DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash
Cari lettori,
nel suo libro ben documentato e altamente
istruttivo “Collasso.
Come le società scelgono di morire o
vivere” (chi non abbia
il libro e sappia l’inglese, può vedere “il film“), Jared Diamond ripete una domanda che
è stata pensata da decine di antropologi nello studiare l’isola di
Pasqua e il suo collasso dovuto all’eccessivo sfruttamento delle poche
risorse di cui disponeva: cosa pensò l’uomo mentre stava tagliando
l’ultimo albero?
Anche accettando che una comunità
disperata sia incapace di vedere il deterioramento progressivo e inesorabile
delle proprie foreste, l’ultimo albero costituiva un ovvio punto di
non ritorno, anche per coloro che hanno poca capacità di predire il
futuro. Come è stato possibile che quest’uomo non abbia visto che dopo
l’ultimo albero non avrebbero avuto più legna? Perché si condannò
per un guadagno così esile?
Penso a quest’uomo, e mi arrovello
su quello che poté passargli per la testa. Salì su una piccola altura
a cercare legna per il fuoco, per farsi una canoa o per spostare un
moai. Da bambino aveva visto la stessa collina popolata da un bosco
rado, molto differente da quello frondoso di cui parlava suo nonno,
anche se suo nonno aveva certamente esagerato i ricordi di gioventù.
Ma ora rimaneva un albero solo. Si
trattenne un secondo prima di cominciare ad abbatterlo: alla fine del
suo lavoro, non sarebbero rimasti altri alberi in tutta l’isola. Sentì
un peso freddo allo stomaco. Bene, pensò per tranquillizzarsi, chi
l’ha detto che non ci sono alberi in tutta l’isola? Era da tempo che
non andava nei territori delle tribù rivali, che sicuramente stavano
scegliendo i fusti migliori per assicurarsi la vittoria costruendo le
moai più grandi. Figli di buona donna; dovremo andare da loro a
cercare legna: l’ultima guerra non andò granché bene, ma questa
volta potrebbe andare diversamente. Sarà
differente.
In realtà siamo messi davvero
male proprio per colpa loro. Se non ci daranno la legna con le buone,
gliela dovremo portar via. Li dobbiamo buttare in mare, questi maledetti.
Dubitò ancora un per un attimo, ma poi pensò: se non taglio l’albero, verrà il mio vicino e lo
taglierà lui. Assolutamente
no. E senza pensarci più cominciò ad abbatterlo.
Noi siamo davvero differenti? In una
conferenza tenuta da uno dei miei colleghi dell’Istituto di Scienze
del Mare, parlando di sovrapesca, il relatore mostrò un lucido che
illustrava le specie di pesce documentate all’inizio del XX secolo
nel Mediterraneo Occidentale che non abbiamo potuto conoscere; erano
circa trenta, e quelle documentate sono solamente una frazione infima.
Gli studenti più anziani del mio istituto hanno visto pesci che i giovani
non vedranno mai. Ma ancora continuiamo a battere sul ferro, per capire
quanto si può spremere la popolazione di tonno rosso del Mediterraneo,
per vedere se il piccolo aumento registrato l’anno scorso potrà permettere
di innalzare le quote di pesca. Non è più possibile con l’acciuga
del Cantabrico, perché oramai l’abbiamo sterminata. E, comunque, se
continuiamo a osservare, avviene la stessa cosa con tante altre risorse.
Siamo davvero differenti da quell’abitante dell’Isola di Pasqua che
tagliò l’ultimo albero?
Nel suo libro, partendo dagli indizi
sul terreno, Diamond cerca di ricostruire gli ultimi cento o duecento
anni prima dell’arrivo degli esploratori europei, quando la popolazione
stava declinando irreversibilmente e si sarebbe estinta se non fossero
arrivati i forestieri. I resti di ossa umane, molti con ferite di arma,
alcuni rosicchiati… i moai deliberatamente abbattuti o vandalizzati…
alcuni scampoli della tradizione orale dei pochi discendenti che popolavano
l’isola quando arrivarono gli europei…
Diamond tesse una trama più o
meno realista, in ogni caso davvero evocativa. Lui ritiene possibile
che, in mezzo al cataclisma ambientale e materiale, con la gente disperata
che stava morendo di fame, ci sia stata una rivolta. La gente si sollevò
contro gli antichi capi politici e religiosi, e l’antica religione (che
li portò a erigere con gran dispendio di risorse i pesanti moai)
cadde in discredito. La gente provò rabbia, entrò nelle case dei ricchi
e vide che vivevano molto meglio di loro. Le devastarono. Abbatterono
alcuni moai, gli stessi che veneravano poco tempo prima ed erano
il motivo di orgoglio di ogni tribù. La semplice rabbia, l’impotenza
per non riuscire a tirarsi fuori dal buco in cui erano sprofondati,
provocò una voragine di morte e di distruzione che li rese ancora più
indeboliti e impotenti.
Siamo davvero differenti? Ieri il parlamento
greco, in una sessione agonizzante, ha approvato l’ennesimo pacchetto
di misure di aggiustamento, ancora più repressivo e infame dei precedenti,
a cui va ad aggiungersi. Per molti la misera era colma e a migliaia
si sono riversate nelle strade, provocando gravi tumulti. La polizia
ha esaurito i gas lacrimogeni, la folla ha iniziato a saccheggiare e
ha incendiato decine di edifici del centro di Atene, principalmente
banche. I grandi simboli del trionfo del decennio scorso, i banchieri,
sono ora stigmatizzati come i politici (l’analogia con i capi religiosi
e politici dell’isola di Pasqua è inevitabile, anche considerando che,
fino a solo dieci anni fa, tutti accettavano che l’unico vero Dio fosse
sia il denaro).
E tutto questo, solo per ottenere il
secondo pacchetto di aiuti economici dell’Unione Europea, che permetterà
al paese ellenico di fronteggiare gli obblighi di pagamento del mese
di marzo, ma non per molto oltre. Che senso ha prolungare questa agonia
quando sappiamo che la crisi non finirà mai? Che la recessione appena
iniziata verrà ancor più complicata non solo dalla riduzione del debito
greco, ma anche da quello degli altri paesi europei? Che rifiutarsi
di capirlo ci porta solo al collasso? Non sarebbe più logico accettare
che il modello che vogliamo mantenere in vita non funziona più e che
deve essere ridefinito? Non ha più senso questa soluzione rispetto
al vendere il patrimonio che ci rimane perché, spinti dal dover ripagare
debiti impagabili, finiamo per tagliare l’ultimo albero dell’isola?
Il futuro non è ancora scritto, come
lo è invece il passato. La più grande superbia è crederci migliori
dei nostri antenati; lo saremo solo se saremo capaci di imparare dai
loro insegnamenti. Abbiamo bisogno di un piano, e ne abbiamo bisogno
ora.
Fonte: Rabia
13.02.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE