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Di Alceste

Roma, 27 gennaio 2024

Si domanda una delle gazzette dell’Illuminismo Nero: “Le auto volanti delle città del futuro faranno troppo rumore?”. E il sottotitolo, sbarazzino, recita: “Quando sulle nostre teste ci saranno le auto volanti l’inquinamento acustico peggiorerà. Per questo gli ingegneri studiano per renderle più silenziose”. La mucca da pascolo delle sciocchezze tecnologiche e il tecnopuero leggono; e sognano; e rimuginano: ma queste macchine faranno o non faranno rumore? Eh, sì, un bel problema … per fortuna ci sono gli ingegneri … che s’ingegnano … e risolveranno, sicuramente … quando mai non hanno risolto qualcosa, loro, gli uomini della scienza, in camice e alambicco? Per il tecnopuero il problema sono i decibel delle auto volanti, non l’esistenza delle stesse, ch’egli già vede rigare i cieli d’una città formicolante e automatizzata, in cui umani e androidi coesistono e la felicità, guidata dal progresso ateo che sempre avanza, la si stacca dall’albero di pomi del Bene. Per carità, a “Focus” e al castrone da fattoria 2.0 mica gli passa nella capoccia ch’egli non guiderà un tubo, né per terra e né per mare, che la sua esistenza, già grama, sarà ridotta nei loculi della Monarchia Universale, soli, consumati nella depressione che, a tratti, in violenti raptus, si sfoga in verde livore … contro chi? Contro chi gli indicheranno, la lattigine del PC a illuminare volti tirati, senza scampo. Non c’è niente da fare, il micco da “Focus” s’immagina già sull’auto volante, mentre chiede il permesso al roboserver di attraccare al ventiduesimo piano nel condominium di prima classe nel caseggiato medio-patrizio del settore metropolitano Est/4 di Alma … il loft panoramico già riscaldato, la collaboratrice o il collaboratore androidi già pronti a soddisfarlo mentre l’olovisore seleziona i punti di prospettiva migliori per godere della partita di Supercoppa d’Asia Shanghai – Tehran. Non lo mette in guardia il proliferare dei rottami, a milioni, dagli smartphone ai tostapane, il malfunzionamento strutturale degli ordigni digitali, il fatto che ogni trovata (scale mobili, tapis roulant, asciugatori, condizionatori) deperisca nel giro di pochi mesi e che, nonostante i miliardi di euro investiti, non si riesca a risolvere alcunché ricorrendo alla tecnologia celeste e che i mirabolanti uffici del terziario, open air, siano ricettacoli di lerciume e sfruttamento.
Macché, a lui importa il sogno, che il sogno continui; il sogno che non ben precisate entità, altruiste e benigne, lavorino per lui, incessantemente, escogitando sempre nuovi gadget per rendergli la vita facile … i nuovi chirurghi del futuro, i robot! Quelli mica sbagliano! Ah, il progresso … poi la ASL gli assegna una TAC nel 2025 …
E invece sarà pianto e stridore di denti, lì, nel cubicolo, dove, forse, permetteranno, oltre agli elettrodomestici ricondizionati, di tenere un pesce rosso di gomma.

L’Illuminismo Nero molto ha promesso, e le moltitudini ancora vi credono. Concedendo qualche mirabilia, ma, ecco il trucco, sempre in cambio di qualcosa: che ora non è più possibile recuperare. Tutto ha un prezzo, dicono i turbocapitalisti. Peccato che nel contratto che il nostro tempo ha stipulato con la promessa del progresso illimitato, il “do”, pendant di “ut des”, fosse scritto con l’inchiostro simpatico. E, però, ora che ci si avvicina ai roghi finali, quelle righe cominciano a risaltare sulla pergamena dell’inganno: sì, par di capire, dobbiamo al futuro una libbra di carne. L’ultima, poiché le altre, senza che nessuno se ne accorgesse, sono già state riscosse dal fattore. Certo, a suo tempo, occorreva dire di no, un no che fosse un no, ma chi ha mai avuto il coraggio di esclamare questo scandalo?

Liofilizzazione, da liofilo (greco λύω, lio-, ovvero “sciogliere”). La liofilizzazione, leggo da un sito a caso, “è un essiccamento sotto vuoto spinto di un materiale preventivamente congelato, mediante il processo di sublimazione, ovvero il passaggio diretto dallo stato solido (ghiaccio) allo stato di vapore (eliminazione dell’acqua)”.

 

Lo spirito dell’oggetto, ciò che lo lega assieme, come il ferro lega il fasciame d’una nave, evapora, entro una vacuità indotta; ciò che ne rimane è il prodotto della liofilizzazione. Questo banale processo lo si applica anche a stati d’animo, a emozioni, alla conoscenza, all’istituzione tout court: l’Illuminismo Nero lo pratica da qualche secolo. Il risultato finale, distillato grazie ad alambicchi sempre più efficaci, è l’homunculus attuale, sorta di hollow man o stuffed man su cui ammonì, inascoltato, Thomas Eliot.

Si arriva alla liofilizzazione escludendo la profondità, in ogni campo. Dileggiando, a esempio, ogni manifestazione che coinvolga un legame diretto fra l’uomo e la perfezione; impedendo il rapporto con la terra; restringendo il campo visuale alla mera pratica in una ristretta area tecnica: a preterire la scienza; eliminando la forma nella lingua scritta e parlata (l’ortografia e la polisemia, lo si ricordi, sono armi rivoluzionarie); persino l’abolizione delle sfumature nel gusto papillare contribuisce alla liofilizzazione umana: quanti ragazzi, oggi, conoscono il sapore della ciliegia, dei fichi, della castagna, o delle uova fresche, costretti come sono a ingoiare insapori banane a un euro dodici mesi all’anno? Il cui prezzo, inalterabile, sembra fatto apposta per addestrarli alla scimmiesca mancanza del gusto. L’attacco alla polisemia del cibo è diretto e certo: lo certifica, immancabilmente, il proliferare di finti chef e cuochi nonché di rubriche, libri e video su come preparare il soufflé della nonna (che non sa di niente dato che le patate provengono, debitamente depotenziate, da casa del diavolo).

Si nasce, si sopravvive, si muore. La nascita non è più regno della famiglia, la vita è stanco reiterare dell’eguale, la morte putrefazione: tanto che il corpo lo si può riutilizzare quale concime. Ogni istituzione fondante dell’umano ha subito attacchi sistematici. Adozioni per uranisti, parti extrauterini, anzi nessun parto ché il neonato produce anidride carbonica; una vita incolore, perduta tra fatterelli, senza reale scopo: l’amore equivale alla violenza, la fede alla burla, l’arte declina nei defecatoi, il passato è una farneticante pinacoteca di orrori. La morte viene privata di quegli istituti mistici che le conferivano aura di bellezza: il compianto, il ricordo, la gioia nel trapasso a una generazione più giovane, ma devota all’antenato; la tragedia dell’uomo, ma sublimata. In poche parole: la multicolore e sgargiante ricchezza dello spirito, tracotante, paradisiaca, disperata, pietosa o felice, trascolora in un grigiore assassino, fomite di istinti suicidari. L’omarino attuale, quello che ciancia di fascismo e pari diritti, non è nient’altro che la trasmutazione alchemica di ciò che fu in una dilagante cachessia. Basta leggere gl’intellettuali della liofilizzazione, anzi ci basta vederli in faccia: deperiti, piccoli, dal fiato corto, inermi, ottusi; vogliosi di gabbie, di cubicoli cancerosi; dalla prosa fragile, tecnica, insignificante; fitta di squilibri logici e non sequitur, e, perciò, arrogante, di quell’arroganza propria ai morti-in-vita che anelano trascinare con sé l’umanità stessa.

La cachessia, il deperimento dell’umano, metastatizza con fare casual, inavvertito: “La regina Margrethe II di Danimarca ha formalmente abdicato nell’anniversario della sua incoronazione avvenuta 52 anni fa. Ora il trono va al figlio, 53 anni, che diventa re come Frederik X. Oltre 500mila persone che hanno preso parte all’evento a Copenhagen presso il palazzo reale di Christianborg. La sovrana che ha 83 anni ha deciso di lasciare il trono per fare spazio alla nuova generazione …”.
“Il Corriere della Sera”, megafono dei liofilizzatori, coglie meglio il punto: “Una cerimonia ‘laica’ come dopo le abdicazioni in Belgio, Olanda e Spagna … Frederik diventa re, ma in Parlamento (e senza corona)”. E oltre, da una gazzetta civettuola: “Per farvi capire lo spirito gioioso e divertito con cui i danesi stanno affrontando questo storico passaggio, la pagina Instagram della Casa reale ha postato un breve delizioso video con le immagini dei 52 anni di regno della sovrana. Sublime la scelta della musica di sottofondo: Cyndi Lauper e la sua Girls just wanna have fun, inno delle ragazze di tutte le età …”.
Noteremo come, dall’unzione dei re del Sacro Romano Impero presso la basilica costantiniana di San Pietro, sotto l’altare di San Maurizio, codificata strettamente dagli ordines cristiani, fitta di processioni mistico-costituzionali, e giuramenti, avendo a pegno l’Europa, si sia passati a canzonette pop. In cinque secoli. Il casual è sempre indizio di decadenza. Il casual è il cancro dacché “scioglie” dalla forma, liofilizza, sfascia. Indizi della metastasi nei brani summenzionati: “laica”, “senza corona”, “parlamento”, “Belgio”, “Olanda”, “Danimarca”, “fare spazio”. Da non sottovalutare “ragazze di ogni età” dacché i latori di canizie hanno da comportarsi come adolescenti, pomiciare, ballare e rendersi ridicoli, da Maria De Filippi o a corte, non fa differenza. Il casual vaporizza il tessuto interstiziale dell’umano, lo Spirito, e consegna al bugliolo la creazione celeste.

Scrivere facile … certo, si legge d’un fiat, ma è bene ripugnare tale etica. I poeti facili sono i peggiori, da eliminare definitivamente dal proprio personale orizzonte degli eventi. Occorre, tuttavia, somma attenzione nello scegliere, ci si sbaglia: facilmente.

Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma

equivale, per complessità, a:

Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, flessuoso ramo di cipresso,
hai una tazza nella tua mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo.
Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni”.

Dante riassume la vita di Pia de’ Tolomei in un endecasillabo; poi cita Siena, e la Maremma: il che porterebbe a credere il lettore superficiale ch’egli tratti di due luoghi geografici … e invece sono articolazioni ossee della struttura del mito decisivo d’Europa, l’Italia; per questo in Dante abbondano le citazioni topografiche. In Sayat-Nova, trovatore armeno, non v’è nulla di tutto questo, ma un intrico dolcissimo di allusioni e simboli: il giardino, la coppa, il cipresso che, permutate all’infinito nel canzoniere, mai perdono la loro singola e specifica profondità.
Perché di questo stiamo parlando, delle parole con un sottofondo, di accessi a regni d’interminabile complessità, seppur limpida, logica; decrittabile, almeno sin alla soglia della scaturigine divina, questa ineffabile sorgente della vita.
Ogni parola rimanda a un mondo, che ne riflette un altro; entrambi specchio dell’unica realtà immutabile. La bellezza catafratta di tali rimandi costituisce lo Spirito dell’uomo. L’inganno consiste nel ritenere questo inessenziale quando, invece, costituisce la vostra essenza. Liofilizzare tale essenza celeste equivale a sfasciare la personalità, renderla un puro rottame da naufragio.

Come sempre accade l’omarino postmoderno da un lato nega, dall’altro rimpiange segretamente. È lo stesso processo che rinvenimmo in Hysteria o La pesca. Egli nega la profondità ovvero quella delicata e mirabile costruzione che edificammo per sublimare e cancellare l’istinto che reca alla dissoluzione protozoica: così gli hanno insegnato gli Odifreddi d’ogni risma, sin dai banchi di scuola; dall’altra è punto da una nostalgia per lui indefinibile che cerca di medicare ricorrendo a guazzabugli verbali che, invece d’esser profondi, son sempre o confusamente insulsi o goffamente superficiali. Surrogare la potenza mistica o simbolica ricorrendo a uno spiritualismo new age da dozzina o, addirittura, ingigantendo la falsa libertà dei diritti civili insufflatagli proprio del Potere … noteremo come gli artisti, oggi, siano quasi tutti o libertari o rivoluzionari o malati … per finta, ovviamente … o estendono poemi sulla donna o la chiappa liberata oppure dileggiano la tradizione classica credendosi dei monelli della creazione, come Bacon, che deturpa Raffaello; o Cézanne che crede di riattualizzare Ingrés … al postmoderno, poi, la cui paccottiglia affolla i musei dell’Internazionale Nichilista, è precluso l’antico; non gli rimane che il Nulla, di cui si pasce: le balle bruciate dal Burri o la colata di pongo di Jeff Koons questo è: manipolazione del Nulla, puro deambulare nel deserto, gratuità e scandalo pianificato. Oltre questo nulla, appunto, è; siamo al limitare dell’abisso: o ci si compiace della mistificazione, e del giro di talleri a essa connesso, o ci si suicida.

Il ruggito del topo (The mouse that roared, 1959), un filmino tepidamente brillante di Jack Arnold, tratta d’un insignificante ducato europeo, Grand Fenwick, che vive dell’esportazione del proprio vino. Quando la California ne produce, però, una buona imitazione, l’economia dello staterello crolla rapidamente. Gran Fenwick dichiara, perciò, guerra agli Stati Uniti inviando un esercito di venti uomini a New York, armato di mazze e alabarde … L’intento è di arrivare a un istantaneo trattato di pace, ma, per una fortuita serie di combinazioni, il ducato costringe gli Americani alla resa divenendo uno delle nazioni più potenti del mondo, interlocutore geopolitico pari a Francia e Unione Sovietica … Arnold è famigerato per le sue operazioni vintage sci-fi (Il mostro della laguna neraTarantula!Destinazione … Terra!), ma tale parentesi nella sua produzione mi torna alla memoria, irresistibile, per la vicenda degli Houthi. Gli Houthi, munitissimi e arditi combattenti yemeniti, tengono in scacco l’Inghilterra e la sua digrignante colonia, l’America, e, con loro, l’intero mondo occidentale: sparano missilotti ai cargo di passaggio, addirittura. Le terribili superpotenze, abili a radere al suolo Dresda, Hiroshima e Nagasaki, contrattaccano, almeno così ci dicono, con alcuni raudi mirati e una salva di micidiali tricchetracche. Il Mar Rosso, aorta del commercio mondiale, è stretta in un laccio emostatico. Ne risentiranno (già immagino Federico Rampini farci una desolata panoramica della crisi) i costi, i prezzi, i consumi … leggi: i coglioni al supermercato … non mi addentro, poiché ignorante come una capra andina, nelle delicatissime analisi strategiche … quando tutto, ma proprio tutto, rientra nel più banale impoverimento dell’Occidente per favorire la globalizzazione, e l’imporsi della Monarchia Universale. Globalizzazione significa riequilibrio mondiale: le fogne di Calcutta, insomma, hanno da diventare anche le nostre. In tal senso: quelle indiane migliorano sin all’accettabilità, le nostre declinano verso le loro (di mezzo secolo fa). Dalla nostra prospettiva cosiddetta occidentale globalizzare equivale alla globalizzazione delle pezze al culo. Una volta la globalizzazione, nota al miccame quale capitalismo imperialista colonialista, s’identificava con nazioni precise: America, Inghilterra, Francia, Belgio (quel maledetto Leopoldo!) … ora con l’orbe terracqueo … i padroni son sempre gli stessi, ma spalmano la ricchezza per omogeneizzare e dominare. Ettore Gotti Tedeschi si stupisce, il sottoscritto meno. Ormai siamo al livellamento ottenuto con veri e proprie traslazioni di ricchezza: il settore dell’acciaio conferito da Italia e Inghilterra all’India (all’India!), grazie ad accorti boicottaggi in Patria, è solo un banale esempio (Jean Raspail si era persino tenuto basso ne Il campo dei santi); la faccia da pesce lesso di Biden o le orecchie a sventola di Sunak, ulteriori altri; la privatizzatrice della Garbatella l’ennesimo, seppur meschino; persino la iattanza assassina di Benjamin Netanyahu e le dichiarazioni genocide di parlamentari e ministri a latere rientrano in tale profilo: troppa chutzpah, come a conformarsi a un’idea antisemita dell’Ebreo … per tacere delle manfrine all’ONU, inimmaginabili sino a pochi mesi fa, e dei tunnel nuovaiorchesi, col materasso lordato da riti innominabili … il che, lo si riconosca, ha un bel tanfo da Pasque di sangue … manca solo il meme dell’Ebreo nasuto che si frega le mani … sì, forse anche Israele sta scientemente suicidandosi, aderendo alla propria effige deformata e rinnegando sé stessa, a favore della Pace Universale … Beniamino in pensione … si ritiri nel proprio kibbutz dai rubinetti d’oro e la smetta, per favore … la storia dovrà pur fermarsi prima o poi … anche a Gerusalemme occorre una donna, per sbriciolare, ancora un pocolino, il macigno giudaico che ci assilla dai tempi di Tito … l’israeliana Natalie Portman è la mia favorita, l’ho sempre detto, ma si accettano altre candidature.
Il pietrisco, il pietrisco occidentale, questo si vuole; il resto del mondo conta poco, ai fini spirituali.
Ogni nazione deve assurgere a paria dell’altra; tutte s’inchineranno al Re del Mondo.

Declino di un paese nel settore siderurgico: basti confrontare i cucchiaini da bar di trent’anni fa con quelli di oggi. Qualcuno se n’è accorto? Chissà se esiste qualche bel grafico che incrocia, ascisse e ordinate, il periodo post ’89 con la composizione e il peso dei cucchiaini da bar.

Gabriel Attal è Ebreo sì, ma un Ebreo liofilizzato. Non sa che farsene dell’Olocausto, né dei rabbini e nemmeno del Libro di Ester. Si tratta di un omarino casual, iniziato ai più bassi godimenti e a quel blando machiavellismo amorale cui è ridotta la politica. Egli fu anticipato da chi sapeva, in quanto traditore dell’umanità: in tal caso da Jean-Paul Sartre, in uno dei racconti tratti dalla raccolta Il muro (Le mur, 1939), Infanzia di un capo (L’enfance d’un chef). Sartre, uno dei tanti bari del Novecento, ovviamente tira acqua al proprio mulino: se, però, avete l’accortezza di non soffermarvi su contingenti e ingannevoli termini quali “socialista”, “ebreo”, “fascista”, troverete il reale significato della novelletta, anticipatrice del teatro nichilista attuale.
Essa segue la formazione antropologica di un giovane rampollo, ricco figlio di un industriale di provincia.
Sono un bravo scolaro. No. È solo apparenza: un bravo scolaro ama lo studio, io no. Ho buoni voti, ma non mi piace lo studio … Non sarò mai un capo”, confessa sconsolato Lucien nelle prime pagine. La depressiva rivelazione lo spinge a concepire un Trattato sul nulla. Lucien sente di non esistere, avvertendo la mancanza di una propria definizione sociale, morale. Pensa al suicidio. Stringe, poi, amicizia con l’ambiguo Berliac. Questi gli confida di aver desiderato la madre sino ai quindici anni. Lo istiga, quindi, a leggere Freud; cosa ch’egli fa: “Fu una rivelazione … il vero Lucien era profondamente sommerso nell’inconscio“. Tramite Berliac, conosce un fascinoso pederasta, Achille Bergère, che presto insinua in lui Breton e Rimbaud, oltre ad additargli le dolci mollezze della dissoluzione protozoica, à la Mario Mieli; Bergère, infatti, lo invita nel suo boudoir “zeppo d’oggetti comici e strani: sgabelli col sedile di velluto rosso poggiato su quattro gambe di donna in legno dipinto, statuette negre, una cintura di castità in ferro battuto con spunzoni, mammelle di stucco con dei cucchiaini conficcati dentro; sulla scrivania un gigantesco pidocchio di bronzo e un teschio di Monaco rubato in un ossario di Mistrà …”; quindi lo istruisce circa il suo dysangelium: “Credere che vi siano oggetti specifici del desiderio sessuale e che questi oggetti siano le donne perché hanno un buco tra le gambe, è lo schifoso e volontario errore degli uomini seduti … la prima cosa da fare è persuadersi che tutto può essere oggetto del desiderio sessuale, una macchina da cucire, una provetta, un cavallo o una scarpa …”. Lucien esita: “Se andava sino in fondo, se si dava, sul serio, allo sfregamento di tutti i sensi, il terreno non gli sarebbe poi sfuggito sotto i piedi e lui non sarebbe annegato?”. Ma, al solito, sciolti i vincoli prossimi e sacri, l’Abisso si fa irresistibile. Prima il nepente dell’haschisch, quindi l’iniziazione, ovviamente richiesta, sotto le spoglie d’un moto di rabbia, dallo stesso Lucien, perché è sempre la vittima a concedere il permesso: “Una bocca tiepida e molle s’incollò alla sua, pareva una bistecca cruda … Bergère lanciò un grido di trionfo: ‘Finalmente ti decidi … faremo qualcosa di te’”. E cosa? Lucien esita, deve riguadagnare quel qualcosa, per non lasciarsi riassorbire dal nulla. Ovviamente è impossibile. Anche nell’etica vige la Seconda Legge della Termodinamica. E allora finge. Dapprima l’amore eterosessuale, poi l’impegno nazionalista, reazionario e antisemita, tutto per riacquistare la sanità della mente, resa inferma proprio dai veleni assorbiti. Egli, però, continua a rimanere estraneo a sé stesso, come oggi noi tutti, e ogni opinione o scelta rilevano quali recite di un indifferente. E però la finzione, lo smalto sul nulla, lo appaga: è negli occhi dell’altro a riposare l’orgoglio d’essere qualcosa. Sarà un vuoto, ma conscio di un inalienabile diritto alla sopraffazione, un capo fedele al destino della sua razza, totalitario, troppo in alto per le bestiole. Da lui, un deraciné, superata l’idea del suicidio, ci si può aspettare solo una protervia nichilista di cui la politica e l’economia non sono che blandi travestimenti. Lucien Fleurier è Gabriel Attal, ma anche uno dei milioni di giovani che, mi cito, “vengono continuamente forgiati per adempiere alle scritture della dissoluzione. Vacui, senza opinioni, timorosi, essi si accendono di solerzia, lieti d’esser utili, solo quando il Re del Mondo ne reclama i servigi anomici. In tal caso, il loro occhio brilla: finalmente un ordine! Saranno loro i liquidatori dell’umanità residua, abituati a comportarsi da inumani. Numeri, statistiche, linguaggi deprivati, psicopatie ben temperate, utopie mendaci costituiscono l’imbottitura vana dei loro aridi cuori. Non comprendono, semplicemente. Ai ragionamenti oppongono sorrisi spenti, alla pietà un silenzio terrificante; i gesti più nobili o appassionati gli appaiono vani, frutto d’un moto dell’anima talmente ricco e remoto da farli rabbrividire”.
Essi compiacciono lo Spirito dei Tempi, la strage.

Morta Liliana Segre, e qualche trombettista di rincalzo, Anna Frank e l’Olocausto finiranno come il cane impagliato Bendicò nel memorabile finale de Il gattopardo, luogo letterario da me debitamente e continuamente evocato. Mai ben compreso, però. Come quella frase: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Nulla cambia, ma, in realtà, ogni cosa cambia. Change, we can, podemos. Traduzione: la libbra di carne del nostro passato, corrusco e dolcemente policromo, per trenta denari: ovvero in cambio di nulla.

In giovane età amavo leggere Sartre; condividevo il suo L’esistenzialismo è un umanesimo. Lo citavo ghiottamente. Ciò avveniva perché non ebbi maestri. Un maestro indica la via, l’unica giusta, nel labirinto. Senza maestri si arriva alla svolta sbagliata, presso anditi oscuri: oltre v’è il Minotauro. Si è perduti. Minosse crea il labirinto grazie al tecnico Dedalo; Minosse, il compagno di Pasifae, colei che “s’imbestiò nell’imbestiate schegge”, a saziare voglie ignobili, partorendo la Bestia. Solo Teseo, guidato da Arianna la Luminosa (ari-agnos: castissima, purissima) può rivelare gli inganni e le astute inversioni, i bracci ciechi, i tranelli. Sartre, questo gnomo strabico, sentina del pietismo proletario, elabora la cialtroneria dell’esistenzialismo che in lui “prende la forma di un umanesimo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, ma in una prospettiva soggettivista e relativista”. E cosa vogliono significarci queste nobili frasi, gravide d’una accecante ansia di libertà? Una condanna a morte. È quel “radicalmente libero” che affila le lame del boia … poiché richiama, irresistibile, la scelta … e la responsabilità … quante volte siamo stati redarguiti, noi pochi, da un amabile progressista: la perfezione uccide l’uomo! Il vostro Dio senza macchia schiaccia l’uomo! Lo incatena a un popolo di leggi inconciliabili con la sua natura fallace! Ma è vero proprio l’esatto contrario. È il diuturno riferirsi a un’immacolata e pura pietra di paragone a rendere la vita degna d’esser vissuta; e a viverla, nelle ondulazioni fra bene e male, aspettando di diluirla nell’eterno. Per questo Zolla può esercitarsi in quella sua felice metafora che privilegia l’uomo contemplativo rispetto a quello critico: l’uomo che viva al cospetto della Verità irrobustisce sé stesso come una carpa centenaria che gira attorno alla mola d’uno stagno. Au contraire, come esige Sartre, è proprio la libera scelta a costituire una dannazione; una responsabilità che rende folli, che liofilizza, che drena le forze vitali sino a renderci “stuffed men”  con “dry voices”, incapaci di reggersi in piedi, la testa impagliata … Anche qui vige l’inversione: è proprio l’obbedienza alle leggi della comunità, formatesi nei millenni, a sgravare dalla libera scelta e dalle responsabilità. È l’obbedienza a ciò che ci ha sempre mantenuti in vita a renderci liberi. Il Potere ha sempre contraddistinto Tradizione e Verità come pietre di riferimento da rifuggire. In ogni filmucolo, libercolo o saggetto si è perciò esaltata la ribellione, l’infrazione, lo slegarsi da ciò che si è sempre stati … e ora osserviamo i frutti di questa teologia sovvertitrice: pallidi, smunti, folli, ottenebrati … costretti a rilanciare continuamente le loro menzogne, sempre più lontano, con incedere totalitario.

È morto Gigi Riva. Le prefiche nelle redazioni hanno recitato trenodie per un paio di minuti, poi, ravviatesi la chioma ipocrita, hanno ordinato un bel piatto di rustici e supplì. Scatta, quindi, l’operazione che più sta a cuore: dedicargli lo stadio. Perché è un eroe? Non sia mai! Gli eroi non sono ben visti, potrebbe scapparci l’emulazione, come con Jonathan E., ma solo perché la dedica può scacciare definitivamente un altro impaccio: la memoria del santo cristiano. Certo, a Cagliari la denominazione Sant’Elia è già negletta; per scongiurare ritorni di fiamma, tuttavia, meglio metterci sopra questo monolite bagnato con lacrime da clown. San Siro? Andato pure quello, c’è Giuseppe Meazza. San Paolo? Meglio Diego Armando Maradona. San Vito e San Filippo? Presto sostituiti da Gigi Marulla e Franco Scoglio. San Nicola di Bari? Hanno persino operato un sondaggio per la sostituzione (“Mediterraneo”, “Azzurro” e “Levante” le ghiotte alternative), ma stavolta è finita male, Nicolino ha dimostrato una bella resilienza … per poco, però … già s’intravede, nelle brumose lontananze, l’incedere di altre sagome laiche … Raffaele Costantino o, se gli piglia un sintomo, Antonio Cassano, Dio ce lo conservi!

Ogni tanto mi capita sott’occhi la pubblicità d’un vecchio giornale, oppure rivedo telefilm nostalgici e coriacei, d’un tempo oggi impensabile. Kojak, a esempio. Lo danno su una rete minore, non ricordo quale. Lasciamo da parte Savalas, e il suo straordinario doppiatore Lino Troisi. Soffermiamoci sulle attrici. Attrici americane, puramente americane. Bionde brune orientali negre. Snelle senza essere magre, con lunghi capelli naturali, vestite in modo semplice quanto impeccabile; la recitazione sciolta e credibile. Belle. Alcune più note, come Sally Kirkland, altre di seconda fascia (Sheree North) se non di rincalzo: Kitty Wynn, Juno Dawson, Virginia Vestoff. Qualcosa è accaduto anche lì, mi dico, la devastazione riguarda tutti i centri spirituali, anche quelli secondari, come gli Stati Uniti. Un’attrice, oggi, sembra uscita dal laboratorio del dottor Moreau, il volto picassianamente scomposto, se non deforme; l’esagerazione goffa nelle movenze, lo sguardo istupidito, i paludamenti da strega, e gli ammonimenti etici … ché tutte hanno un messaggio infilato da qualche parte, come la matita del fornaio, dalle evirazioni polcorrette alle scarpette rosse al climate change o ai prepuzi in pericolo, quest’ultimi un po’ in calo, per la verità.

Ma sì, con Theo Kojak ci si riconcilia con la normalità. L’eresia sistematica, infatti, muove al disgusto. Vediti Lanthimos, mi suggerisce un tizio che, lo deduco dall’avanzato stato di corificazione, è di quelli che passa ore a vedere serie su Netflix. Rispondo: meglio Walker Texas Ranger. Appaga il mio buon senso. Ricordate la trita metafora: i nani sulle spalle dei giganti? Nel perseguimento della sapienza vale il contrario: le ricognizioni nelle superne cose de l’etternal gloria abbisognano delle quotidiane nappine color pimpinella, d’un presente gozzaniano, familiare, del solido focolare. Chi nel pensiero finge interminati spazi, e sovrumani spazi, e profondissima quiete, torna alla base tremante di verità. Cosa vuole, allora? Vuole Carluccio, Paolina, il gelato, la scampagnata. “Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno dei miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto …”. E a Pietro Giordani: “L’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva, ed è passato né tornerà mai più, certo mai più; vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita”.
Petrarca zappetta, Machiavelli gioca a carte, Pontormo reclama talleri per comprarsi il pranzo, Tycho Brahe si gode la quiete dell’isola di Hven. L’esaltazione dell’artista scarmigliato e intontito dal laudano è trovata (o sintomo) moderni; di quello sbrindellato e folle, postmoderna, poiché si confonde deliberatamente atto creativo e ubriacatura; se mai un tale figuro rifulse di grandezza lo fece perché dissolveva il passato: la grandezza, a volte, consiste ingannevolmente proprio in tali braci, nell’osservazione estatica dei ruderi di ciò che fu eminente.

Personalmente mi ripugna l’essere continuamente scandalizzato dall’eccesso, dal proteiforme, dall’inversione. Perché ti senti insidiato nel tuo ruolo sociale che non è null’altro se non un prodotto relativo del patriarcato!, direbbe qualcuno. Ma, anche qui, è l’esatto opposto che vige. Proprio quelli che amano saziarsi dell’innaturale, del mostruoso, dell’oltraggio alla buona norma, risultano i più ottusi e ridicoli conformisti. Sono esclusivamente delle teste di paglia cui il Potere ammannisce voglie, speranze e desideri precotti. L’alienazione che li porta ad accettare l’inaccettabile, ovvero tutto ciò che li distrugge, entra poi in frizione col loro autentico Io. Tale disinganno si scioglie in livore ch’essi, ovviamente, orientano contro i latori di verità, non certo contro chi li inganna. Più sono vuoti più berciano, più sono estremi più reclamano l’autodistruzione. Tale la dissoluzione che si nutre della propria coda. Rivelarli a sé li incarognisce a tal punto che, fanatici come sono, arriverebbero al delitto pur di continuare ad affermare l’illogico e l’anormale.

Qual è l’oggetto domestico più odiato? La sveglia.

Come mai tutta questa lasciva e forsennata corsa a instillare nelle menti delle teste di paglia la fluidità di genere? E perché si abbassa l’età, sempre di più, per il cambio di genere? Molti si lasciano confondere dalle Bassaridi con la bava alla bocca. Esse difendono il fanum, il tempio del nuovo credo: sono, infatti, fanatiche. Ai piani alti, però, la questione giace nel cestello della gelida considerazione tecnica, fra i 6 e i 10 gradi, perfetta per il brindisi, al momento giusto. I governi zootecnici si occupano di mansuefazione, solo di quello: “Gli asini castrati tendono ad essere più prevedibili nel loro comportamento … ciò dipende dall’età che avevano quando sono stati castrati … [Si] raccomanda [perciò] che i puledri maschi vengano castrati tra i 6 ed i 18 mesi e preferibilmente il prima possibile in questo arco temporale … Più giovane è l’asino al momento dell’intervento, minore sarà per lui il trauma inevitabilmente subito e maggiore sarà l’influenza sul suo comportamento … Maggiore è l’età a cui vengono castrati, maggiore è la probabilità che i castroni continuino ad esprimere un atteggiamento territoriale e possano inseguire con aggressività altri animali domestici … in genere gli asini interi non sono adatti come animali da compagnia, e nessuno che non sia in possesso delle adeguate strutture e conoscenze dovrebbe tenere uno stallone. Se vuoi un asino come animale da compagnia o per cavalcarlo, come traino o semplicemente per portarlo con te in passeggiata, allora un castrone o una femmina saranno più adatti rispetto ad uno stallone”.
Non importa la quantità di coglioni e mammelle recise, conta l’esempio, l’immagine tempestiva e iconica, la testimonianza rivelatrice: ero infelice … ma ora sono felice … ero imprigionato/a … ora libero/a … come i due uranisti immortalati col loro bimbo, l’uno ritto e ridente a tutta ganascia e l’altro pure, ma in un letto d’ospedale, come se avesse lui sgravato, da vacca, il pargolo nella foto … e invece ha bonificato una somma digitale alla scrivania, anzi al desk … ammesso che tale presepe del sottosopra sia vero, fatterello di cui annuso la revoca in dubbio … l’importante non è mai il numero, ma la mitridatizzazione dell’innaturale. Per un adolescente che si evira ce ne saranno centomila che si diporteranno come evirati, seppur penduli latori di poppe e mentule … che l’unico castrato, un qualsiasi Lucignolo attirato con malizia nel Paese dei Balocchi, prima o poi si suicidi … tutto ciò smiagolerà nell’indifferenza … come sempre: è servito, ora non serve più.
Chi ha orecchie (da somaro) per intendere, intenda.

Il micco socialista (cioè da social; sponda destra, a suo dire; come esistesse una cosa chiamata destra) ama estendere grafici e statistiche: ecco, vedete (e qui punta il cursore della dabbenaggine), il 35,16% dei reati è commesso da immigrati che sono solo il 7,97% della popolazione italiana! Siamo invasi! Kalergi!
Ciò, lo riconosco, vanta un’indiscussa base di verità. D’altra parte noi Italiani, in quanto immigrati a mezzo fra bianchi e negri, eravamo oggetto delle medesime considerazioni.
La statistica di cui sopra, però, occorre tradurla con altri cifrari e ciò dona una soluzione assai meno rassicurante: apocalittica, quasi. Questa: gli immigrati delinquono di più solo perché più vitali degli Italiani. Gli immigrati, in generale, e nomadi e zingari in forza ancor maggiore, mantengono un’autentica identità antropologica, in larga parte immune dalle sciocchezze del polcorretto. Vivono, e allora delinquono. Sarebbe utile riandare a certe pagine delle gazzette romane, che so, di un giorno qualunque del 1951; l’inferno in terra: stupri, abbandoni di neonati, rapine, stragi sul lavoro, uxoricidi, regolamenti di conti, abigeati, piromanie assortite, naufragi, infanticidi; e un gran numero di reati passionali, o di suicidi per passione: a volte terribili, altre ridicoli, in alcuni casi melodrammatici: lascia un biglietto alla madre, alla sorella, all’amato … era la letteratura a imitare la vita poiché gli Italiani del 1951 vivevano … lo stesso vale per l’economia: chi voglia testarne la vitalità non ha che da andare (è gratis) a sbirciare i corridoi del Tribunale Civile di Roma, sezione Lavoro … Deserti. La litigiosità (leggi: lo scontro fra Titius, Gaius e Maevius – Sempronius è in vacanza – per ottenere un quid) è proporzionale alla vitalità; e sintomo d’inesauste efficienze e di furente creatività. Ma qui il sangue non scorre più, il cuore fatica a pompare il sugo della vita nelle arterie, le dita putrefanno, le estremità anneriscono nella cancrena; sopravvivono i luoghi irrorati da denaro pubblico a debito e, ovviamente, in primis, i capataz della repressione pagati coi soldi del Monopoli a debito: gendarmi, magistrati d’ogni risma, politicanti.
Nella guerra, e nella simulazione sua simbolica (tale la congenita Tragedia Universale), consiste, infatti, l’élan vital dell’Uomo.

Ma proprio adesso siamo in guerra! Viviamo un’economia di guerra! Le guerre imperversano attorno a noi! Ma quale guerra … la guerra è quando il soffitto ti cade in testa. Noi, al massimo, stiamo tifando dei simulacri di cui nemmeno sappiamo i fini; muovendo oziosamente soldatini da Risiko, giusto per soddisfare un superomismo accademico da videogioco.

Gli ultimi trent’anni li ho passati a lentamente disconoscere ciò si erano sforzati di insegnarmi. Un pezzo alla volta. Non si è trattato di negare alcunché: ho solo cambiato prospettiva.

Perché 30 chilometri orari? In una società che promette la libertà illimitata, le restrizioni invadono il quotidiano, sin al grottesco. Divieti, verboten, obblighi, scadenze, restrizioni: il gioco dell’oca amministrativo serve, però, una missione più alta: la mummificazione dell’Italiano. Sì, perché questo era il problema: l’Italiano, nonostante la decadenza, si muoveva ancora troppo; creava, produceva, rimorchiava, mangiava, pisciava negli angoli, si divertiva. Dopo il fatidico 1989, occorreva, perciò, lentamente attirarlo nel corral del proprio bene, per la domesticazione definitiva. I primi sintomi: cinture di sicurezza, legge sulla privacy, strisce blu. In capo a un decennio egli già nitriva a comando; poi il polcorretto; alla domanda: quanto fa due più due, egli zoccolava per quattro volte, di rimando; prese addirittura, ormai ridotto a infelice ronzino, con l’orribile gabbia toracica in vista, il dorso segnato dalle nerbate, a fare patetici girotondi guarnito a parata, viola arancione verde, al trotto e al passo. Eppure, si rimugina in alto loco … serve Qualcosa d’Altro … una bella scarica elettrica, il taser del domatore … ed ecco il lockdown, e la purga connessa … il povero cavallaccio ora non si muove quasi più, nella stalla, col muso lungo e l’occhio cisposo; non capisce … manco lo portano più a fare un giretto, ‘sto Soldatino senza biada … deperisce, si liofilizza ancora, lo recano all’ammazzatora, docile … non s’accorge di trapassare a salsiccia oppure d’esser finalmente impagliato, e far mostra, lui che cavalcava in testa al mondo, in qualche salone dei nuovi giardini pensili di Babilonia.

Uomini di genere maschile! Soffittizzatevi!”, è il neologismo di dolore gridato da Totò in Totò e le donne (Stefano Vanzina, 1952), “contro il logorio della donna moderna”. Il tappezziere Filippo Scaparro è assillato omni die da moglie, figlia, domestica … trova, quindi, rifugio in soffitta, lontano dai ragionamenti e sragionamenti femminili, fra polvere e cianfrusaglie; legge gialli in cui s’ammazzano consorti, getta la cenere per terra, accendi ceri presso la personale edicola dedicata a Henri Landru, già modello del serial killer Chaplin in Monsieur Verdoux … esilaranti i bisticci con la moglie e la domestica che equivoca “meloni” per “milioni”; così come la scena dell’iniezione, con la famiglia che se la ride dei guai sanitari del protagonista mentre la figlia, concupita dal “passerottino” De Filippo, pretendente “maturotto”, s’improvvisa catastrofica infermiera. Anche qui osserviamo le attrici: graziose le meteore Primarosa Battistella e Giovanna Pala, notevoli Lea Padovani, acconciata à la Cleopatra, e Teresa Pellati, volto più duro e sofferto; bellissima la Faldini, la sefardita dagli occhi celesti che fece “sbottare in cuore la primavera” al nostro Principe … alcune delle tante Simonetta Vespucci che formavano il gusto estetico dell’ex Italiano.

Dopo settantadue anni la soffittizzazione, inevitabile ricasco della mummificazione sociale, s’è trasformata quasi in disposizione di legge. Smartworking, disoccupazione, sussidi di massa (tale il compito del reddito di cittadinanza che, prima o poi, rispunterà), città in quindi minuti, feroce diffamazione PolCor delle comunità intermedie fra cittadino e Stato, indurranno i milioni a liofilizzarsi in soffita: si tratta dell’operazione cubicolo, più volte evocata, che, abbinata a un progressivo indebolimento culturale e fisico, recherà l’estinzione in pochi decenni. Col pieno consenso dei panda coinvolti, sia chiaro; d’altra parte ci è sempre stato domandato: vuoi tu questo? … perché il vampiro nulla può senza il consenso della vittima. La risposta, però, fu: sì, o un no che, di fatto, era un sì.

Dopo il generalissimo Francesco Paolo Figliuolo (predicatore delle vaccinazioni di massa: “Sarai mondo se monderai lo mondo …”) ecco l’equipollente Pasquale Angelosanto, in veste, stavolta, di repressore del terribile morbo antisemita; in un Paese in cui due terzi dei maggiori TG nazionali sono saldamente nelle mani di semiti (dall’aprile all’ottobre 2000, con l’insediamento del malaccorto Apolide di Beirut, i tre terzi). Entrambi forgiati presso l’Accademia di Modena che, come ricorderete, fu teatro d’una epocale catechesi da parte del protoglobalista Eugenio Cefis. Si aspetta con ansia, perciò, il disvelamento della Trinità: quale completista ossessivo, a esempio, accoglierei con favore la nomina del generale di Corpo d’Armata Alvise Giorgio Paternostro a VBB (Vigilante Blog Birichini). Anticipo, sin d’ora, che ho l’ansimante PC zeppo di scritti e immagini compromettenti. Paternostro, però, può infilarci quello che vuole, per quello che me ne frega … sono in fin di vita, oramai, ché tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità.

Di Alceste

 

Fonte:

https://alcesteilblog.blogspot.com/2024/01/soffittizzatevi.html

 

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