Taci, il nemico ti ausculta

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Di Alceste, alcesteilblog.blogspot.com

Roma, 2 dicembre 2022

Ben prima del pronunciamento della montagna sull’obbligo vaccinale, ho gustato la Silvana Sciarra in una minuscola dichiarazione di riscaldamento. Viso magro, ma non smagrito, candida messa in piega, talmente inappuntabile da apparire scolpita, un taglio cesareo per labbra, la Nostra recitava un cibreo burocratico in quell’anti-italiano (di cui si lagnò a suo tempo Italo Calvino, pace all’anima sua) cui la giustizia ricorre quando deve sentenziare senza far capire nulla di ciò che accadrà.
La commedia all’italiana ha ricavato varie scene comiche da tali sgranate di rosario; come quando l’imputato si rivolge all’avvocato chiedendo lumi: “Ma quanti anni mi hanno dato, dottò’?”, “Ma quali anni, Mericoni! Lei è assolto!”; oppure: “Allora l’abbiamo sfangata, dottò’!” “Ma che sfangata, sono cinque anni, Mericoni!”: perché il sentenziese è a doppio taglio significando tutto e il contrario di tutto all’orecchio volgare.
Solo che qui la Silvana ci ha sorpresi. A dir la verità non mi son reso conto, a causa della mia struttura inconfutabilmente plebea, se fossi ancora in me oppure sprofondato in un fugace deliquio cui spesso soggiaccio a fronte di autorità così autorevoli. Già raccontai di quando fui ghermito da un soporoso stato psichedelico durante un discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. Probabile che sia stato così anche stavolta. Le fattezze della Sciarra, già di per sé aristocraticamente riconducibili al fenotipo mattarelliano, presero a circonfondersi d’un aura indefinita, da suffumigio rituale; quella robotica tefillah in una lingua insensata, priva di toni e cesure, un pocolino incespicata e appena sommossa da bollicine tecniche (“a quo”), m’indusse, perciò, da subito alla rivelazione. Sembrò, insomma, e parlo per me, che la nostra Presidente, ogni tanto, interrompendo fugacemente la litania, si microaccendesse d’un sorrisino dolcemente estrogeno, labbra serrate e commessure lievemente increspate: da amica d’infanzia; e che, al contempo, promuovesse tale empatia, quasi inavvertibile, mercé alcune birichine alzatine di spalla, come a render ancor più complice l’uditorio. “Sebbene nulla comprenda e voglia comprendere … da questa donna non potrà venire nulla di male …”, avrò pensato, già assuefatto alla pipa da crack che il potere mi concedeva: “Questa non è una mia superiore, è la Marina Morgan dei costituzionalisti, ci vuol bene, tanto … tanto bene … sono gli altri a sbagliare … io in particolare …“.
Qualche ora dopo mi svegliai allucinato, con qualche linea di febbre nelle ossa.
Ero pronto a rigettarmi nei vicoli plumbei della città.

Se, nell’inferno più sudicio della postmodernità, esistesse un girone riservato a chi cercò di imitare vanamente l’intelligenza, questo verrebbe comunque negato ai giornalisti italiani, troppo in basso per qualsiasi idea di nequizia. Il modo in cui, tronfi, essi citano questa locuzione latina (“a quo”), cicalando di “via incidentale”, merita il nostro disprezzo più lutulento. D’altra parte, ma questo vale per tutti, il giornalismo germinò di pari passo all’Illuminismo ideologico e tecnico. “The Tatler” e “The Spectator” di Addison & Steele nacquero ai primi del Settecento, in Inghilterra, dove dell’ideologia non sapevano che farsene. Rimase la tecnica, l’efficacia, che, proprio per esser al massimo operativa, aveva da far regredire nella dimenticanza lo stile, la cautela, l’evocazione poetica. Germinava l’informazione, moriva la verità. In tre secoli questo rogo ha consumato tutto. Non restano nemmeno i tizzoni esausti. Solo una fine calcina postatomica, a coprire ogni cosa, ogni granello fungibile all’altro, all’infinito.

Sulla punta della lingua del parassita vi è sempre questo disprezzo antropologico per chi produce la ricchezza; che il parassita a sé annette, per diritto di casta, come se questa fosse prodotta da una cornucopia di folletti; nella casetta di marzapane.

Il parco di quartiere, abbellito da un’epigrafe commemorativa in onore a Giovanni Paolo II, recatosi in visita presso la vicina parrocchia, è ridotto a una porcilaia. I rigonfi bidoni dell’immondizia sventrati, a mostrare le viscere. Merde di cani accortamente randomizzate da padroni vittime di un culto idiota. Altalene, scivoli e girelli, invece, sono assenti, forse sequestrati dalla magistratura competente, per motivi che nessuno saprà mai; o fatti sparire dal Municipio, per motivi che nessuno saprà mai. Al centro, prossima a una parodia d’anfiteatro in ghiaia e cemento (si avevano in mente spettacoli popolari?), sta lei, la panchina rossa. Pitturata di fresco. L’onore municipale, insomma, è salvo.

Qualche tempo fa, cinque o sei anni, moltiplicatisi dalla realtà accelerata della dissoluzione, posi nel piatto due pietanze apparentemente lontane dalla considerazione di chiunque: la psicopatia dei dominanti e la mancanza del maschio quale base per l’azione.
Sulla prima credo che, oggi, nessuno abbia da obiettare.
La seconda ci si sta rivelando oggi. Addosso al maschio (bianco) vediamo accanirsi il Potere con ogni mezzo. Dalla castrazione chimica si è passati a quella digitale da infoitment. A meno che non lo si infili negli orifizi di qualche altro maschio, lo stennarello o il batocco sono membri dell’anatomia umana riguardati con forte sospetto. E, per la nota figura retorica della sineddoche, il disdoro stinge sui portatori degli stessi. Più o meno sani. “Cazzo, diavolo!”, direbbe l’Ebreo Barabas – in bell’Italiano – nel Jew of Malta di Christopher Marlowe. Impossibile contrastare l’ondata di ripugnanza verso il maschio bianco e i fenomeni che, prima, modestamente causava: procreazione, normosessualità, l’ansia purificatrice dello scontro. Nel 2023 occorre sacrificare a Cibele coglioni e tutto altrimenti non si va avanti. Le relazioni fra maschio e femmina sono oramai impossibili. A forza di iniettare nelle teste di rapa delle Italiane la psicologia spicciola da periodico popolare, ci si ritrova un trentacinque milioni di potenziali Camille Paglia che ragionano come sciroccate. I fogli degli appunti legali si riempiono di locuzioni come “negare il mio spazio”, “controllo da stalker”, “repressione della vitalità”, “carriera interdetta” e così via. Chi nega questo è un potenziale femminicida, un bruto; nonostante il reato di femminicidio, almeno a cercare in ogni pandetta d’ogni ordine e grado, sia impossibile trovarlo. Certo, esistono uomini che uccidono le donne, uno su trecentomila (Italiani?), la percentuale più bassa del globo terracqueo, eppure la tarantella del reato d’odio viene ballata come se prolifessaro i Donato Bilancia. L’unica soluzione, pare, consiste nel recidere quel filo che ci lega al cromosoma Y come fa Gerard Depardieu in Ciao maschio; festoni di organza celebreranno l’avvenuto rito della novella fertilità.

Dalla Gazzetta dello Sport: “‘Cinque anni di squalifica, più una richiesta di radiazione da ogni rango e categoria della Figc’. È quanto si legge sul comunicato del giudice sportivo, che ha punito un giocatore della Juventus Domo, Niccolò Falcioni, reo di aver colpito al viso con una gomitata un avversario che esultava per un gol segnato dalla propria squadra, la Dufour Varallo. Durante la partita l’arbitro aveva soltanto ammonito Falcioni, non avendo compreso la gravità del suo gesto. Nel supplemento di rapporto l’arbitro ha però scritto che si trattava di ‘condotta violenta e non antisportiva, ma di non aver proceduto con l’espulsione del giocatore non avendo veduto direttamente né lui né i suoi assistenti il gesto’. A sopperire, però, ci hanno pensato i telefonini degli spettatori in tribuna. E per la prima volta in Promozione ci ha pensato la ‘prova tv’ ad aiutare il giudice sportivo”.
Quando Andoni Goikoetxea, il 24 settembre 1983, frantumò in tre punti la caviglia di Diego Armando Maradona si prese la nomea di giocatore più cattivo della storia; rimediando ben otto giornate di squalifica, un’enormità per i tempi che vedevano numerosi altri assassini a scarpino libero (come Vinnie Jones).
Caro Falcioni, è capitato male. Ha sbagliato epoca. Sotto tiro non è Lei, bensì il testosterone. È lo Spirito dei Tempi a travolgerLa. Ci pensi, Falcioni, le prossime domeniche della sua vita, mentre si allenerà tirando alla serranda del garage.

Queste parole disgustose, le mie intendo, fanno di me un potenziale omicida, me ne rendo conto. Anzi, ora che mi ricordo (il reflusso gastroesofageo della scrittura riporta alla luce le vergogne più riposte), una volta spaccai il mignolo d’un mio compagno di scuola. Nel senso che il dito si ritorse innaturalmente all’indietro, ad angolo retto. Come feci non lo so. Una gara di calci? Vostro Onore, il mio fu un atto non intenzionale, chiedo perdono al mondo, avevo quindici anni! Sì, certo, comprendo. Mio dovere è però inviarla presso una struttura dell’Attis e Cibele Inc. per una revisione dei meccanismi ormonali.

Un sacerdote, stavolta spagnolo, si infervora  nella predica: “Il diavolo ci fa cadere nel peccato per poi accusarci davanti a Dio!”. Dopo il missa est, chiedo conto di tale comportamento diabolico, da agent provocateur della Digos, non del tutto perspicuo. “Ci accusa davanti a Dio perché ne è uno strumento. Il Male, inveratosi nel Maligno, è parte e succube del Bene che necessariamente vince”, azzardo. La risposta, in mezzo madrileno, un po’ bofonchiata, un po’ orecchiata, la riassumo così: “Ma no, il Bene, cioè le opere che Dio pone in essere non possono essere toccate dal Male; Somma proprietà, che solo a Lui appartiene, è trarre il Bene anche dal Male”. “Ah, ecco!”, gli dico. E me ne vado, anche per non inquinare la sua sacrosanta ansia da caffellatte. Ma non sono soddisfatto. La teologia è la suprema razionalità. Far quadrare qui gli ingranaggi spiega noi stessi. Questo diavolo, vittoriosamente tentatore, che va a farsi bello col Principale come un Tajani qualunque poco mi persuade. Ecco, invece, il mio dysangelium: Dio è la Totalità. Opera stragi, instilla follie, reca infelicità. Il diavolo è un Suo strumento, uno dei tanti, l’Impensabile. Il Male, così accortametne generato, permette all’umanità di resistere nella pienezza della Vita. Si tratta di un affinamento. Della sfida immane lanciata da chi ci ama senza residui. Egli stesso patì il Male, nella carne terrena. Come potrebbe aver compiuto questo, altrimenti?

Allora, questi tempi ultimi, sono scaturigine di Dio? No, perché qui non opera il Male, ma il Nulla. Il Nulla protozoico  risale le viscere degli eoni per riportarci all’inorganico. Una grande battaglia dovrà, quindi, prima o poi, avere luogo.

Gli unici maschi che vanno bene son quelli del PD. Ne ho incontrati a migliaia negli ultimi vent’anni. Essi sono i democratici. Non alzano la voce, non prevaricano, lasciano briglia sciolta ai figli, vanno alle danze antifasciste, magnificano l’Altro, sempre, qualunque esso sia, purché la presenza di tale Altro dia torto all’Italia tradizionale. Sono esserini infelici, perduti. Il guinzaglio delle proprie convinzioni gli pende come un membro floscio dal collo; resi informi loro stessi. L’occhio, soprattutto, sempre indeciso e lattiginoso; i lineamenti che annuiscono alla mannaia, l’arroganza delle argomentazioni, sempre le solite, a negare la razionalità e l’evidenza, una volta principi cardine della verità. Voi penserete: questo ce l’ha con la sinistra … Ma il sottoscritto per sinistra intende altro. Giorgia Meloni, a esempio, è di sinistra. Quello che l’accompagna spesso, Fratel Sarchiapone, pure. Berlusconi, una volta certo dell’impunità, è divenuto di sinistra tanto che una sua ex fiamma è apertamente lesbica. La destra sopravvive a stento in qualche recita, alquanto goffa peraltro, utile a intortare chi ancora crede nelle leggende aliene: il tetto al contante, il tetto al bancomat, la ricostruzione nazionale, il caro bollette … una scarica diarroica di scemenze, già scoperte come bluff, a nemmeno tre mesi dal voto … eppure c’è chi spera. Oltre il 60% degli Italiani spera. Il mondo è di sinistra, come previde l’Illuminato John Lennon in Imagine, o il demonologo invertito Kenneth Anger. La cornucopia di sinistra vomita il suo bene ogni giorno che Lucifero, Re del Nulla, manda in terra. La libertà, soprattutto, la libertà. Liberi tutti, ben presto. Per assenza metafisica e giuridica di colpa, figuriamoci di pena! La pedofilia arriva a grandi passi, come previsto, la depenalizzazione dei reati di sangue è, di fatto, tra noi, anche se i fessi credono che esista una magistratura giudicante; il suicidio è una conquista cui si può ricorrere in ogni momento; si celebreranno nozze con cani e gatti, fra tre, cinque, dieci persone. Le orge sono la libertà, la libertà assoluta è un’orgia. Lo spegnersi dell’umanità è dietro quell’orizzonte che nessuno più scruta. La fin absolue du monde. E non sarà sparizione che farà posto ad altro poiché, ancora una volta, si sono sbagliati i calcoli. E che oggi, a mondiali di calcio in corso, viviamo la catastrofe, l’attesa gnostica della fine, nessuno lo dice apertamente. Mi tocca dirlo a me.

In tempi aridi come questi occorre una disciplina sovrumana. Le tentazioni sono molte, per chi è contro. Bisogna rifiutare la lectio facilior. La coprolalia dell’insulto, la goliardia, il compagnonismo. Bisogna distillare la razionalità dell’odio altrimenti si perde progressivamente il rapporto con la realtà. Selezionare, sempre e comunque. Letture, scritti, bersagli.

Inevitabile che ci scatenassero contro i teneri esserini del futuro. Di solito in lingua inglese, coi capelli rosa, il piercing e un’ignoranza senza pari di ciò per ciò che li ha preceduti. I senza ombelico, allevati in reparti specializzati nelle Università del Nulla, concionano senza requie sul passato, la vita, l’audacia, la follia. Si preparano a distruggere tutto. Il loro fanatismo è radicato naturalmente: ne deriva un istinto di devastazione assoluto mai incarnatosi prima nella stirpe di Giapeto. Sono come i Nexus6, ma privi di ricordi impiantati. Tabulae rasae all’attacco. Imbratteranno il mondo.

Come siamo arrivati a questo? Basta compulsare gli inserti femminili de “Il Corriere della Sera” e di “Repubblica”. Si tratta di una biblioteca del disprezzo indotto. Gl’Italiani mammoni (in America a diciotto anni vanno fuori di casa! Al college!), il patriarcato mediorientale (per fortuna le donne iraniane si fanno i tatuaggi e il piercing al clitoride! Resistete!), le casalinghe disperate (ammirate, invece, l’indipendenza di Nara Stabocchi, che a vent’anni già guida un’azienda di cento dipendenti!) … e poi la grande attrice hollywoodiana contro le molestie (sexual harassment in the workplace), il reportage antimafia con l’eroina antimafia, il magistrato antimafia, il femminiello antimafia, il ritorno del grande cantautore e le sue schitarrate per la libertà dei popoli prigionieri della non libertà (Nordcoreani? Africani?), la trans albina che lotta contro le discriminazioni in Angola, il grande, grandissimo, autore israeliano col suo romanzo generazionale. Tutti a trangugiare questo veleno, per anni. Perché si era di sinistra, o di centro sinistra, o moderati, ma  sempre a questo trogolo si pappava. Solo l’Italiano faceva la figura dell’imbecille in tali pagine patinate, in cui, accanto alla fame nel mondo, apparivano pubblicità di Rolex e haute couture, così, senza rimorso o cesura. L’Italiano, invece, risultava sempre ultimo. Qualunque statistica sciorinata da questi delinquenti dello spirito ci vedeva fanalini di coda, assieme a Grecia e Portogallo. Riciclo dei rifiuti: terzultimi; libertà delle donne: penultimi; tempo di lettura medio: ancora penultimi; preparazione matematica: ultimi, di sicuro; comprensione del testo: penultimi; traffico metropolitano: ultimi; lunghezza del membro: quartultimi, seppur migliori di giapponesi e andamani (i cinesi non si sono prestati alle misure; gli americani tra i primissimi, forse perché quasi tutti circoncisi. Non ci credete? Recuperate D-Donna e fatevi una cultura sui cazzi mozzi). Ci hanno rimpinzato di merda, inevitabile che si sia diventati un popolo di merda.

Ma dove diavolo sei finito?”, esordisco al telefono appena sento la comunicazione attiva. Un’esitazione all’altro capo. “Sono finito male”, mi risponde una voce stanca. Si tratta di uno dei miei interlocutori privilegiati che soprannominai, circa cento anni fa, il Sellin Fuggiasco, poiché si diede a chiappe levate dall’allora caravanserraglio di Nicola Vendola. Lavora a non più di un chilometro di distanza eppure era sparito letteralmente dal radar. Lo ammetto, non sono socievole, ma neanche un orso grigio, almeno coi vecchi sconfitti. Lo aspetto in un bar lungo via Cicerone. Sono già lì, seduto a un tavolino interno. Da fuori lo vedo arrancare sul marciapiedi. Smagrito, invecchiato. Anzi “anvicchiuzzito”. “Tu non cambi mai, eh”, mi fa, cadendo sulla sedia come un sacco floscio. “Ma no, sono cambiato anch’io. Uso un altro dopobarba. Insomma che combini? Vuoi qualcosa da mangiare?“.
Non risponde e si mette a giocare col dado di legno segnaposto. Comincia a prenderla alla larga, poi snocciola il cahiers de doleances. Attenzione, non politico, com’era solito fare. Ma della sopravvivenza quotidiana. Le pagliacciate di partito le ha abbandonate definitivamente, ora mira al cuore del problema: scapolare il presente. A tratti recupera il sarcasmo, un baluginio verbale di pochi secondi; poi riprende il rosario di sventure … lavoro, famiglia … mentre parla mi guardo nel retro metallico del portatovagliolini che rimanda la parte sinistra della mia fisionomia; mi accorgo, ancora una volta, di quanto sia invecchiato anch’io. SOn oalla fine della pista. Dal barbiere le ciocche cadono grigie. In fondo sono stanco: “Gli uomini come me – possessori del passato – vivono in uno stato tale di frustrazione: il non vincere mai, e l’essere votati alla sconfitta, inaridisce. Ecco dunque la decisione che si deve prendere: o lottare veramente per ottenere qualche vittoria (nell’orizzonte mentale della nostra vecchia cultura), o accettare di rendersi complici di ciò che consideriamo «sacrilegio», ma che la storia stessa sta compiendo”. E si era nel 1969. D-Donna era ancora di là da venire. Esistevano uomini con del sangue nelle vene, gente disposta a sacrificare sé stessa. Ma ora? Mi ritrovo con questo rudere in un bar del mezzo-centro di Roma a parlare di IMU. Perché a questo l’assalto del Potere ci ha ridotto: a parlare di imposte. Hanno gradatamente occupato tutti gli spazi vitali, regolamentato ogni minimo dettaglio dell’esistenza. Siamo prigionieri d’una ragnatela. Qualche tempo fa diedi una mano allo stand di un’associazione di bimbetti che si occupano di pittura e modellato. Vendono le loro cosette, ci fanno qualche soldo, ricomprano il materiale (colori, creta), a volte donano qualcosa all’associazione di ragazzini affetti da sindrome di down della loro stessa scuola. Eppure il presidente dell’associazione era un po’ deluso. “Ci hanno fatto un esposto”, mi dice. “Un esposto?”. “Perché non possiamo vendere … solo ricevere offerte … non abbiamo partita IVA, a dire la verità non siamo neanche registrati all’Agenzia delle Entrate”. La cosa mi sembrava lunare. Non riuscivo a connettere il fisco ai cani di creta colorata e ai quadretti con gattini. Chiesi lumi a un esperto. “In effetti non rischiano nulla … forse … però se è accertato un introito possono divenire … intendo i membri … aggredibili fiscalmente …”. “Non credo d’aver ben introiettato la notizia… Arrivano le raccomandate agli scolari? Fammi capire”. “Ma no, non arriva nulla. Però è meglio che si mettano in regola … la gente è invidiosa … il Presidente … i genitori, insomma … è meglio che si registrino all’Agenzia … con un trecento euro sbrigano tutto … e poi redigere i bilanci … piccole formalità … meglio così, no? E poi adesso ci sarà un cataclisma nel mondo del volontariato e della promozione sociale … con il RUNTS … il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore … è un gran casino … l’upgrade, come al solito, coinvolgerà anche le realtà più minuscole … presto ci diranno dove pisciare”. “E chi l’ha voluto il RUNTS?”. “Nessuno l’ha voluto. Quindi tutti”.

Una società che restringe a tal punto l’ambito paradisiaco dei comportamenti non pesati del diritto è non soltanto, come ritenevano i giuristi arabi, una società ingiusta, ma è propriamente una società invivibile”, così l’incipit di Giorgio Agamben dal suo ultimo scritto: Il lecito, l’obbligatorio e il proibito. L’Italiano sfinito, depresso, infelice nasce proprio di qui. L’invadenza e l’invasione dello Stato in ogni ambito del vivibile. Per monitorare, regolare, insinuare la propria presenza. Dappertutto. Persino nelle mance dei camerieri. Ovviamente il fine non è regolare o monitore, bensì sopprimere. Tutta la storia del contante e del tetto al bancomat, una sciocca parodia in cui ogni deputato o senatore, si trova d’accordo, ma fa finta d’esser disaccordo, è qui riassunta. Non c’entrano i soldi. Non c’entrano le banche. Il succo è: l’Italiano non deve, mai, essere liberos-pensierato; devono essere spazzate via, e mai più esistere, le riserve di caccia. Ogni metro quadro di terreno vivibile ha da essere inquinato da una leggina, da un regolamento, da una dichiarazione firmata, una PEC. Il risultato ambito, ambitissimo, consiste nell’immiserimento creativo di una nazione fra le più creative di ogni tempo. Oggi l’Italia è bloccata, di fatto e di diritto, costretta in una camicia di forza terrificante. Persino vendere i giornaletti sul muretto sarebbe oggi impossibile. Sono sicuro che, prima o poi, arriverebbe qualche scansafatiche col cappello a cicalare di occupazione di suolo pubblico. Per tacere delle limonate e dei pasticcini che, da ragazzini, si offrivano al mercato rionale, al principiare dell’estate, una volta che la scuola era finita, per racimolare qualche mille lire: probabilmente oggi chiamerebbero la ASL per verifiche.
E tutti quegli articoli, saggi, intimidazioni, prese in giro sul laissez faire, il liberalismo capitalista, i “lacci e lacciuoli” confindustriali, la superiorità del mondo protestante … come la mettiamo? Dieci, venti, trent’anni a cianciare di libertà per ritrovarci a fare autodichiarazioni di esistenza in vita? A vergare, per l’ennesima volta, il nostro stramaledetto nome e cognome e data di nascita all’ennesimo bugliolo nazionale? Quante volte lo volete questo nome? Chi diavolo volete che sia a fare questa richiesta? Codice fiscale, firma digitale, PDF, PEC, SPID per controfirmare, ancora, la decimillesima istanza che si potrebbe ottenere in tre secondi? Questo laissez faire allora dove si trova? Sotto il letto di Milton Friedman? Evidentemente il liberismo non è mai stato tale, ma solo un sistema farlocco per annientare noi stessi. Ottenuto il risultato, si è rivelato per quello che è, sopraffazione da Monarchia Universalis. Un mondo interamente ritmato da regole impalpabili e ferree in grado di annientare ogni anelito di autentica libertà e creatività. Così è. Il 99% dei saggi e delle monografie di questi ultimi trent’anni sono inganni e prese per i fondelli. Italiani o angloamericani che sia, essendo i primi delle timide traduzioni dei secondi.

Scendo le scalette di un mercatino dell’usato. Non ho ancora perso, purtroppo, il vizio della lettura. Un tizio mi fischietta dietro, tutto allegro. Ma chi diavolo è? Mi faccio da parte, mi supera. Il classico tipo del bibliofilo sciroccato, mi dico, di quelli comunque impaccati di soldi e che accatastano dieci o venti libri. Pieni di richieste sciocche  (“Dove posso pagare questoooooo ….!”, inalberando un dei tomi prescelti. “E dove vuoi pagarlo? Magari in quel luogo sovrastato da un cartello 2×1 dove c’è scritto ‘cassa’?”) che rompono i coglioni a tutti e verso cui tutti, però, chissà perché, sono deferenti. Ma dove l’ho già visto? 1,65, vestitazzo casual, barba e baffi ingrigiti, un’epa di formidabile rotondità e consistenza in grado di esiliare a pertinenza la restante persona. Il tizio pare seguirmi, ubiquamente. Scelgo un buon volume su Balthus, della Skira, pago una miseria  (6 euri) e scappo. Per poi ritrovarmelo all’entrata. E allora m’illumino. Ora che lo osservo di fronte … ma certo, trattasi nientemeno che di Luca Telese! Ma sì, è lui! L’uomo dei cuori neri. E poi dei cuori rossi. A piangere i morti destri del terrorismo e poi i morti sinistri del terrorismo. Il comunista che scriveva su “Il Giornale” del perfido destrorso Silvio Berlusconi! Il giornalista sposo di Laura Berlinguer, figlia di Enrico! Il cognato di Bianca! Bianca Berlinguer, che, a trent’anni, fu chiamata da Sandro Curzi al TG3! Inaspettatamente!

Narra la sorella Laura che, allorquando Bianca rivelò al Papà la sua intenzione di fare la giornalista, questi, dopo un breve silenzio berlingueriano, le disse di comnciare dall’arabo. Impara l’arabo, un giorno verrà tutto di là. E Bianca, giudiziosamente, cominciò a faticosamente rovistare nell’ABC dell’Aquila di Saladino. I risultati furono magri, chiosa Laura, ma il sogno di Bianca si realizzò lo stesso. Ella, infatti, fu chiamata.

A distanza di tanti anni, mi chiedo spesso, calpesto e deriso, chi abbia mai chiamato me. Forse l’Italia? Ho chiamato tante volte l’Italia, ma non mi ha mai risposto. L’Italia chiamò! Sì, ma quando? Ai tempi dell’Aeronautica Militare, certamente. 200.000 lire al mese. Poscia, quando ebbe a furoreggiare Equitalia, una decina di volte. E quindi … l’Italia chiamò … quando? O forse era l’Agenzia delle Entrate? Perché pure questa, non si sa perché, avendo il tenore di vita di un canarino, mi chiamano con frequenza. Vero è che rispondo solo con pernacchie, però … l’unico filo che un cittadino intrattiene con il proprio paese sono i timbri di qualche impiegatico psicopatico, di quelli che chiedono il bancomat per pagare euri 1,50 alla Casa Comunale di Roma.

Questa mania della bibliofilia, però, deve smettere. È una malattia. Per fortuna ho fatto fuori quasi tutto il Novecento. Sopravvive poco. Calvino, Moravia, Fenoglio, Pavese, Eco e compagnia li bruciai qualche anno fa. Mi rimane una raccolta di Buzzati (i racconti fantastici), l’opera omnia di Gadda, il Pasolini degli scritti sulla società, poco di Papini e Malaparte. Ho tenuto Federico Zeri. A vent’anni sei diverso dai trenta; superati i cinquanta entri in terra aliena. Gli scaffali dei libri mutano. Da vivaci impalcature sempre in movimento degenerano in necropoli d’insofferenza. I Francesi … a che pro? Dopo Baudelaire mi tengo Céline, Cau e Raspail e altre briciole. I crucchi mi danno, oramai, ai nervi. Letteratura americana? Solo Philip K. Dick e la trilogia di McCarthy, oltre ai finti americani: Eliot, Lovecraft, Bierce, Hawthorne, Poe. Ambrose Bierce … l’avete mai letta The damned thing? No? Sapete qual è la miglior resa filmica di Bierce? Di un regista serbo.
Sudamericani? Solo Borges, Bioy Casares e affini.
Cortazar? Mi fa venire l’orticaria. Marquez, Vargas Llosa. Per carità.
Solo la classicità mi rasserena. A esempio l’Halieutica (Sulla pesca) di Oppiano di Anazarbo (oggi in Turchia); un’operina in esametri sulla fauna marina che il Nostro compose in onore di Marco Aurelio durante un soggiorno presso l’isola dalmata di Melite. Dell’Halieutica venni a sapere da un trattatello, se non ricordo male, di Marcel Detienne ove si citava il poeta cilicio riguardo il comportamento difensivo della seppia:

Su queste astuzie ancor stanno le seppie:
hanno esse ne’papaveri racchiuso
un negro sugo, più scuro di pece,
d’un’umida caligine, rimedio
invisibil, che in lor si nutre, schermo
di morte …

Questi uomini … la loro deferenza nei riguardi della natura, il rispetto della forma letteraria per cui il rigore dell’osservazione scientifica si sposa benigno con quella della versificazione … e poi i nomi … il dolce accenno, sempre presente, a mari e terre che ci videro nascere – la nostra patria.

Ci si deve liberare dei miti. Un gendarme non ha un Don Matteo che ne diriga la filantropia e nemmeno Salvo Montalbano nell’organigramma. Egli esegue gli ordini. Se questi contemplano la distruzione dell’Italia egli esegue. Il medico esegue, il chirurgo anche; e così il finanziere, l’impiegato allo sportello, l’addetto cimiteriale, l’infermiere, il dirigente scolastico. È lo Stato, signori, quella macchina svuotata di senso di cui subiamo la potenza residua. Un basso patriziato che non ci farà sconti perché siamo Italiani e una volta si tifava assieme Paolo Rossi; nessuno risponderà agli appelli. Questa gente la notte dorme saporitamente. O sono psicopatici oppure eseguono gli ordini. Se anche ammazzassero milioni di noi continuerebbero a ronfare. Nel loro sogno di giusti l’IBAN frinisce come un’incandescente locusta metallica.

Ci dobbiamo sbarazzare di qualunque santino. Persino di quelli apparentemente innocui e amichevoli. Se sono tempi di rifondazione ideologica lo saranno anche per noi. Il santino di Sandro Pertini. Immodificabile, con la pipa, l’entusiasmo al Santiago Bernabeu, la partitella a tressette sull’aereo con Bearzot, gli appelli ai giovani. I giovani. I giovani. I giovani. “Valerio [Verbano] era morto da pochi mesi [22 febbraio 1980]. Io e Sardo [Carla e Sardo Verbano, i genitori] ricevemmo una telefonata: era il Campidoglio. Ci chiesero se desideravamo partecipare alla commemorazione delle Fosse Ardeatine [il 24 marzo]… La macchina del Campidoglio venne a prenderci davanti al portone, lì dove c’è la lapide … ci portò alle Fosse Ardeatine. Quel giorno pioveva. Ci fu la cerimonia, sul palco insieme con noi c’erano il sindaco [Luigi Petroselli] e il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Mio marito aveva una vera passione per lui,  una stima inesauribile, quasi un’adorazione. Alla fine delle celebrazioni, il sindaco si rivolse a Pertini, accompagnò le parole con un gesto della mano, da lui a noi: ‘Posso presentarle i genitori di Valerio Verbano?’ Pertini diede un colpo sulla mano del sindaco, si voltò e andò via. Il sindaco lo seguì ossequioso. Nostro figlio era morto da pochi mesi. Io e mio marito rimanemmo sul palco, a guardarci, soli com’eravamo ogni giorno”.
Qualche anno prima (1973), in un’intervista a Oriana Fallaci, Pertini parla dei fratelli Pippo e Eugenio. Pippo, il milite fascista, iscritto al PNF dal 1923 (“Ci togliemmo reciprocamente il saluto. Se per caso ci incontravamo per strada, io guardavo da una parte e lui dall’altra. Se io andavo da mia madre, lui non ci andava. Se lui andava da mia madre, io non ci andavo. Per non vederci”); ed Eugenio, fucilato come resistente comunista nel campo di Flossenburg, il 25 aprile 1945. “Mio fratello Eugenio e … prima Pippo e poi Eugenio e …Oriana… mi creda … abbiamo pagato… Oddio!”.
L’impressione è che Pertini, anche quando parla degli altri, parli di Sandro Pertini. Pertini, infatti, fu anche questo. Un egocentrico, e pure un combattente dal fegato d’acciaio, l’uomo sprezzante che rifiutò il saluto ai genitori di un giovane assassinato e al proprio fratello, colui che trovò il coraggio di votare contro l’adesione dell’Italia alla NATO, nel 1949; tutto questo. Ma chi mai ci ricorda tale impasto umano?
Ognuno canticchia Toto Cutugno.

L’omicidio del diciannovenne Valerio Verbano è uno dei tanti casi insoluti degli anni di piombo. Pochi giorni dopo il delitto la Procura smarrì il cruciale dossier da lui assemblato in cui poteva rinvenirsi il movente; ne fu ritrovata in seguito una copia, ma, come dire?, si trattava d’un sunto depurato del meglio. Anni dopo, nel 1989, il magistrato competente ordinò, invece, la soppressione di fondamentali elementi di prova (il passamontagna, la pistola): il tutto a termini di legge, sia chiaro. Altri elementi, invece, scomparvero qua e là, senza un motivo. Non si trovano, dissero. Quando, negli anni Duemila, un altro magistrato era sul punto di socprire qualcosa si trovò davanti il muro della smaterializzazione delle prove. In ogni caso tutti dormono bene.
Carla e Sardo Verbano, comunisti, non trovarono aiuto neanche dai compagni. Il Partito, infatti, non si fece mai vivo con loro. Quando lei, morto il marito, andava a rinnovare la tessera in sezione, manco la guardavano in faccia.
Solo due uomini mostrarono un poco di insperata solidarietà. Il primo fu Giampaolo Mattei, fratello di Stefano e Virgilio, i figli del segretario MSI di Primavalle, morti bruciati in un attentato di Potere Operaio. Il secondo, che li mise al corrente al corrente dei pochi spicci che lo Stato aveva previsto per i familiari delle vittime del terrorismo, Luca Telese.

Occorsero decenni a Carla Verbano per scoprire la verità essenziale sullo Stato, sull’assassinio insoluto del figlio e sul patriziato che decide la vita e la morte dei cittadini, ogni giorno. L’essenza cristallina del Potere, quella che colpiva Walter Kurtz in piena fronte, fra gli umidi afrori del Nung: “Io odio i film sulle BR e sul terrorismo rosso e nero, perché … li mostrano come eroi sbagliati, i protagonisti e i coprotagonisti, ma li fanno sempre avventurosi ed eoici anche quando vogliono metterne in evidenza la pochezza; li raccontano sempre con ques’aura di fascino, si esattezza rivoluzionaria, di piani studiati nel dettaglio. Invece a me quegli anni, a volte, sembrano più le comiche …. Uccidere qualcuno perché lo si scambia con un altro, solo perché il passante ha il cappotto dello stesso colore del bersaglio, non è una cosa seria”.

Sì, non è una cosa seria. Come nei due anni COVID. Abbiamo letto e visto e ascoltato tutto e il contrario di tutto, a caso. Come allora, non è stata una cosa seria, ma un’operazione di psicopolitica dettata da palazzi di cui si intravedeva a stento il mezzanino. Il patriziato di casa nostra ha solo eseguito. Farsescamente. Se qualcosa rischiava di deviare dal corso prestabilito degli eventi, intervenivano i servizi devia(n)ti (a raddrizzare la devianza). Niente di più, niente di meno. Lo Stato avrebbe potuto schiacciare il comico terrorismo rosso e nero in pochi mesi. Come dimostrò Dalla Chiesa, peraltro. Però non l’ha fatto perché il terrorismo serviva ad Altro. Lo Stato avrebbe potuto svelare la truffa del Coronavirus in pochi giorni. Però non l’ha fatto perché la recita ne preparava di ulteriori, più importanti. Quanti giovani Italiani si sono scannati? Quante madri hanno pianto? Quanto dolore è stato sparso? Quello necessario, risponderebbe Qualcuno.

Passo in Prati, a via Faà di Bruno, verso le 16.30. Una merceria: “Da Graziella”. Un’anziana signora siede all’interno, le spalle un po’ ingobbite rivolte alla sede stradale, la testa canuta rischiarata da un neon da negozietto anni Settanta. La scritta “Da Graziella” è composta da scotch colorato in rosso, un grossolano restauro, forse, d’una più ambiziosa che ornava la vetrina nel passato. Un paio d’ore dopo ripasso. La gola mi fa male, l’aria si è fatta umida. La signora è sempre lì, nella stessa identica posizione, solo il capo è fisso, chinato al pavimento, rivolto, come prima, verso l’interno. La stanzetta, che il neon ora rischiara con più forza, è vuota. Non so cosa si aspetti Graziella, ammesso che sia lei. Una lady caduta in disgrazia, ma ancora in ghingheri, che abbisogna d’un orlo? Una vedova dai polpacci erculei in cerca d’un rocco di filo da imbastire? La vecchina ottuagenaria che elemosina un nastro dalla sua vecchia amica di quartiere? Più avanti un’edicola coi suoi periodici impilati, i fumetti accatastati mentre la proprietaria, sfinita dalle alzatacce, guarda fissa il marciapiede e la strada, completamente sgombri dai clienti.
Mi chiedo quanto ci vorrà ancora.
Perché se c’è una cosa che detesto, e la detesto da sempre, è lo stillicidio. Se una cosa deve esser fatta che sia presto fatta.

Ciò che davvero odio nel Potere che ci domina non è l’averci cacciati in un vicolo cieco tramite le centinaia di traditori eletti, cooptati o nominati nelle istituzioni decisive dello Stato, ma averlo fatto spegnendo lentamente il genio degli Italiani: l’improvvisazione bruciante e creativa che reagiva ai rovesci della Storia cioè, in ultima analisi, la forma suprema di intelligenza. Da questo punto di vista si era inaffondabili. Invece si è deciso di lentamente avvelenare il sangue, di immiserirlo, di esporci al ludibrio continuo, incessante; all’autodenigrazione ridanciana.

Esce l’ultimo film con Alessandro Gassman, Io sono vendetta (2022). Per strada noto il manifesto: sullo sfondo s’intuisce un bosco; lui col muso ingrugnito assieme a una ragazzina, probabilmente in fuga … “Minchia, che fantasia … in ventotto anni non gli è saltato in mente manco di cambiare il taglio di capelli alla bimba” … che, infatti, rassomiglia a Natalie Portman (prima o poi Presidente d’Israele, ricordiamolo) in Léon (1994), filmetto d’azione di Besson che ebbe almeno il merito di lanciare il buon Jean Reno. Il solco fra il cinema attuale, diciamo così, e l’action italiano dei Settanta si è fatto talmente profondo da superare la fossa delle Marianne. Non stiamo parlando di Fellini, Risi o Visconti, bensì del cinema popolare dei Settanta, quello di Castellari, Bava e Di Leo che si gustava nelle fumose sala di borgata, sui sedili di legno. I volti, anzitutto, i volti, soprattutto dei figuranti, dei comprimari: volti introvabili, oggi, pure a cercarli nelle carceri o nelle banlieu più estreme. E poi il mestiere, il mestiere. Il saper fare. I ralenty di Castellari, gli inseguimenti e le sparatorie, che hanno fatto scuola in tutto il mondo e si mangiano John Woo con tutte le scarpe. Ma quella era l’Italia creativa, improvvisatrice, che i traditori, già ampiamente forniti di mazzette, col loro eloquio da Yale o da attico in Trastevere, presero a demitizzare e irridere come Stellone; perché i loro mediocri padroni, di cui si compiacevano d’esser sguatteri, erano atterriti dai nostri tre millenni di costruzione culturale.
E poi: Enzo G. Castellari (1938-vivente) fu davvero un artigiano? Gli toccò girare Cipolla Colt, è vero, perché i soldi mica venivano dal ministero della merda pubblica, però è suo anche un noir psicologico come Gli occhi freddi della paura (1971) … qualcuno l’ha visto?
Il mediocre Quentin Tarantino ne ha riconosciuto segretamente la statura ospitandolo per un cameo in non so quale sua sciocca produzione polcorretta.

Quante cose abbiamo date per scontate. Anche Marina Morgan (Marina Meucci, 1943-vivente). Ma l’avete mai vista bene? No, dico … perché Kim Basinger e Farrah Fawcett hanno un loro perché, ma non come la Meucci … a guardarla per bene, dico. Anche perché la Fawcett, benché vistosa, era tropo costruita … in “Charlie’s Angels”, a dirla tutta, pencolavo per Kate Jackson … Certo, pure gli Americani, poi, stanno messi male … basti vedere con chi hanno sostituito nel 2010 il terzetto originale … pure loro c’hanno le paturnie … oltre a dover obbedire a certe esigenze transnazional-uraniste …

A girare per Roma ci si accorge con evidenza sempre più innegabile della deformità fisica degli Italiani. Si crede, forse, che la pace porti donne e uomini belli? Al contrario. La caduta inesorabile del welfare inclina già alcune ragazze a incurvare le gambe, il minor reddito reca la sciatteria. Le classi vedranno riaffiorare negli angoli le racchie, le bollose, le storte. Com’era una volta. Già adesso si vedono poche vere bellezze in giro. Le ragazze son carine seppur di un grazioso anonimo. Dei maschi sarebbe giusto tacere. A furia di castrarli c’è rimasto poco. Esserini snervati ed esangui, neanche buoni da tritare per la sbobba del junk food. Gli tocca fare i gradassi da palestra. Gli steroidi, però, non restituiscono l’onore perduto.

Ma, insomma, quale libro mi consigli da leggere?”. “Stavolta mi supero. Si tratta di un saggio fondamentale, benché misconosciuto, per comprendere onnicomprensivamente l’Italia del dopoguerra. Essenziale, compatto. Come si diceva a suo tempo: propedeutico a qualsiasi rivelazione”. “Ah, bene. Onnicomprensivamente, addirittura! Sei in forma, oggi! E qual è ‘sto capolavoro?”. “L’armistizio. Leggilo. Senza mediazioni. Sta su Internet, è gratis”.

Di Alceste, alcesteilblog.blogspot.com

link fonte – http://alcesteilblog.blogspot.com/2022/12/taci-il-nemico-ti-ausculta.html

03.12.2022

Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

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