Mi presento: lavoro da qualche tempo nel sociale cercando di portare come posso il mio contributo per alleviare le enormi difficoltà delle famiglie che affrontano il problema dell’autismo ad alto funzionamento. Cioè un aspetto particolare dell’autismo, meno appariscente di quello conosciuto dalla maggior parte del pubblico, ma proprio per questo vissuto in modo drammatico, sia perché chi lo subisce rimane cosciente delle proprie difficoltà, sia perché chi è attorno a lui non appare in grado di aiutarlo o anche solo di comprenderlo.
Mentre combatto, come uno dei tanti don Chisciotte, a volte mi sento come fossi intrappolato in un perverso gioco di specchi, per cui le persone con autismo mi paiono meno autistiche della società che le accoglie.Prendiamo ad esempio le famiglie che vivono sulla loro pelle la difficoltà: le diagnosi sono in aumento e stanno migliorando, perché i medici dopo anni di lotte dal basso, stanno diventando più bravini a capire il fenomeno, per sua natura molto complesso. Quindi? Beh, il problema è che nella maggior parte dei casi dopo la diagnosi non c’è niente. Se poi c’è qualcosa è al massimo per i bambini, si tratta di un intervento che forse migliora la situazione (difficile dimostrarlo) comunque non “guarisce” e peggio ancora lascia la famiglia (spesso nel tempo ridotta a un solo componente che decide di prendersi cura del disabile) ad affrontare il vuoto che segue nell’età adulta, con conseguenze che non di rado si prospettano spaventose.
Ogni giorno nelle associazioni per cui opero si riversano casi disperati, di genitori che arrivano a noi con la diagnosi in mano per sapere cosa possono fare, come possono affrontare questo titanico compito piovutogli in testa dall’oggi al domani di una “disabilità inguaribile”, portando domande dure come: sarà mai capace questa persona di provvedere a se stessa? Che futuro potrà mai avere in questa società sempre più violenta, bulla, furba e competitiva?
Ecco, a questo punto dato che ci troviamo tra privati che hanno di loro iniziativa deciso di affrontare la questione non solo dentro le mura di casa ma cercando di creare una rete di solidarietà, ci si attende che naturalmente queste famiglie comprendano il valore dell’iniziativa e inizino a partecipare, a espandere e rafforzare la rete di solidarietà così faticosamente messa in piedi.
Invece no.
Ed è questo che più di ogni altra cosa mi spaventa: se nemmeno queste persone riescono a comprendere, se nemmeno loro che hanno una motivazione comune così forte come l’amore che li lega ai loro cari può formare un idea minima di convivenza umana e di condivisione sociale, se nemmeno condizioni di sofferenza così estreme riescono a far scattare un istinto di banale sopravvivenza da branco, da che parte dovrebbe arrivare la rivoluzione? Chi mai potrà evitare il disastro dello sfruttamento più bieco, infimo e basso che una piccola parte di umanità ha in agenda per il resto dei propri simili?
Forse il mio è un punto di vista non corretto. Forse il fatto che queste persone non aderiscano a un principio sociale di mutuo aiuto condiviso è dovuto in realtà proprio alla loro condizione, tanto disperata da non consentire di avere risorse mentali da spendere per altro. Forse. Tuttavia dentro di me una vocina mi suggerisce che se mi trovassi negli anni ’50 nemmeno starei qui a lagnarmi. Qualcosa mi suggerisce che non dovrei nemmeno pensarci: chi è uscito dalla guerra era pieno di pitocchi e di problemi e non faticava certo a capire che le sue possibilità di sopravvivenza aumentavano se stava in un gruppo facendo la sua parte. Vecchi, storpi, eccentrici d’ogni risma, persino i bambini avevano un ruolo spesso non secondario. Certo era una realtà brutale e cruda, non certo desiderabile per il nostro futuro, ma funzionava e ha permesso a noi discendenti di vivere in relativa agiatezza. Inoltre il nostro futuro potrebbe pretendere da noi almeno quella predisposizione sociale.
Oggi tutto è diverso. Viviamo dentro una specie di “autismo collettivo”, dove il senso del dovere comune e l’autismo hanno cominciato a fondersi in una sola soluzione. Così i problemi ci sono, tutti sono d’accordo, ma sono degli altri. Quando poi i problemi sono i nostri, sono vissuti come unici: non scatta l’idea che sia necessario unirsi con chi vive il problema. In più viene accettato passivamente come normale che la condizione d’abbandono e di sofferenza venga compatita dal nostro prossimo, senza che vi sia mai un guizzo oltre il compatimento e la mera presa di posizione verbale.
Perché?! Io non ho risposta. Ma solo un mare infinito di domande.