire qualcosa di più su queste citochine.

Tanto per cominciare, la febbre aumenta il consumo di ossigeno del 13% per ogni grado al di sopra dei 36°C: se tale aumento è lineare, con 40° di febbre le cellule dei vari tessuti consumano oltre il 50% di ossigeno in più rispetto alla norma. I livelli di O2 nel sangue, già diminuiti dall’eventuale danno polmonare in corso, si riducono, così, ulteriormente, e il paziente ha «fame d’aria» (il 55% dei pazienti di Wuhan manifestò dispnea).

L’incremento della produzione di calore (che è una forma di energia) avviene attraverso la respirazione, il processo attraverso il quale i combustibili organici (zuccheri e grassi soprattutto) vengono ossidati nei mitocondri (reagendo con l’ossigeno, appunto, che viene ridotto ad acqua) per liberare energia dalla rottura dei legami covalenti carbonio-idrogeno delle stesse bio-molecole, con liberazione di CO2.

L’organismo animale (Homo sapiens è un animale, checché ne dicano i preti) è tutt’altro che indifeso dagli attacchi di virus e altri agenti patogeni: dal momento che questi ultimi esistono da sempre, esso ha sviluppato, nel corso di milioni di anni di evoluzione, armi potentissime, che formano uno scudo protettivo detto flogosi o processo infiammatorio. Quando viene rilevata la presenza di un nemico, i macrofagi sintetizzano alcune citochine, proteine specializzate che possono modificare il comportamento della stessa cellula che le ha prodotte o di cellule adiacenti, in particolare le interleuchine 1 e 6 (IL-1 e IL-6) e il fattore di necrosi tumorale (TNF-α), le quali, attraverso un meccanismo che prevede la sintesi della prostaglandina E2 dall’acido arachidonico da parte di cellule endoteliali (cellule che formano la parete dei capillari) di vasi che irrorano l’ipotalamo, fanno sì che i neuroni termoregolatori di questa parte del cervello regolino la temperatura corporea su valori più alti della norma.

La febbre stimola la produzione di interferone, una proteina che blocca la replicazione virale.

Quindi, se, in questo periodo di «pandemia», stai male e hai la febbre, e il tuo medico di famiglia, uniformandosi alle linee guida ufficiali, ti sconsiglia (per telefono) di prendere la tachipirina («così il suo corpo combatte meglio il virus, tanto lei è giovane») tu, avendo seguito il suo consiglio, dopo 5 o 6 giorni finisci in terapia intensiva.

Qualcosa non ha funzionato. Da più di mezzo secolo si sa che alcune infezioni virali possono essere accompagnate da disturbi della coagulazione del sangue.

In particolare, le citochine IL-1, IL-6, IL-12 ed il TNF-α aumentano la produzione del fattore von Willebrand, che attiva le piastrine le quali, a loro volta, aumentano la sintesi del fattore tissutale che determina la formazione della trombina dal suo precursore protrombina: la trombina fa coagulare il sangue. Le infezioni delle vie respiratorie inferiori (trachea, bronchi e polmoni) aumentano il rischio di trombosi venosa profonda e, forse, di embolia polmonare (ostruzione di una vena polmonare).
La coagulazione intravascolare disseminata e la microembolia polmonare sono complicazioni possibili dell’influenza di tipo A; inoltre, durante la recente epidemia di influenza suina da virus H1N1 furono osservati disturbi della coagulazione del sangue sia di tipo emorragico sia di tipo trombotico.
Quindi, se sia i sintomi principali (febbre, tosse secca e dolori muscolari) sia le complicazioni da Covid-19 non si differenziano molto da quelle dell’influenza, cos’hanno di così diverso il Covid-19 e il virus influenzale che ad ogni inverno circola nella popolazione umana, a parte il fatto che il primo appartenga alla famiglia Coronaviridae e il secondo alla famiglia Orthomyxoviridae?

Il paracetamolo (tachipirina) non ha una vera e propria azione antinfiammatoria ma inibisce soltanto la ciclossigenasi (l’enzima che catalizza la sintesi delle prostaglandine) nel cervello, impedendo, quindi, il rialzo termico.

In topi di laboratorio infettati sperimentalmente con virus influenzale di tipo A, le cellule infiammatorie migrano negli alveoli polmonari (microscopici sacchetti in cui si raccoglie l’aria inspirata e avvengono gli scambi di gas respiratori con il sangue) e nei bronchioli, occludendo questi passaggi per l’aria che non riesce più a circolare nei polmoni.

(Se la stessa cosa si verificasse nei pazienti colpiti da Covid-19, si potrebbe spiegare l’inefficacia che la ventilazione assistita ha avuto in molti casi).

La somministrazione di paracetamolo ridusse significativamente l’infiltrazione cellulare nei polmoni al 4°, 7° ed al 10° giorno post infezione. Attraverso l’analisi del liquido ottenuto dal lavaggio bronchiolo-alveolare di topi trattati con paracetamolo, fu possibile constatare che il numero dei granulociti neutrofili ed eosinofili, dei monociti (cellule precursori dei macrofagi) e delle cellule natural killer (NK) era significativamente minore rispetto a quello dei topi di controllo non trattati.
Anche la funzionalità respiratoria, valutata attraverso la pletismografia, una tecnica che misura le variazioni della pressione dell’aria dovute all’inspirazione e all’espirazione, migliorò in seguito al trattamento con il farmaco.

Poiché il paracetamolo riduce la risposta infiammatoria al virus influenzale, ci si sarebbe potuta aspettare un’eliminazione più lenta del virus da parte degli animali trattati rispetto a quelli non trattati: invece, non fu possibile rilevare alcuna significativa differenza.

Carico virale polmonare durante l’infezione sperimentale acuta in topi di laboratorio, determinato ai giorni 4°, 7° e 10° post-infezione attraverso l’estrazione e l’omogeneizzazione dei polmoni (dopo aver soppresso gli animali).

PR8: ceppo virale influenzale di tipo A ricombinante;
Naive: animali non infettati (controllo).

Una riduzione della risposta immunitaria innata al virus in seguito al trattamento con il paracetamolo potrebbe, tuttavia, compromettere le difese antivirali dell’organismo (mediate dall’interferone). Per verificarlo, i ricercatori misurarono il numero dei linfociti T citotossici che producono l’interferone gamma (IFN-γ) e il fattore di necrosi tumorale (TNF-α) nei polmoni al 10° giorno post-infezione: anche in questo caso, nessuna differenza significativa fra animali trattati e non.

Il paracetamolo, quindi, sembrerebbe svolgere un ruolo protettivo: riducendo la patologia polmonare, contribuisce a conservare la funzione dei polmoni. Nei polmoni delle persone colpite dall’influenza stagionale di tipo A, il rilascio di citochine e la presenza massiccia di cellule infiammatorie compromettono tale funzione. La stessa cosa si verificò durante la pandemia di influenza da virus H1N1 di tipo A, quando in molti pazienti giovani la gravità delle lesioni polmonari rese difficile mantenere un’adeguata ossigenazione del corpo: l’autopsia rivelò la presenza di infiltrato cellulare e un diffuso danno alveolare.

Quindi il paracetamolo, mediante l’inibizione della ciclossigenasi 2 (COX-2) e la conseguente attenuazione della risposta pro-infiammatoria, potrebbe proteggere i pazienti colpiti da forme gravi di influenza. Il ruolo svolto in tal senso dall’enzima COX-2 (inibito dal farmaco) è stato confermato in esperimenti di infezione sperimentale con il virus H5N1, agente eziologico dell’influenza aviare di tipo A – la cui letalità si avvicina al 30% ma non è trasmissibile da uomo a uomo – che presenta un quadro clinico ed isto-patologico molto simile a quello descritto. Il tutto senza impedire l’eliminazione del virus da parte dell’organismo né compromettere lo sviluppo di un’immunità specifica (anticorpale) nei topi.
Naturalmente, non è scontato che ciò valga anche per la specie umana, ma escludere a priori il ricorso ad un farmaco poco costoso, ampiamente disponibile e che, avendo come bersaglio non il virus ma la risposta immunitaria al virus stesso, potrebbe rivelarsi utile anche in caso di infezioni da altre specie virali, è un atteggiamento contrario ai principi della scienza che sembra riflettere una concezione ottocentesca, pre-darwiniana della biologia, secondo la quale il nostro organismo, essendo il prodotto di milioni di anni di evoluzione naturale, sarebbe una «macchina perfetta», i cui meccanismi di difesa dagli agenti patogeni non dovrebbero, quindi, essere ostacolati o contrastati dalla terapia medica. Come si spiega, allora, l’esistenza delle allergie, dello shock anafilattico e delle malattie autoimmuni?

Innanzitutto, l’organismo animale non è una macchina, dal momento che non è la realizzazione di un progetto, ed è tutt’altro che perfetto, proprio perché è il risultato dell’evoluzione naturale, che non è un continuo miglioramento teso teleologicamente al raggiungimento della perfezione ma è un processo di cambiamento, tuttora in atto, indotto da mutazioni genetiche casuali ed imprevedibili.

Siamo tutti mutanti, che ci piaccia o no: è la storia delle mutazioni che si sono verificate nei nostri antenati che ci rende unici, e diversi da tutti gli altri. Allora, che senso ha applicare lo stesso protocollo terapeutico a tutti, indistintamente, senza tener conto delle differenze di età, stile di vita, storia clinica (la cosiddetta «anamnesi»), ambiente? Certo che se si aspetta che la situazione precipiti prima di intervenire, se quando i pazienti arrivano in ospedale il loro quadro clinico è già gravemente compromesso dalle lesioni polmonari, che cosa può fare un medico se non applicare il protocollo standard?

Adesso vi racconto una cosa che magari non c’entra però può essere interessante. Nel maggio dell’anno scorso mi presi una strana influenza, con febbre, forte mal di testa e malessere generale. Dico strana perché io non ho mai la febbre, sebbene, anche per il lavoro che svolgo, che mi porta ad essere a contatto con gli studenti, tutti gli anni, invariabilmente, mi becco una qualche forma influenzale, ma sempre senza febbre. Il mio medico di famiglia, che si chiama Sara ed è una giovane professionista molto in gamba, mi prescrisse una terapia a base di azitromicina per sei giorni, ma alla sera del primo continuavo a stare malissimo: la cefalea non passava e la febbre, pur non essendo alta, non scendeva. Sapete cosa feci? Presi la tachipirina, ma non una compressa o due, una scatola intera: una compressa da 500 mg ogni sei ore per cinque giorni (non avevo ancora letto l’articolo che dimostra la sua efficacia nei topi). Risultato: dopo cinque giorni ero guarito. Non avendo catarro, si trattava probabilmente di un’infezione virale.

Forse andrebbe rivalutato il ruolo del medico di famiglia che, a differenza degli specialisti e dei medici ospedalieri, conosce i propri assistiti e ha una visione d’insieme che questi ultimi non possono avere.
Molti medici non prescrivono il paracetamolo per non compromettere la linea di difesa antivirale innata che l’interferone rappresenta; ma se quest’ultimo svolge un ruolo così decisivo, perché consigliare il ricorso ad un farmaco antivirale costoso e difficilmente reperibile se non in ospedale come il Remdesivir, per giunta prodotto da una ditta, la Gilead, dai trascorsi tutt’altro che adamantini, tenendo conto del fatto che anche l’azitromicina ha un’importante azione antivirale, oltre a proteggere i pazienti dalle infezioni secondarie grazie al suo ampio spettro di azione antibatterica?

Può darsi che il Remdesivir e l’azitromicina abbiano un’azione sinergica o che siano entrambi utili, ma ciò andrebbe provato con una rigorosa sperimentazione clinica, possibilmente condotta sui topi e non sugli ignari pazienti.

Sta di fatto che Joshua ha rischiato di morire e Emanuele se n’è andato: i suoi parenti e amici, così come quelli di tante altre vittime che magari non erano giovanissime ma che comunque non avevano altre patologie pregresse, hanno il diritto di ottenere delle risposte.

Nell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia, si legge:

«Al 20 aprile sono 238 dei 21.551 (1,1%) pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 54 di questi avevano meno di 40 anni (34 uomini e 20 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 6 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche, gli altri 38 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 10 non avevano diagnosticate patologie di rilievo». Sulla base delle informazioni disponibili, sembra che la causa di almeno una parte dei decessi sia ascrivibile alla cosiddetta tempesta delle citochine, una «reazione a catena che coinvolge le citochine e i globuli bianchi, in cui i livelli delle varie citochine sono estremamente elevati… tuttora oggetto di studi e discussione, in merito alla gestione dell’attuale emergenza epidemiologica, nota come pandemia di Covid-19 del 2019-2020

Sebbene test clinici del remdesivir su pazienti con una sintomatologia più o meno grave da Covid-19 siano tuttora in corso, i risultati di un test condotto in Cina sembrerebbero sollevare dubbi sull’efficacia antivirale del farmaco, dal momento che i pazienti ai quali è stato somministrato il remdesivir non ne hanno tratto alcun beneficio (tasso di mortalità del 13.9% nei pazienti trattati con il remdesivir rispetto al 12.8% in quelli non trattati).

Questi dati sono stati pubblicati sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e i giornalisti della testata STAT hanno fatto in tempo a leggerli prima che venissero rimossi.

risultati preliminari di uno studio del National Institute of Health (NIH) lascerebbero ben sperare per quanto riguarda l’efficacia del remdesivir: i pazienti trattati con il farmaco sono guariti in 11 giorni, mentre quelli ai quali è stato somministrato un placebo avrebbero impiegato quattro giorni in più per riprendersi. Il tasso di mortalità del primo gruppo è stato dell’8%, rispetto all’11,6% del secondo gruppo (una differenza non statisticamente significativa).

 

Piero Rivoira

27.04.2020

Insegnante di Produzioni Animali (Istituto Tecnico Agrario di Asti) dal 2001, mi interesso di questioni ambientali fin dai tempi del liceo e dell’università quando, come attivista del WWF, raccoglievo fondi per salvare le foreste o tappezzavo ogni spazio disponibile nella mia provincia di Cuneo di locandine contro la caccia e i pesticidi, durante la campagna referendaria del 1990. Spinto da un’innata curiosità, non mi accontento di spiegazioni semplici a fenomeni complessi ma cerco di indagarne e comprenderne le cause remote cercando legami, interrelazioni fra fatti solo apparentemente non legati fra loro.

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