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La Redazione

 

I piu' letti degli ultimi 7 giorni

RABBIA

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A cura di supervice
Il 19 Febbraio 2012
88 Views
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DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash

Cari lettori,

nel suo libro ben documentato e altamente

istruttivo “Collasso.

Come le società scelgono di morire o

vivere” (chi non abbia

il libro e sappia l’inglese, può vedere “il film“), Jared Diamond ripete una domanda che

è stata pensata da decine di antropologi nello studiare l’isola di

Pasqua e il suo collasso dovuto all’eccessivo sfruttamento delle poche

risorse di cui disponeva: cosa pensò l’uomo mentre stava tagliando

l’ultimo albero?
Anche accettando che una comunità

disperata sia incapace di vedere il deterioramento progressivo e inesorabile

delle proprie foreste, l’ultimo albero costituiva un ovvio punto di

non ritorno, anche per coloro che hanno poca capacità di predire il

futuro. Come è stato possibile che quest’uomo non abbia visto che dopo

l’ultimo albero non avrebbero avuto più legna? Perché si condannò

per un guadagno così esile?

Penso a quest’uomo, e mi arrovello

su quello che poté passargli per la testa. Salì su una piccola altura

a cercare legna per il fuoco, per farsi una canoa o per spostare un

moai. Da bambino aveva visto la stessa collina popolata da un bosco

rado, molto differente da quello frondoso di cui parlava suo nonno,

anche se suo nonno aveva certamente esagerato i ricordi di gioventù.

Ma ora rimaneva un albero solo. Si

trattenne un secondo prima di cominciare ad abbatterlo: alla fine del

suo lavoro, non sarebbero rimasti altri alberi in tutta l’isola. Sentì

un peso freddo allo stomaco. Bene, pensò per tranquillizzarsi, chi

l’ha detto che non ci sono alberi in tutta l’isola? Era da tempo che

non andava nei territori delle tribù rivali, che sicuramente stavano

scegliendo i fusti migliori per assicurarsi la vittoria costruendo le

moai più grandi. Figli di buona donna; dovremo andare da loro a

cercare legna: l’ultima guerra non andò granché bene, ma questa

volta potrebbe andare diversamente. Sarà

differente.

In realtà siamo messi davvero

male proprio per colpa loro. Se non ci daranno la legna con le buone,

gliela dovremo portar via. Li dobbiamo buttare in mare, questi maledetti.

Dubitò ancora un per un attimo, ma poi pensò: se non taglio l’albero, verrà il mio vicino e lo

taglierà lui. Assolutamente

no. E senza pensarci più cominciò ad abbatterlo.

Noi siamo davvero differenti? In una

conferenza tenuta da uno dei miei colleghi dell’Istituto di Scienze

del Mare, parlando di sovrapesca, il relatore mostrò un lucido che

illustrava le specie di pesce documentate all’inizio del XX secolo

nel Mediterraneo Occidentale che non abbiamo potuto conoscere; erano

circa trenta, e quelle documentate sono solamente una frazione infima.

Gli studenti più anziani del mio istituto hanno visto pesci che i giovani

non vedranno mai. Ma ancora continuiamo a battere sul ferro, per capire

quanto si può spremere la popolazione di tonno rosso del Mediterraneo,

per vedere se il piccolo aumento registrato l’anno scorso potrà permettere

di innalzare le quote di pesca. Non è più possibile con l’acciuga

del Cantabrico, perché oramai l’abbiamo sterminata. E, comunque, se

continuiamo a osservare, avviene la stessa cosa con tante altre risorse.

Siamo davvero differenti da quell’abitante dell’Isola di Pasqua che

tagliò l’ultimo albero?

Nel suo libro, partendo dagli indizi

sul terreno, Diamond cerca di ricostruire gli ultimi cento o duecento

anni prima dell’arrivo degli esploratori europei, quando la popolazione

stava declinando irreversibilmente e si sarebbe estinta se non fossero

arrivati i forestieri. I resti di ossa umane, molti con ferite di arma,

alcuni rosicchiati… i moai deliberatamente abbattuti o vandalizzati…

alcuni scampoli della tradizione orale dei pochi discendenti che popolavano

l’isola quando arrivarono gli europei…

Diamond tesse una trama più o

meno realista, in ogni caso davvero evocativa. Lui ritiene possibile

che, in mezzo al cataclisma ambientale e materiale, con la gente disperata

che stava morendo di fame, ci sia stata una rivolta. La gente si sollevò

contro gli antichi capi politici e religiosi, e l’antica religione (che

li portò a erigere con gran dispendio di risorse i pesanti moai)

cadde in discredito. La gente provò rabbia, entrò nelle case dei ricchi

e vide che vivevano molto meglio di loro. Le devastarono. Abbatterono

alcuni moai, gli stessi che veneravano poco tempo prima ed erano

il motivo di orgoglio di ogni tribù. La semplice rabbia, l’impotenza

per non riuscire a tirarsi fuori dal buco in cui erano sprofondati,

provocò una voragine di morte e di distruzione che li rese ancora più

indeboliti e impotenti.

Siamo davvero differenti? Ieri il parlamento

greco, in una sessione agonizzante, ha approvato l’ennesimo pacchetto

di misure di aggiustamento, ancora più repressivo e infame dei precedenti,

a cui va ad aggiungersi. Per molti la misera era colma e a migliaia

si sono riversate nelle strade, provocando gravi tumulti. La polizia

ha esaurito i gas lacrimogeni, la folla ha iniziato a saccheggiare e

ha incendiato decine di edifici del centro di Atene, principalmente

banche. I grandi simboli del trionfo del decennio scorso, i banchieri,

sono ora stigmatizzati come i politici (l’analogia con i capi religiosi

e politici dell’isola di Pasqua è inevitabile, anche considerando che,

fino a solo dieci anni fa, tutti accettavano che l’unico vero Dio fosse

sia il denaro).

E tutto questo, solo per ottenere il

secondo pacchetto di aiuti economici dell’Unione Europea, che permetterà

al paese ellenico di fronteggiare gli obblighi di pagamento del mese

di marzo, ma non per molto oltre. Che senso ha prolungare questa agonia

quando sappiamo che la crisi non finirà mai? Che la recessione appena

iniziata verrà ancor più complicata non solo dalla riduzione del debito

greco, ma anche da quello degli altri paesi europei? Che rifiutarsi

di capirlo ci porta solo al collasso? Non sarebbe più logico accettare

che il modello che vogliamo mantenere in vita non funziona più e che

deve essere ridefinito? Non ha più senso questa soluzione rispetto

al vendere il patrimonio che ci rimane perché, spinti dal dover ripagare

debiti impagabili, finiamo per tagliare l’ultimo albero dell’isola?

Il futuro non è ancora scritto, come

lo è invece il passato. La più grande superbia è crederci migliori

dei nostri antenati; lo saremo solo se saremo capaci di imparare dai

loro insegnamenti. Abbiamo bisogno di un piano, e ne abbiamo bisogno

ora.

**********************************************

Fonte: Rabia

13.02.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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