DI ANDREA CESANELLI
L’essere umano è un animale terreno esattamente come tutti gli altri. Nasce, vive, muore ed è guidato dagli stessi istinti degli altri animali. Questo è evidente a chiunque guardi se stesso in modo concreto e realistico, e si rapporti, sempre in modo concreto e realistico, agli altri animali terreni.
La differenza tra l’animale terreno Homo Sapiens Sapiens e gli altri animali terreni sta tutta nella evoluzione dell’organo cerebrale. La specie umana si è evoluta e caratterizzata per questa specificità, cioè per un’evoluzione cerebrale che ha fatto del cervello e dell’uso di quest’organo lo strumento peculiare di sopravvivenza della varietà Homo Sapiens Sapiens. Nel corso dei millenni il cervello della specie si è evoluto molto di più di quello degli altri animali (almeno per quelli che conosciamo oggi) ed ha fornito delle straordinarie capacità di comprensione della realtà terrena e, conseguentemente, di gestione della realtà terrena ai fini della propria sopravvivenza.
E la sopravvivenza, in termini qualitativi e quantitativi, è l’unico problema che ogni essere vivente di questo pianeta deve affrontare. E deve risolvere.
L’altra faccia della medaglia di questa evoluzione cerebrale è stata la consapevolezza della realtà della propria vita e della propria morte. Il cervello nato per studiare la realtà che ci stava intorno è stato capace anche di analizzare la realtà nostra personale, il nostro status, il nostro fine.
Le altre specie viventi vivono, si nutrono, si accoppiano e si riproducono seguendo esclusivamente il proprio istinto di sopravvivenza. L’animale Homo Sapiens Sapiens lo fa del pari, ma in più, le sue capacità cognitive gli consentono, oltre che di soddisfare i suoi bisogni animali in modo molto migliore a qualsiasi altro essere vivente, anche di essere cosciente del farlo, ed essere cosciente del significato delle sue azioni, e ciò non manca di creare seri problemi come vedremo tra breve.
Questa consapevolezza, frutto dell’evoluzione cerebrale della specie, ha prodotto al suo apparire delle conseguenze che avrebbero potuto essere fatali per la specie. In parole povere questo strumento potentissimo per la sopravvivenza aveva in sé incredibili controindicazioni.
Immaginate l’apparire della consapevolezza della propria morte in una specie vivente che è guidata esclusivamente dal proprio istinto di sopravvivenza.
E’ una contraddizione che manderebbe in blocco qualunque sistema operativo, poiché contiene due istanze profondamente ambigue e illogiche:
“mentre tutto dentro di te ti spinge alla sopravvivenza e indirizza a tal fine tutte le tue forze, il tuo cervello ti fa presagire prepotentemente che la tua esistenza è comunque destinata a finire, che tutti i tuoi sforzi, per quanto oggi potenzialmente vincenti, si concluderanno in un fallimento.”
Appare assolutamente immaginabile l’effetto devastante che questa consapevolezza apportò a questa specie vivente, quando, ancor poco più che bambina, la coscienza e i primi bagliori di intelligenza umana la lambirono.
L’angoscia derivante dalla consapevolezza della propria morte rischiò di compromettere lo stesso funzionamento dell’istinto di sopravvivenza della specie, e di conseguenza la sopravvivenza stessa della specie.
La soluzione fu trovata dallo stesso cervello che aveva, per così dire, creato il problema con la sua evoluzione. Seguendo la sua funzione naturale ed istintiva di strumento di sopravvivenza dell’organismo, il cervello si sottomise alla prima necessità: quella di sopravvivere, e ad essa sacrificò una parte della sua obiettiva capacità di lettura della realtà.
Inventò così delle visioni fantasiose e metafisiche della realtà che permettessero all’organismo vivente di superare quelle angosce che una lettura troppo precisa, obiettiva e onesta della realtà avrebbero inevitabilmente creato.
E siccome le angosce derivavano essenzialmente dalla coscienza della propria mortalità, è proprio in questo campo della realtà che il cervello umano si prodigò di più a creare fantasie metafisiche alternative all’esperienza diretta che i suoi sensi gli davano. Non importa quanto assurde o ridicole persino, esse vennero accettate e tanto più radicate come idee non criticabile dal pensiero razionale, in quanto meccanismo ansiolitico primigenio interno che placava la paura.
In pratica tutte le culture umane si son dette, del tutto inconsciamente e automaticamente: “la morte umana non esiste”, e così l’angoscia derivata dal conflitto di cui sopra si è un po’ attenuata.
E sono invece nate idee metafisiche del tutto astratte da qualunque realtà, quali: anima, dio, vite eterne e, soprattutto, la religione.
Non esiste cultura umana storica o preistorica che abbia presciso da simili necessità, pur essendovi sempre stati atei e razionalisti, e questi ovviamente tra gli individui in cui la tendenza razionale era così forte, o il coraggio contro l’angoscia di dover non più essere era superiore alla media, che le fantasie fideistiche consolatorie venivano ricacciate come pure fantasie inutili e fallaci.
Ma la maggioranza dell’umanità si è sempre dovuta piegare a simili fantasie proprio in ragione della sua fragilità psicologica animale.
Purtroppo le conseguenze di queste invenzioni fantasiose crearono (e continuano) delle conseguenze molto negative per la qualità della vita della nostra specie.
Il pensiero, in qualunque modo religioso o mistico con cui potremo definire questa tendenza all’autoinganno sulle realtà più dolorose dello status umano, porta ad un allontanamento dalla realtà in generale, alla rinuncia di usare il proprio cervello anche nei casi in cui è l’unico strumento che ci consente di sopravvivere al meglio, nella visione negativa dell’intelligenza e della cultura che ne è strumento. In pratica accade in parte quello che negli schizofrenici accade in maniera devastante: la parte emotiva del sistema psichico umano attacca la parte razionale, in quanto la reputa colpevole di tutti gli stati di sofferenza di cui soffre, e ovviamente, la distrugge, così facendo non risolvendo per nulla i problemi del malato ma lasciandolo solamente senza un sistema di analisi dei propri problemi, l’unica cosa che avrebbe potuto invece aiutarlo a proteggersene.
Così, anche se in misura meno drammatica, il cervello evolutosi nel corso di centinaia di migliaia di anni allo scopo di fornire alla specie un potente strumento di sopravvivenza (attraverso la lettura sempre più precisa della realtà e attraverso la creazione di risposte sempre più razionali ai problemi, che essa realtà presentava) viene paradossalmente usato in senso contrario, non per vedere la realtà, ma per negarla, a volte, come nella schizofrenia, anche a costo della distruzione del cervello stesso.
Inutile soffermarsi sulle conseguenze negative di questo approccio fantasioso al reale, perchè esse sono assolutamente ed immediatamente percepibili da tutti. Il cervello non viene più rivolto alla realtà terrena per osservarla, capirla e comprenderla allo scopo di migliorare la qualità della vita che è sotto i nostri occhi, ma, assurdamente, rivolto verso la costruzione di visioni alternative e fantasiose della realtà che allontanano sempre più la specie dal suo habitat naturale, cioè quello terreno, unico in cui essa possa trovare una qualche felicità!
Nascono i deliri religiosi, i compiacimenti per la visione della Terra come valle di lacrime e/o luogo di passaggio per giungere a deliranti mondi nell’aldilà in cui si svolgerebbe la vera esistenza (del tutto innaturale e quindi infelicissima, basterebbe solo pensare a quello che è il paradiso cristiano razionalmente per doverne inorridire! Quello musulmano è molto più sanamente naturale, anche se, del pari, del tutto irrazionale).
Nasce, poi, la separazione dell’individuo e della sua sana e naturale unicità corporale in una delirante visione schizofrenica di se stessi come anima e corpo; nascono le concezioni e le visioni punitive del corpo e della vita terrena (perché essa, unica che ci dia felicità, se vissuta serenamente ci allontana ovviamente da quelle fantasie irrazionali, e sostanzialmente prive di qualunque piacere o utilità, a parte l’effetto ansiolitico).
Questo permette il (ridicolo) paradosso per cui, si giunge persino a rinunciare alla propria vita terrena – l’unica esistente – in funzione di una ipotetica e fantomatica vita nell’aldilà in cui si avranno tutta la serenità e felicità senza dolori, cosa che sulla terra, ovviamente, non si può avere. E così pur di sognare di non aver più nessuna angoscia, si rinuncia anche a quel poco di buono che la vita reale ci offrirebbe, l’unica vera felicità concessa dal destino e dalla natura a noi uomini.
Ma così facendo si va anche contro la regola aurea della sopravvivenza come fine supremo e legge unica della vita sulla terra, cui l’uomo non può evadere senza conseguenze disastrose, perché il metodo per sfuggire ad alcune sofferenze psichiche ne crea molte altre sia psichiche sia fisiche in un ciclo vizioso difficilmente interrompibile una volta iniziato.
Negando la realtà, negando i nostri istinti e istanze sane di animali (pur razionali) noi ci allontaniamo tanto di più dagli obiettivi che ci darebbero una vita migliore, sia come individui che come specie.
Questo è il risultato della paura e dell’angoscia relativa e, come molti sentimenti umani, retaggio che ci arriva intatto dal nostro passato di mammiferi inferiori ancor prima rettili, si vede come, come tutte le risposte arcaiche, crei molti più danni di quelli che tenta di risolvere.
Noi, oggi, specie razionale e con possibilità culturali enormi, (si pensi allo studio che ci permette di poter partecipare di pensieri e soluzioni partorite da milioni di altri individui, molti morti, ma da cui noi possiamo ancora attingere il sapere per creare un mondo migliore) noi oggi abbiamo molte possibilità di fronteggiare questa paura irrazionale e le sue conseguenze devastanti quanto ridicole.
Occorre coraggio, occorre umiltà.
Coraggio, di guardare in faccia il nostro status per quello che è, senza concessioni al nostro desiderio narcisistico di voler vivere per sempre; umiltà, di riconoscere che molte delle nostre idee innate, per quanto radicate, sono in fondo sciocchezze e nascondigli psicologici di un animale piccolo e fragile, non del padrone dell’universo o di un semidio onnipotente; non siamo dei, né semidei, siamo solo l’animale più intelligente di questo pianeta (e forse qualche specie ci tallona da vicino, vedi delfini).
Se noi avremo questo coraggio e questa umiltà sapremo affrontare nel modo migliore i nostri problemi di sopravvivenza e, non già risolverli, ma contenerli e conviverci al meglio; continuando nel contempo a crescere come specie, sempre e comunque nella massima armonia dell’ambiente che ci circonda, non tanto per sciocca venerazione della natura come emanazione divina, ma come razionale ed egoistica constatazione che è la nostra sola casa e lo sarà certo per molto tempo a venire.
L’uomo non è cattivo, è solo pauroso; se la nostra intelligenza e razionalità avrà ragione delle nostre paure, potremo comunque rendere migliore la nostra società e senza inutili e frodabili precetti moralistici, perché questo è certo un ideale egoistico, e sarebbe sciocco da parte nostra non dedicarcisi tutti col massimo impegno.
di Andrea Cesanelli