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La Redazione

 

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Tre in uno: jazzista, scrittore e attivista (IIa Parte)

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A cura di Truman
Il 11 Febbraio 2006
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La Bellezza come Arma Politica

(una conversazione con Gilad Atzmon)
di Manuel Talens

MT: Prima di cominciare a parlare di lei come musicista e scrittore,
vorrei menzionare il fatto che Noam Chomsky, una persona che immagino
lei rispetti, ha detto che parlare della Soluzione dello Stato Unico
è qualcosa di “completamente estraneo alla realtà, e che non ha alcun
rapporto con nulla che si possa oggi immaginare” ( http://
www.zmag.org/content/showarticle.cfm?ItemID=5240 ). Per lei, vale la
pena insistere su questa strada?

GA: È proprio per questo che nutro seri dubbi sul Chomsky attuale.
Come tutti sappiamo lui si definisce un sionista. Lo ammiro per
quello che ha fatto in passato, ma la sua presa di posizione sul
conflitto israelo-palestinese ha perso di valore già da molto tempo.
E ora al punto: non solo la Soluzione dello Stato Unico è lungi
dall’essere astratta ma Sharon, nella sua recente svolta verso il
sionismo di sinistra, è stato sufficientemente furbo da capire il
disastro demografico concreto e imminente dovuto al fatto che gli
ebrei non rappresentano più la maggioranza, nelle zone controllate
dagli israeliani. Ecco spiegata la filosofia che sta dietro il
recente ritiro da Gaza. Gli israeliani sanno bene che ormai i giorni
dello “Stato ebraico” sono contati. Il fatto che Chomsky non riesca a
rendersi conto di questo è un po’ preoccupante. Vede, è una cosa
interessante: mentre l’ala destra sionista è propensa alla Soluzione
dello Stato Unico, i cosiddetti sionisti di sinistra sostengono un
concetto nazionalistico radicale di due stati divisi.

MT: Non pensavo proprio che Ariel Sharon fosse di sinistra. Mi
spieghi questa sua ultima frase.

GA: Tanto per cominciare, Sharon è cresciuto nel cuore del sionismo
laburista, ma tralasciamo pure per il momento la sua storia
personale. Dunque, esistono due correnti ideologiche principali
all’interno del movimento sionista: le colombe (quelli di sinistra) e
i falchi (quelli di destra). Le colombe credono che gli ebrei abbiano
diritto ad una patria nazionale a spese dei palestinesi. Storicamente
parlando, furono le colombe a fare pulizia etnica dell’85% della
popolazione palestinese, nel 1948. Una volta che le colombe
riuscirono a creare un ragionevole “Lebensraum” (habitat) per il
popolo ebraico, allora furono felici di “scendere a compromessi” con
i palestinesi.. Oslo è la materializzazione della filosofia delle
colombe sioniste. Peres e Rabin sono andati dai palestinesi
offrendogli “generosamente” i seguenti termini e condizioni
umilianti: “Noi (gli israeliani) vivremo nelle terre e nelle case che
vi siete lasciati dietro, cioé Giaffa, Haiffa, Gerusalemme, ecc. E
voi (i palestinesi) starete in campi profughi nel deserto oppure
nella diaspora”. Come si può vedere, le colombe cercano sempre delle
forme di compromesso. Il concetto legato alla soluzione dei due stati
è la classica tattica delle colombe. Mettono totalmente da parte la
causa palestinese (cioé il diritto di ritorno). È evidente che le
colombe non abbiano la minima intenzione di vivere in mezzo agli
arabi. Preferiscono erigere un ghetto ebraico all’europea in
Palestina. Per coloro che non lo ricordassero, l’idea di un muro
dell’apartheid fu all’origine lanciata da Haim Ramon, un’altra famosa
colomba laburista. La filosofia dei falchi è leggermente diversa. Per
un falco, è la terra di per sé ad essere importante. È la sacra
“Eretz Yisrael” – la Terra di Israele, secondo la Bibbia, per cui lui
o lei dovrebbero combattere. I falchi insistono per redimere ogni
pezzo di terra della “Grande Israele”. Il falco non è disposto ai
compromessi. Il falco insiste sul fatto che il diritto di Sion si
fonda sulla Bibbia. Per il falco non esiste una vera differenza tra
Tel Aviv, Gaza o il West Bank. Questa è l’esatta ragione per cui il
paradigma sionista del falco è maturato poi in ciò che ora viene
chiamato “sionismo messianico” (il movimento dei coloni). Sembra
quasi che il falco contemporaneo preferisca obbedire a un rabbino
piuttosto che a un politico laico. La logica del falco è semplice e
coerente: se Eretz Yisrael è davvero un concetto divino, che se ne
occupi un messianico religioso anziché un ebreo ateo. Nel corso di
tutta la sua carriera politica e militare, Sharon, un brutale
criminale di guerra, ha flirtato con la filosofia dei falchi. Per
anni ha fatto la parte del messaggero politico del movimento dei
coloni. Poi le cose, ultimamente, sono cambiate. Sembra che Sharon
abbia fatto un po’ voltafaccia. Il ritiro da Gaza infatti rappresenta
una completa inversione di marcia politica, per lui. Ora è ritornato
dai suoi veri simili, le colombe laburiste. Ultimamente ha capito che
condurre uno stato ebraico in cui la vasta maggioranza è fatta di
palestinesi sarà un progetto destinato a fallire. Questa è la logica
che sta dietro il ritiro da Gaza. Ha semplicemente trovato il modo
per disfarsi di 1.3 milioni di palestinesi e guadagnare tempo con
altri 5-7 anni in questo colossale indotto demografico. Perché ha
cambiato idea? Perché per Sharon, Eretz Yisrael non è una cosa così
sacra come ci ha fatto credere. Sharon, il falco sionista per
definizione, è diventato una colomba. Non solo è una colomba, ma la
sua intera carriera politica ora viene messa in salvo dalla colomba
ufficiale, Shimon Peres, sempre entusiasta ad unirsi al gabinetto di
Sharon. La morale di tutta questa saga politica è piuttosto chiara;
movimento dei coloni a parte, in Israele l’ideologia politica conta
ben poco. La sinistra non ha niente a che fare con la sinistra, e la
destra è la destra finché conviene.

MT: Perdoni la mia prossima domanda, ma.. mi sembra un po’ strano che
non trovi una sola qualità positiva nella società di Israele.

GA: Perché dice questo? Io penso più di ogni altra cosa, che Israele
esista per mostrare al mondo quello che è il modello più evidente di
un pensiero non etico e di un comportamento disumano.

MT: Potrei essere d’accordo con lei sul fatto che una democrazia
utilizzata al solo scopo di servire gli ebrei ma non il resto della
popolazione che vive entro i suoi confini è una democrazia un po’
zoppa…

GA: È ben peggio! È una democrazia costruita su misura per servire
l’intero mondo ebraico, non solo gli ebrei che vivono in Israele ma
gli ebrei di tutto il mondo. Azmi Bishara, un accademico palestinese
coraggioso e peraltro simpatico e che è membro della Knesset
israeliana, ha lanciato una campagna dal nome “uno stato dei propri
cittadini”, che si oppone ad una simile logica. Secondo Bishara,
infatti, Israele deve diventare una democrazia di proprietà dei suoi
cittadini, anziché una mera colonia della comunità ebraica. Nello
stato ebraico, un ebreo americano che viene da Brooklyn ha più
diritti di un palestinese che nasce a Gerusalemme est. Eccola qui, la
bella realtà della “democrazia ebraica”.

MT: La storia che si tira sempre fuori di solito è quella che gli
ebrei godono di tutti i vantaggi concessi dalle società occidentali,
come la libertà di parola, o il dissenso…

GA: La libertà di parola viene usata, semmai, per creare un’immagine
di pluralismo. È un falso pluralismo che vale solo per gli ebrei. Per
qualche strana ragione gli accademici, gli artisti o i politici
palestinesi non possono farne uso..

MT: Mai? Però ha appena citato la presa di posizione dissidente
dell’israeliano palestinese Azmi Bishara…

GA: Azmi Bishara è stato ora privato della sua immunità parlamentare
solo per il fatto di essere ciò che è (un arabo) e dire ciò che dice.
Credo davvero che questa la dica lunga.

MT: Ma dall’esterno, noi gentili vediamo che i dibattiti verbali
vengono tollerati, e che i cosiddetti “traditori” possono vivere e
lavorare in Israele senza finire in carcere…

GA: Caro amico, ma lo sa quanti palestinesi sono incarcerati ora nei
vari campi di concentramento e nelle comuni prigioni di Israele
intanto che stiamo parlando? Bene, allora, le dico questo: i sionisti
sono tutt’altro che stupidi. Lo sapeva che il governo israeliano
dirige un istituto che si fa carico di tradurre la cosiddetta
letteratura ebraica “di sinistra” in varie lingue straniere? E
diffondono personaggi come Amos Oz ed Edgar Keret. Questo potrà
suonarle strano: un governo israeliano di destra che si dedica a
tradurre e promuovere degli scrittori di sinistra. Vede, lo fanno per
costruire una falsa immagine di “stato ebraico in cerca di pace”. Non
che Oz e Keret abbiano nulla a che fare con il pensiero ideologico di
sinistra. Sono semplicemente le tipiche colombe sioniste. Ma per
qualche motivo vengono promossi dall’ala destra dell’establishment
israeliano. A quanto sembra, i falchi ebrei sembrano aver compreso
che l’impresa sionista trae i suoi benefici dall’immagine dell’ebreo
giusto. Come dicevo prima, i sionisti son ben lungi dall’essere
stupidi, e traggono beneficio pure da me. Gli ebrei di destra della
terza categoria fanno molto in fretta a tirare fuori un pezzo di
carta con sopra la lista di una dozzina di “ebrei buoni”. Quando
attacchi il potere ebraico, ti ricorderanno sempre di quegli ebrei
umanisti, allora citeranno Chomsky, Finkelstein, Leibovitch. Chissà
che non ci sia pure il mio nome da qualche parte nella lista. Vede,
il sionismo trae vantaggio pure dai suoi oppositori ebrei. È una
sfida da affrontare non da poco, e questa è un’altra ragione per cui
non agisco mai né come ex-israeliano né tanto meno come ex-ebreo.

MT: Parliamo del terrorismo da ambo le parti. Provi ad ignorare per
un momento la sua opinione su Israele e pensi come semplice essere
umano.

GA: Potrebbe essere una sfida troppo grande [sorride].

MT: Come si sentirebbe nei panni di un arabo, e dei soldati
israeliani ricevono degli ordini dai loro superiori di sparare per
uccidere, massacrando suo figlio durante un raid? Come si sentirebbe
se sua figlia fosse fatta saltare in aria, mentre è in bus, da un
attentatore suicida palestinese?

GA: Con tutto il dovuto rispetto, non voglio avere a che fare con la
“politica delle vittime”. È piuttosto chiaro quanto delle circostanze
del genere siano orribili, ma penso che sia importante fare
distinzione tra lutto personale e critica razionale. Ho vissuto in
Gran Bretagna per più di 10 anni. Cresco qui i miei due bambini,
nella Londra bombardata. Nonostante ciò, sono pienamente consapevole
che è il signor Blair che vuole intenzionalmente trasformare i miei
ragazzi, me stesso e l’intera società britannica in un ostaggio delle
sue misere, per non dire criminali, decisioni. Devo dirle che la
maggioranza del popolo inglese, inclusa la moglie del primo ministro,
ha capito subito dopo il bombardamento del 7 luglio che sono le
politiche disastrose di Blair a portarci quelle sanguinose bombe. Ciò
che sto cercando di dire è che le persone sono in grado di
distinguere tra dolore personale e le ragioni che hanno portato
all’attacco. Non è un caso che i sionisti cerchino di confondere il
dolore personale con il discorso razionale. Là dove lo scopo è quello
di conservare il trauma ebraico, il metodo usato è quello di
sopprimere ogni possibile ragione. La ragione esiste per produrre un
argomento che spieghi. Quindi, una volta che il sionista comprenderà
il ragionamento che sta dietro la sofferenza ebraica, gli ebrei
smetteranno di fare le vittime e diventeranno degli essere umani
ordinari empatici e responsabili. Ma finché il dolore rimane nel
nucleo del discorso ebraico, l’Olocausto continuerà ad essere un
racconto interminabile con protagonisti intercambiabili: prima era
Hitler, poi è diventato Stalin, poi Nasser, poi Arafat, poi Saddam e
così via. Ma non appena tracci una linea di demarcazione tra il
dolore e il ragionamento, cominci a cercare le vere cause. Guardi al
tuo dolore in termini di causa ed effetto. Dopo ti potresti chiedere
se non sia per caso una coincidenza che tutti questi disastri
capitino agli ebrei. Se sia un caso che così tanti palestinesi
abbiano smesso di sperare in una vita migliore. Se me lo chiede,
ecco, queste sono le domande elementari che gli israeliani dovrebbero
porsi dopo un attentato suicida. Per qualche ragione, queste domande
non se le pongono. Una volta che cominciano a porsi queste questioni,
non saranno più israeliani. Desionizzare Israele significa far
penetrare l’elemento ragione nel loro trauma.

MT: Ritornerebbe a vivere a Gerusalemme o a Tel Aviv se facessero
parte di un nuovo stato costituzionalmente privo di riferimenti etnici?

GA: Non so se ci vivrei, però magari potrei farci una visita e
chissà, magari pure fare un concerto.

MT: Mi permetta di fare un riassunto di ciò che ho dedotto finora
dalle sue affermazioni precedenti: lei è semplicemente un essere
umano che per caso è nato da genitori ebrei ma che ritiene che il
fatto di essere ebrei sia un aspetto irrilevante della sua persona, e
non una variabile tale da guidare le sue scelte di vita.

GA: Bè.. a dire il vero messa così è un po’ più di ciò che ho detto
io. Presumo che non sia un caso che io mi occupi dell’ebraicità. Non
agisco come un ebreo né sotto alcuna bandiera ebraica. Ma prego,
continui.

MT: Lei è in armonia con le persone religiose, ebrei inclusi. Non è
un antisemita ma piuttosto un antisionista (per non confondere i due
concetti). Combatte il sionismo in quanto ideologia che si basa sulla
razza e che isola i suoi membri, e che controlla uno stato sulla base
di premesse razziali. Difende la liberazione del popolo palestinese,
il diritto di ritorno per il palestinesi che sono stati espulsi dalla
loro terra dopo la fondazione dello stato di Israele, e sostiene la
creazione di un nuovo stato, la Palestina, dove entrambi i popoli
convivono senza che vi sia alcun tipo di riferimento alle loro
origini etniche. Lei è convinto che il sionismo sia una parte
integrante del colonialismo e dell’imperialismo occidentale. Ho detto
giusto?

GA: Sì.

MT: Allo tempo stesso lei è un artista che deve guadagnarsi il pane
quotidiano, e noi tutti sappiamo che nel mondo in cui viviamo, la
parola “arte” è controllata dal capitale (cioé case discografiche,
editori, proprietari di gallerie e via dicendo), il che significa che
qualunque artista che combatte le stesse fondamenta del capitalismo
occidentale e che nuota sempre controcorrente rispetto ai programmi
politici dominanti, viene automaticamente considerato un paria.
Questo le comporta dei problemi dal punto di vista professionale,
considerando che fa uso della sua arte come un’arma estetica di
distruzione di massa rispetto al “pensiero unico” delle attuali
democrazie neoliberiste?

GA: Certamente sì. Potrei avere molto più successo, se scegliessi di
rimanermene in silenzio. Ma comunque posso assicurarle che nessuno
sceglie di diventare un jazzista per far soldi. Lo facciamo per amore
della musica e del suo contenuto spirituale. Amo il jazz e la mia
musica trae beneficio dal mio impegno sociale, almeno questo è ciò
che penso ora.

MT: Conosco solo i suoi due ultimi album: EXILE e musiK. Fin dal
primo pezzo di EXILE sono rimasto colpito sia dalla sensualità del
suo suono che dalle sue burrasche violente occasionali, sia quando
suona il clarinetto che il sassofono. Prima diceva che Coltrane e
Bird (Charlie Parker) hanno cambiato la sua vita, e infatti il suo
fraseggio dimostra l’influenza di entrambi. Cosa è il Jazz per lei?

GA: Il Jazz è libertà al suo stato puro. È sia un richiamo alla
liberazione che una sfida ai propri confini personali. Suonare il
jazz ha lo scopo di liberarti, sapendo che ciò non succederà mai.

MT: La sua risposta ha risvegliato in me un ricordo. Ha mai letto il
racconto “The Pursuer” [ndt: “L’inseguitore”]?

GA: No.

MT: Neanche mai sentito parlare?

GA: No.

MT: Parla di Charlie Parker, anche se il personaggio del racconto
viene chiamatao Johnny, un artista alla ricerca dell’arte. Glielo
raccomando vivamente, sono sicuro che le piacerà. “The Pursuer” è la
traduzione in inglese di “El Perseguidor”, e il suo autore,
l’argentino Julio Cortázar, è stato uno tra i più grandi autori di
racconti brevi di tutti i tempi. Ma continuiamo con la sua poetica
della musica. Alcuni anni fa ho fatto la traduzione di un brillante
articolo che lei aveva scritto sul jazz come attività rivoluzionaria.
Potrebbe ripetere qui alcune delle idee che aveva sviluppato in quel
testo?

GA: Dicevo che il jazz, al suo meglio, rappresenta di fatto una forma
d’arte rivoluzionaria antiamericana. Chiaramente, qualunque artista
jazz – e mi riferisco soprattutto ai musicisti bop e post-bop – erano
molto coinvolti nella lotta per i diritti civili dei neri dalla fine
degli anni Quaranta fino alla fine degli anni Sessanta. A quei tempi
il jazz diventò un richiamo per la libertà ed era, di per sé, un
esercizio di libertà. Allora il jazz era una musica emotiva,
significativa. Mentre in Europa il jazz divenne estremamente popolare
dopo la guerra, in America ai giganti del jazz era ancora proibito
entrare in alcuni club e in alcune sale da concerto entrando dalla
porta principale. Trattandosi dell’unica forma d’arte originale
proveniente dagli Stati Uniti, il jazz divenne un simbolo del
razzismo e dell’oppressione americana. Verso la fine degli anni
Sessanta, l’elite americana cominciò a capire che il jazz poteva
essere utilizzato come utile veicolo di propaganda. Fu allora che
divenne la “voce dell’America” ufficiale. Fu allora che il jazz cessò
di essere una forma d’arte rivoluzionaria. E, sempre in quel periodo,
i neri americani venivano mandati a morire in massa per gli interessi
globali americani in Vietnam. La storia del jazz è la storia
dell’abuso americano perpetrato contro la popolazione nera americana.
L’incredibile negligenza di Bush sulle gravi ripercussioni che ha
avuto l’uragano Katrina non fa che enfatizzare ancora di più questo
fatto. New Orleans, una delle grandi capitali del jazz, è stata fatta
annegare assieme ai suoi poveri abitanti di colore. A quanto pare
l’America non ha imparato proprio niente. Una nazione che è impegnata
quotidianamente nell’uccisione di altre nazioni raccoglierà prima o
poi i frutti di ciò che ha seminato.

MT: Ora le do’ quattro nomi, due jazzisti e due cantanti rock: Bird,
Chet Baker, Jimi Hendrix e Jim Morrison. L’hanno mai ispirata?

GA: Certo. Bird è stato l’uomo che mi ha trasformato in un amante del
jazz, Chet mi ha insegnato tutto su che cos’è l’amore, Hendrix è
esistenziale, e Morrison.. dovrei dedicargli più tempo.

MT: Farò un riassunto in poche parole di quello che mi ricordo del
suo album precedente, EXILE. Comincia in modo piuttosto imponente con
“Dal’Ouna On The Return”, un dialogo tra il suo clarinetto e la voce
della cantante palestinese Reem Kelani sullo sfondo di un lungo
sostenuto basso. Bellezza allo stato puro. Secondo gli appunti
contenuti in questo album, la seconda canzone “Al-Quds” è un pezzo
israeliano che era molto popolare tra gli ebrei durante la Guerra dei
Sei Giorni, anche se lei ha usato un trucco: le parole in ebraico
sono state cambiate in un poema arabo che esprime l’intenso desiderio
dei palestinesi per la loro terra. L’intento politico non poteva
essere più esplicito: tutti i popoli privati di qualcosa albergano
gli stessi sentimenti, e durante gli ultimi sessant’anni i
palestinesi vivono esattamente lo stesso tipo di tormento che gli
ebrei hanno vissuto per duemila anni. “Ouz” racconta di insensibili
coloni sionisti che colonizzano allegramente la terra palestinese
previamente confiscata. Ma il pezzo che ricordo più vividamente è
“Exile”, un pezzo strumentale ladino tradizionale, e questo non per
l’amore che ho per i Ladini (ebrei di origine spagnola che hanno
conservato con ostinazione l’uso della lingua spagnola durante i
quattro secoli in cui i genocidi Re Cattolici li hanno deportati), ma
per via del ritmo usato nella melodia dal suo batterista, Asaf
Sirkis, che è esattamente lo stesso tipo di ritmo delle processioni
religiose che hanno luogo durante la Settimana Santa nella mia terra
natìa, l’Andalusia. In qualche modo “Exile” ha mi ha riportato
all’infanzia. Ogni volta che ascolto questo pezzo penso a quanta
ragione aveva lo storico Américo Castro, quando diceva che noi
spagnoli siamo un misto tra cristiani, mori ed ebrei! Qualche
commento da aggiungere?

GA: Solo dire che la sua visione poetica sul mio lavoro mi ha
veramente toccato il cuore, dico sinceramente. Certo, io sono più
affascinato dalla cultura ladina che da quella Klezmer, un furto
culturale ashkenazita di alcune musiche dell’Europa orientale e
zingare. Anche se ho una conoscenza profonda del Klezmer, non la
registrerei mai. A differenza della musica ladina, nobile e profonda,
quella klezmer è sempre troppo rumorosa, suonata in modo sgraziato e
manca di qualunque finezza estetica. Detto ciò, rimane comunque un
musicista straordinario, che è riuscito a trasformare il Klezmer in
una forma d’arte, e mi riferisco naturalmente al maestro di
clarinetto Giora Feidman, nato in Argentina. In termini musicali, il
Klezmer è essenzialmente della musica zingara eseguita in modo
orribile. Talmente orribile da diventare uno stile. Quella ladina,
per contro, è un’espressione poetica ed autentica. Se davvero vuole
provare la bellezza della cultura ebraica, si conceda un favore,
passi semplicemente nei pressi di una sinagoga sefardita nel Giorno
dell’Espiazione e ascolti l’antica musica andalusa. È di una bellezza
assoluta.

MT: Ha familiarità con il flamenco?

GA: Certamente.

MT: La ispira?

GA: Non è proprio alla base della mia ispirazione, ma le dirò che per
me la musica non è più suddivisa in compartimenti stagni. La musica è
semplicemente musica. Queste etichette: Flamenco, Jazz, Pop, Tango,
Drum Œn’ Bass, World, Latino, Rock e così via esistono ormai per
servire l’industria musicale. Utilizzate per offrire un’immagine di
pluralismo.

MT: musiK, il suo ultimo album, include un tango lento (“Joven,
hermosa y triste”, naturalmente cantato in spagnolo dall’argentino
Guillermo Rozenthuler, suppongo un altro essere umano al quale è
capitato di avere dei genitori ebrei)…

GA: Di sicuro, tutti gli ebrei con i quali riesco a comunicare con
successo e ai quali voglio bene, fanno parte della prima e della
seconda categoria.

MT: …e poi un curioso miscuglio (“Re-arranging the 20th Century”,
con un tributo a Charlie Parker, dove spicca Robert Wyatt), e un
pezzo strumentale di grande effetto, “Liberating the American
People”). Trovo che la sua ideazione sia più universale, rispetto
all’album precedente, confermando che la sua evoluzione artistica e
politica la porta verso una comprensione più globale dei problemi
locali. Se oltretutto consideriamo le note aggiuntive dove lei parla
della connotazione del termine “musiKa” (con una “K” maiuscola
anziché una “c”) come musica priva del proprio valore di mercato,
l’intenzione politica di sinistra dell’artefatto finale è piuttosto
evidente, ma ho alcuni dubbi quando ascolto un altro pezzo, e cioé la
versione jazz della canzone tedesca “Lili Marleen”, che era molto
popolare durante la Seconda Guerra Mondiale sia tra i soldati nazisti
che tra quelli alleati. Mi può dire qualcosa di più sia sul
significato di musiKa che sull’inserimento di questa versione di
“Lili Marleen” nell’album?

GA: musiKa, a differenza di musiCa, è la ricerca della bellezza.
Mentre musiKa fa riferimento all’estetica continentale, musiCa fa
invece riferimento alla mercificazione che gli angloamericani fanno
della bellezza e alla sminuizione del senso dell’estetica
trasformandola in una pura questione di moda. “K” sta per bellezza, e
“C” sta per avidità capitalistica. Questa distinzione è decisamente
evidente nella differenza che c’è tra Kultur e Cultura. Se non le da’
fastidio un po’ di volgarità da parte mia, potrei dire che la “K” sta
per Kant (Emmanuel), e la “C” sta per quel “coglione” di Milton
Friedman.. Mi chiede di “Lili Marleen”, e le dirò la verità. Non è
una canzone eccezionale, eppure ha fatto sì che la gente la smettesse
di spararsi. Io ci provo da 3 anni, con la mia musiKa. Sono ben
lontano dal successo, ma continuo a provarci.

MT: Ha mai suonato in American Latina?

GA: Sì, in Argentina e in Uruguay. Mi è piaciuto. Mi trasferirei da
quelle parti. Come probabilmente sa, il tango è il mio più grande
amore.

MT: Ho citato l’America Latina perché, in quanto cortile posteriore
dell’impero, i suoi popoli hanno sofferto le politiche di Washington
per più di un secolo, e forse questo è il motivo per cui la
maggioranza dei latinoamericani “comprende” il tormento dei
palestinesi e sono a favore della loro causa contro Israele. C’è
anche un parallelo tra le posizioni contrastanti dei governi
latinoamericani e i loro cittadini riguardo ai palestinesi e ai
cubani, perché i governi hanno la tendenza ad essere politicamente
corretti e tendono ad essere molto cauti, laddove è difficile trovare
dei latinoamericani poveri a livello di strada – cioé la maggioranza
della popolazione del Cono Sud – che non ammirino il coraggio di
questi due popoli, così lontani in termini di cultura e di storia
eppure così simili in termini di resistenza. Le piacerebbe suonare
Musik a Cuba?

GA: Sì, certamente.

MT: Sono sicuro che si innamorerebbe anche della salsa caraibica.

GA: È vero, anzi, prima che l’Orient House Ensemble cominciasse ad
avere successo io mi guadagnavo da vivere suonando la salsa e girando
con diverse bande cubane.

MT: Parliamo un po’ dei suoi libri. Come decise di diventare un
romanziere?

GA: Non ho mai deciso di diventare un romanziere. Successe che stavo
scrivendo il mio primo libro per degli amici ed alcuni parenti
vicini. Scrissi i primi due o tre capitoli e li inviai a Yaron Stavi,
il mio bassista da 14 anni. Gli piacque, e infatti fu la sua
approvazione che mi diede lo stimolo per continuare a scrivere per un
po’ di tempo. Poi ebbi un incidente: quando il mio manoscritto era
quasi completato, l’hard disk del mio computer si danneggiò
irreparabilmente. Il file del libro era irrecuperabile. Pensai che
potesse essere un “segno”. E quindi decisi di abbandonare l’idea di
diventare uno scrittore. Successe tutto nel 1994, mentre frequentavo
il dottorato di ricerca nel Regno Unito. Nel 2000, un accademico
libanese mi chiese di presentare un articolo con le mie opinioni su
Israele e l’ebraicità. Ripresi il mio vecchissimo portatile e rimasi
esterrefatto nel trovarci un file quasi completo del libro. Comincia
a leggerlo e lo trovai coinvolgente. Allora lo spedii ad un editore
in Israele, offrendomi di coprire i costi per la stampa. In meno di
un giorno mi chiamò l’editore, dicendomi che potevo risparmiare i
soldi per la stampa, perché il manoscritto gli era piaciuto ed erano
disposti a pubblicarlo. Come può vedere, divenni uno scrittore senza
che avessi deciso di diventarlo. Io come scrittore non mi ci vedo, e
non capisco nemmeno ciò che scrivo. Di solito riesco a capirlo dopo
2-3 anni da quando sono stati pubblicati. Solo recentemente sono
stato in grado di capire il mio ultimo lavoro pubblicato (“My One and
Only Love”). Ora mi rendo conto che questo libro aveva lo scopo di
smontare la nozione del trauma ebraico o del trauma in generale. Ora
mi rendo pienamente conto che il mio libro verte tutto sul fatto
evidente che il trauma precede l’evento traumatico. Il trauma
dell’Olocausto precede l’Olocausto così come il trauma dello stupro
precede lo stupro effettivo. In breve, lo “stress post-
traumatico” (PTSD) precede l’evento traumatico. Per quanto bizzarro
possa sembrare, me ne rendo conto ora, ma non me ne rendevo conto
mentre stavo scrivendo un libro proprio su questo. A quanto pare, i
libri rappresentano un gioco senza regole che viene condotto
dall’inconscio dell’autore.

MT: Be.. le dirò che Gabriel García Márquez una volta affermò che i
veri romanzieri scrivono un solo libro, anche se ne pubblicano molti,
intendendo con ciò che le varie trame scelte non sono che una
variazione di un’unica trama, profondamente radicata nel loro
inconscio e che li ossessiona, e che infatti non hanno nemmeno la
possibilità di scegliere, ma vengono scelti da questa trama stessa.
Mi fa piacere che lei sia in linea con questo approccio
psicanalitico, un approccio che ci aiuta a vedere la differenza
esistente tra un romanziere che scrive ciò che non può fare a meno di
scrivere, e uno scrittore di best seller che mette su carta qualunque
cosa gli permetta di guadagnare del denaro.

GA: Eh sì.. in un certo senso ho quasi l’impressione che i miei libri
si scrivano da soli. E sento la stessa cosa per la musica. Sono un
po’ un catalizzatore, un’estensione fisica di una persona che non
riesco a conoscere. Meno la mia parte conscia interferisce con i miei
scritti o la mia musica, meglio è. Credo davvero che la musiKa e la
letteratura si producano da sole, quando l’ego muore. Certo non è
facile mettere a tacere il proprio ego. E tra l’altro la Pop Art è
puro ego ed egotismo. Questo è il motivo per cui la letteratura, la
poesia e la musiKa vengono sconfitte nell’arena culturale
liberaldemocratica.

MT: Perché ha utilizzato per il suo primo romanzo lo stesso titolo
dell’opera principale di Mosé Maimonide, “The Guide for the
Perplexed” (“Una Guida per i Perplessi”)?

GA: Per me, Maimonide rappresenta il vero nucleo centrale
dell’ideologia suprematista e dell’odio per l’Altro. Per citare il
grande Israel Shahak: “L’opera “Mishneh Torah” (Ripetizione della
Legge) di Maimonide [è] colma non solo dei precetti più offensivi
contro i tutti i gentili, ma contiene pure attacchi espliciti al
cristianesimo e a Gesù”. Mosé Maimonide è considerato il più grande
codificatore e filosofo della storia ebraica. Vediamo cosa dice
questo grande rabbino sui gentili, sui cristiani e sugli ebrei
diffidenti. Nella Mishneh Torah, Maimonide ci insegna che “se vediamo
un idolatra (un gentile) che sta per essere trascinato da un fiume o
sta per annegare, non dovremmo aiutarlo. Se vediamo che la sua vita è
in pericolo, non dovremmo salvarlo” (Moznaim Publishing Corporation,
Brooklyn, New York, 1990, Capitolo 10, traduzione inglese, p. 184).
Ma non è solo il gentile a dover essere punito: “È una mitzvah
[dovere religioso]”, dice Maimonide, “sradicare i traditori ebrei –
minnim e apikorsim – affinché scendano nel pozzo della distruzione,
poiché costoro creano difficoltà agli ebrei e allontanano il popolo
da Dio, come fece Gesù di Nazareth e i suoi discepoli, e Tzadok, e
Baithos e i suoi discepoli. Possa il nome del malvagio marcire².
Quello di Maimonide è un messaggio di puro odio, eppure questo
messaggio è custodito al riparo nel nucleo più profondo della
filosofia ebraica. Dieci anni fa, quando scrissi il mio libro, la mia
intenzione era quella di criticare Maimonide. Inizialmente la mia
idea era di intitolare il mio lavoro “Una Guida per i Perplessi,
versione riveduta”. Ma poi, ad una seconda analisi, capii che l’unico
modo possibile per fare adottare agli ebrei una nozione universale di
unamesimo era quella di sopprimere idealmente Maimonide e sradicare
le sue oltraggiose prediche. Ero convinto che nel giro di pochi
giorno dalla pubblicazione della mia Guida, i libri di Maimonide
sarebbero scomparsi. Ero anche convinto che il mio romanzo sarebbe
diventato una specie di Bibbia. A quanto pare mi sbagliai. Ci vollero
meno di due settimane perché il mio libro venisse messo al bando in
Israele. Comunque, fu allora che mi resi conto che non era più il
caso che sprecassi le mie energie con gli israeliani. Anziché parlare
agli israeliani, parlo al mondo degli israeliani. Come forse saprà, è
impossibile oggi trovare la mia “Guida per i Perplessi” in lingua
ebraica, ma è disponibile in molte altre lingue. E questo mi fa molto
piacere.

MT: Quando ho cominciato a leggere quello che sapevo essere il suo
primo romanzo, sono rimasto subito colpito dal suo senso
dell’umorismo e dalla sua incredibile arguzia. Infatti, e tenendo ben
da conto tutte le differenze, mi ha fatto ricordare un altro primo
romanzo, ugualmente brillante, “The Apprenticeship of Duddy
Kravitz” (L’apprendistato Di Duddy Kravitz – 1959), scritto da un
altro fortunato “membro” della shit list, Mordecai Richer. Lei è
d’accordo che l’umorismo è solo una facciata che nasconde tristezza e
che le persone che hanno sofferto sono quelle con più senso
dell’umorismo?

GA: Non lo so. Di nuovo, rifiuto di considerarmi una vittima.
Diciamo, basandomi sulla mia esperienza personale, che le persone più
divertenti attorno a me sono maniaco-depresse. Io comunque non lo
sono. Combattere il male mi accende, e la risata è una delle mie armi.

MT: Dove pensa che possa condurre un impegno politico di sinistra
portato fino alle sue estreme conseguenze, dove qualunque tipo di
concessione fatta alla destra rimane esclusa?

GA: Caro amico, sono proprio desolato nel dirle che la destra non
sarà sconfitta, perché non può essere sconfitta. Comunque nemmeno la
sinistra può essere sconfitta. La mia visione filosofica su questo
argomento è piuttosto semplice: mentre il pensiero ideologico di
destra si pone questioni su “cosa è l’uomo?”, la scuola critica di
pensiero della sinistra si chiede “come dovrebbe essere l’uomo”. In
altri termini, la “destra” è esistenziale, e la “sinistra” è
normativa. La tragedia umana è causata dalla condizione limitante
stessa dell’essere umano, pertanto né l’aspetto esistenziale, né
quello normativo, potranno mai essere compresi appieno.
L’esistenziale è troppo vicino per poter realizzato pienamente, e
quello normativo è fantasmatico: è un’ideologia strutturata sotto
forma di sogno. La tragedia della condizione umana è che è
imprigionata tra l’aspetto esistenziale e quello normativo. Vede, la
normativa (la sinistra) e l’esistenziale (la destra) non sono dei
fattori in opposizione, ma direi piuttosto delle qualità umane
complementari. Ma la questione è ancora più profonda. L’umanesimo e
la compassione si possono realizzare sia in termini esistenziali che
normativi. La bontà, quindi, non appartiene né alla destra né alla
sinistra. La bontà appartiene all’intero genere umano, eppure questa
umanità si perde alla ricerca di un vincolo che unifichi. Come sa io
non sono un politico e non ho intenzione di diventarlo. Sono un
artista, e il mio unico dovere è cercare di stare al di sopra di
questa bipolarità e integrare queste due facoltà umane elementari. Io
lotto per fondere l’ “essere” con la “fantasia”. Il mio dovere è
semplicemente quello di far sì che la musiKa vinca e che prevalga la
Kultur. Sono qui per combattere il sionismo e l’America, e la
bellezza è la mia arma. Le suonerà ridicolo, ma questa è la mia
guerra, è una guerra che amo combattere e che, mi permetta di dirlo,
vinco ogni notte.

MT: È stato un piacere, signor Atzmon.

GA: [sorride]

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RUGGERO

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