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La Redazione

 

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Unità d’Italia. Non ha senso festeggiare quello che non c’é

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A cura di Redazione CDC
Il 17 Marzo 2021
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di Franco Marino
ildetonatore.it

Si può amare felicemente quello che c’è: è la fortuna di ogni innamorato che sa di essere ricambiato nel suo sentimento. Si può amare disperatamente ciò che non c’è più: è la disgrazia del vedovo che ha perso il suo coniuge, del separato che si vede abbandonato da una persona che ama ancora ma che non lo vuole più, dell’orfano che non ha più i genitori o peggio ancora di quei genitori che hanno la suprema sventura di perdere i propri figli.
E si può anche amare perdutamente quello che un giorno si spera che ci sarà. Perchè si persegue un ideale ben al di là dal materializzarsi. E non è un’ipotesi fantascientifica, fu ciò che ispirò il romanticismo, di cui il risorgimento e l’idealismo furono costole.
Così mi ritrovo ad amare disperatamente un padre e una madre che non sono più su questa terra e perdutamente qualcosa che non c’è ancora, che è il mio paese. Questo però non mi permette nè di fare – se non idealmente – gli auguri ai miei genitori, dato che non compiono un bel niente, dal momento che “riposano in pace” nè di unirmi alle celebrazioni di qualcosa che semplicemente non c’è, non esiste, se non nella consueta retorica patriottarda nutrita da gente di cui si scorge chiaramente l’assenza di qualsivoglia sentimento patriottico.

Il 17 Marzo del 1861 abbiamo assistito semplicemente ad una creazione massonica, sotto il protettorato inglese, avvenuta – ed è questo il vero scandalo – nel sangue del Regno delle Due Sicilie. Io sono di Napoli, la capitale di quel regno e, nato ben centoventi anni dopo, quasi me ne stupisco. Ma ai tempi del Regno delle Due Sicilie, il Meridione era l’emblema della modernità sotto ogni aspetto. Il PIL del Regno era IL PIU’ ALTO in Europa e il debito pubblico era il più basso.
Il Risorgimento, celebrato come momento di grande gloria, non fu niente di glorioso. I famigerati Mille di Garibaldi – in realtà protetti dalla potente flotta inglese che, al largo del Mar Tirreno aspettava soltanto un momento di difficoltà per attaccare l’esercito borbonico – non ce l’avrebbero viceversa mai fatta a prevalere.
Non solo.
Le mafie e le camorre contro cui oggi, ma solo nelle giaculatorie mediatiche, crediamo di lottare, nascono create dagli inglesi – per poi, alla fine della seconda guerra mondiale venire prese in carico dagli americani – come strumento di controllo politico. Lo stesso fascismo prese il potere con una fantomatica rivoluzione meglio nota come marcia su Roma, avvenuta nel consenso generale dei Carabinieri e del Re, che ben sapevano cosa Mussolini stesse progettando e a cui lasciarono margini di manovra, anche perchè quell’ascesa era fondamentale per impedire che l’Italia finisse sotto il controllo dell’URSS.
In sintesi, l’Italia come noi la conosciamo è SEMPRE stata un protettorato di potenze straniere e dunque un non-stato.

Le nubi che si addensano sul futuro dell’Italia mi rattristano come la previsione di un lutto.
E sono sopraffatto dal rimpianto per ciò che la mia Patria potrebbe essere e non è.
Se almeno fossimo un popolo di sciocchi, di idealisti, di incapaci, me ne farei una ragione. Invece gli italiani, presi individualmente, sono prodotti pregiati. Non più dal punto di vista culturale, dati i mirabili risultati conseguiti dalla “scuola sessantottina”, ma dal punto di vista dell’intelligenza applicata, del “pensiero laterale”, della mancanza di pregiudizi. In questo ambito sono spesso eccezionali.
Il popolo italiano somiglia ad un cesto nel quale si ammonticchino anelli d’oro, capolavori letterari, smeraldi, orologi da polso, miniature, banconote e cristalli veneziani, per alla fine accorgersi che è pieno di patate.
Le nostre qualità sono così evidenti che non val la pena di illustrarle. Soprattutto pensando che spesso si manifestano superando condizioni avverse. Il mistero da chiarire è quello del contrasto fra i nostri meriti individuali e i nostri immensi difetti in quanto collettività.
Premetto che i paragoni non possono essere fatti con Stati piccoli e privi di un grande passato. Nell’epoca attuale (e per questo non menziono l’Austria) l’Italia, per la sua storia e per le sue dimensioni, in Europa si può mettere a confronto soltanto con Spagna, Francia, Germania e Inghilterra. Tre su quattro di questi Stati, diversamente da noi, sono stati a lungo monarchie unitarie. Due cattolici e due protestanti, anche se la Germania non interamente e l’Inghilterra a modo suo. Infine tutti e quattro, dai tempi dell’Impero Romano, hanno avuto sempre più importanza, mentre l’Italia ne ha avuta sempre meno, fino all’insignificanza.
Il fatto di essere stata a lungo un Paese suddiviso in piccoli Stati, nessuno in grado di pesare seriamente in Europa, ha seminato nell’anima di noi italiani il DNA dell’orticello, dell’invidia, della dipendenza e infine della sconfitta. È triste doverlo dire, ma gli inglesi o i francesi trattengono a stento un sorriso, se gli si parla dell’esercito italiano. Se noi italiani siamo lungi dal sentirci dei guerrieri è perché la nostra storia è piena di sconfitte. O di vittorie mutilate. Si può celebrare quanto si vuole la vittoria della Prima Guerra Mondiale, che si concluse anche grazie al “gol della vittoria” da noi realizzato a Vittorio Veneto. Ma un paese davvero forte non avrebbe permesso che ci rubassero ciò che avevamo pattuito. Così come non avrebbe dovuto pagare la sua indipendenza cedendo territori alla Francia.
Storicamente, non abbiamo fiducia nei nostri capi. I francesi battevano immense coalizioni perché avevano una totale fiducia in Napoleone; i nostri soldati invece, poco considerati, male armati e spendibili anche senza scopo, sono morti come gli altri, con in più il rischio di essere irrisi. Si pensi alla campagna dell’Africa Settentrionale, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il risultato è che dal punto di vista del peso internazionale sentiamo di non contare nulla e le esperienze, dal Risorgimento in poi, hanno soltanto confermato il peggio che pensiamo di noi.

Ma gli italiani, più ancora di sé stessi, disprezzano i loro governanti. Costoro non hanno mai avuto la statura dei grandi sovrani e sono stati troppo spesso pronti ad azzuffarsi fra loro. Magari chiamando poi in soccorso le potenze straniere, come se non fosse ovvio che alla fine ci avrebbe perso l’Italia. Accadde nelle guerre d’indipendenza e accadde nella fantomatica Liberazione: dove siamo passati da un padrone con l’accento austriaco ad un CDA di padroni misconosciuti, con l’accento americano e con ascendenze ebraiche.
Per l’italiano medio lo Stato è un’entità, se non nociva, senza importanza. Chi lo governa pensa innanzi tutto agli interessi della propria conventicola, quando non al suo proprio. Ecco perché il cittadino non sente nessun obbligo di lealtà, nei suoi confronti.
Persino l’evasione fiscale è considerata una forma di legittima difesa. E da noi l’individuo è in lotta contro l’intera collettività perchè lo Stato non è né stimato né amato. È soltanto un concorrente avido e sleale da cui guardarsi. A Napoli, dove il governo è stato assente come protettore, e presente come esattore, si è visto con favore Cutolo perchè perlomeno “era uno di noi”.

Al livello morale della nazione non è stata utile nemmeno la religione. Mentre nel Nord il Protestantesimo ridava vita all’etica del cittadino in quanto membro di una comunità (fino agli eccessi calvinisti della Svizzera) in Italia la Chiesa è rimasta ricca, ipocrita, perfino simoniaca. Il Papa somigliava troppo agli altri sovrani, a volte persino in peggio. Così si sono aumentate le differenze rispetto agli altri popoli. Il cittadino è rimasto credente, soltanto per salvarsi l’anima; ma non raramente ha accoppiato alla religione un acido anticlericalismo. Magari il parroco era una persona per bene, ma il cardinale? Uno che non si vergognava di autodefinirsi “principe della Chiesa”, confessando la sua natura di ambizioso, che esempio costituiva?

Come cittadini gli italiani si sono sempre sentiti orfani. Ottenuta la democrazia, hanno avuto dei governanti che provenivano dal popolo, per subito scoprire che ne avevano i vizi, non le qualità. A cominciare dal disinteresse per il bene comune.
I politici, sapendo di essere a priori considerati immorali e non potendo contare su nessun ideale – e perdipiù minacciati continuamente dalla magistratura dinnanzi ai minimi rigurgiti di autonomia individuale – cercano di conquistare il consenso promettendo vantaggi materiali e appena possono distribuiscono posti di lavoro fasulli (ma pagati con soldi veri), inventando sussidi e regalie, a costo di fare debiti, coltivando l’idea che si possa vivere a spese dello Stato. Persino la Costituzione ha fatto credere che si possa avere “diritto alla casa” e il “diritto al lavoro”, come se uno stato potesse creare dal niente, senza fatica, quello che non c’è. Il fatto che poi lo Stato deluda questi sogni non lo rende certo più amato, anzi la seducente promessa da esso non mantenuta, provoca la delusione che costituisce poi il terreno su cui prolifera il consenso della criminalità organizzata.

Le case degli italiani sono pulitissime e ben arredate nonchè non raramente eleganti (lontana eredità del Rinascimento) ma le strade italiane sono sporche e piene di buche.
Gli italiani considerano la spesa per la difesa inutile perché, pensano, se c’è una guerra, o ci difende un possente alleato o noi la perdiamo. La scuola va male, ma a loro non serve perchè in un sistema dove si entra ufficialmente per concorso e ufficiosamente per cooptazione, una laurea – presa non importa come – serve solo a trovare un posto di lavoro.
Soltanto i più forti psicologicamente si avventurano nella libera impresa ma sanno di avere tutti contro. Lo Stato li considera come nemici o, ad andar bene, come vacche da mungere. La vita pubblica è di livello talmente basso che i politici cercano di avere successo coltivando i peggiori pregiudizi degli italiani. A partire dall’assioma che chiunque sia ricco è tale perché ha saputo rubare, imbrogliare, intrallazzare meglio degli altri. Tanto che fu Montanelli a dire che quando un italiano vede un altro italiano con una Ferrari, non pensa a come procurarsene una a sua volta ma a come bucargli le gomme. Favorito in questa mentalità perversa dalla Chiesa ha mai contraddetto queste idee, dato che nel Vangelo si sostiene che il ricco è uno che preferisce la propria corruzione alla salvezza dell’anima. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri in Paradiso.
Il nostro stato disprezza il merito e coltiva l’invidia. L’imprenditore nella morale comune dovrebbe lavorare venti ore al giorno ma soltanto per creare posti di lavoro e guadagnare quanto i suoi operai. Se invece diviene ricco, è segno che ha rubato ed ha evaso le tasse. Cosa, quest’ultima, in buona parte vera, anche perché lo Stato pone spesso l’imprenditore dinanzi all’alternativa di imbrogliare o fallire.

In sintesi, LA NAZIONE ITALIANA ESISTE ed è una delle più antiche d’Europa.
E’ una nazione molto eterogenea sicuramente, ma l’italiano era la lingua parlata in quasi tutte quelle che erano le entità politiche prodromiche alla nostra attuale Italia. Esiste un’arte espressione dell’italianità, una cultura italiana e tante cose che attestano la reale unità del nostro paese.
Ma una vera unità, di un paese davvero sovrano, ancora non è stata realizzata. L’Italia come noi la conosciamo, come noi la amiamo, libera, indipendente, sovrana, ancora deve nascere.
Il vero patriota italiano è come l’ebreo che, prima del 1948, aspettava la nascita di una nazione che ancora non c’era.
Non scrissi nulla sui 150 anni dell’Unità d’Italia perchè non c’era nulla da festeggiare. E non perchè non ne valesse la pena.
Semplicemente sarebbe sciocco festeggiare qualcosa che non è ancora nato.
Franco Marino

FONTE: https://www.ildetonatore.it/2021/03/17/unita-ditalia-non-ha-senso-festeggiare-quello-che-non-ce-di-franco-marino/
Pubblicato da Tommesh per Comedonchisciotte.org

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