Pensieri in libertà su un crocefisso senza croce

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Pochi giorni fa mi sono casualmente trovato ad entrare (ma forse dovrei confessare che ci sono stato portato quasi per mano) nella chiesa parrocchiale di Nuestra Senora del Carmen, in quel di Los Cristianos a Tenerife ed è lì che è stata scattata la foto che trovate nel titolo, quel crocefisso che, stranamente, ha suscitato in questo vecchio reprobo una serie di riflessioni. Probabilmente questo fatto sorprenderà non poco quelli che mi conoscono bene e sanno che non vado molto d’accordo con la religione, che sono un inguaribile scettico, niente affatto legato al Cristianesimo e a qualsiasi forma e manifestazione di religione o culto organizzato, un materialista edonista la cui conoscenza della storia della filosofia si è fermata a Socrate e al suo metodo di insegnamento basato sull’ironia e la maieutica, che diceva di aver appreso da Fenarete, sua madre, una levatrice. Dal Cristianesimo del catechismo della mia infanzia ho tratto pochi principi, fondamentalmente il non fare ad altri quello che non piacerebbe fosse fatto a me e che, nella mia vita fino ad oggi, ho poi ampliato nel [tentare di] fare per gli altri quello che mi avrebbe fatto piacere fosse fatto per me.

Il Cristo che io amo è l’umanissimo protagonista del racconto “L’uomo che era morto” di D.H. Lawrence, l’uomo risorto che “inizia a riaversi dal sonno della morte e ad osservare il mondo attorno a sé con sguardo nuovo e partecipe. Egli diviene consapevole che la vera risurrezione è l’essere rinato alla vita del corpo, abiura la vita passata e la sua astratta predicazione, che ora gli appare come l’espressione di una sconfinata e innaturale volontà di potenza” (cit.ne da IBS Libri).

Tutta questa premessa per dire che credo a molto poco, se non al fatto che, se mai scopriremo qualcosa, questo avverrà solo dopo che avremo deposto questo corpo…, cioè (riadattando Lucio Battisti) “lo scopriremo solo morendo” e, aggiungo con De André, “non maleditemi, non serve a niente, tanto all’inferno ci sarò già” anche se, sempre nelle parole di questo meraviglioso poeta, “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura”. E, forse, proprio questo è il nocciolo della mia personale filosofia. Per il resto, la mia visione della divinità è decisamente cinica, è quella del Wendell P. Bloyd di di Spoon River immortalato nelle parole del blasfemo di De André: “dal momento che Inverno mi convinse che Dio / non sarebbe arrossito rubandomi il mio”. Lo vediamo succedere tutti i giorni e anche io contribuisco spesso a darne notizia su queste pagine.

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Dicevo, quindi, che in quella luminosa chiesetta dalle linee così nitide, pulite e di ampio respiro, ho scoperto questo meraviglioso crocefisso che mi ha profondamente turbato per l’allegoria che ho visto in esso: questo Cristo che, deposta la croce, sembra volare finalmente libero dal Male, dal Dolore, dal peso dell’esistenza e della sua non facile missione sulla Terra, e pure ancora sono tornato a De André, “non si può dire che sia servito a molto / perché il male dalla terra non fu tolto”.

Ecco, vorrei concentrarmi proprio su questo, sull’abbandonare quella croce del male e del dolore che ci accompagnano per tutta la vita e, soprattutto e più amaramente che sul nostro male e sul nostro dolore, sul dolore e la sofferenza delle persone che amiamo, la croce più pesante che dobbiamo portare, la più insopportabile, per la quale non esiste conforto perché ci mette di fronte alla nostra impotenza, alla nostra incapacità di fare per loro quello che vorremmo fosse fatto per noi. Questo credo sia il personale inferno privato di ciascuno di noi, quella croce che ci cade sulle spalle, che ci sbatte in faccia la consapevolezza del nostro limite umano perché non riusciamo ad impedire la “loro” sofferenza, il “loro” dolore. Quella croce che, quando infine cade dalle “loro” spalle accresce il peso di quella che noi continuiamo a portare, il nostro senso di inadeguatezza, di pochezza e, forsanche, ci mette di fronte alla nostra presunzione, sciogliendo ancora una volta la cera delle nostre ali di Icaro.

Quel Cristo che sembra volare continua a tormentarmi, mi obbliga a guardarmi intorno, mi fa vedere con maggior nitidezza i tanti che in tutto il mondo sono ancora inchiodati a quel legno, con i chiodi a lacerarne le carni, quei tanti la cui voce così poveramente cerchiamo di far sentire, le cui sofferenze ci sforziamo di mostrare ai nostri lettori e a quanti ci sforziamo di raggiungere da queste pagine.

E il vecchio pirata, cinico e reprobo, in quella croce che non c’è ha visto anche un altro significato, quasi una discrasia tra l’uomo, il profeta, e la realizzazione pratica del suo messaggio, della sua predicazione: mi è sembrato quasi di vedere una volontà di liberarsi da quella struttura, rifiutare quella chiesa che in “suo” nome, da sempre nella storia e maggiormente oggi, sta rinnegando, tradendo, prostituendo quanto di buono c’era in quel messaggio che, sin dagli albori, in tanti hanno interpretato soltanto ad uso e consumo delle proprie ambizioni, del proprio desiderio di potere, della propria “auri sacra fames”.

Come se stesse dicendo “non più sia fatta la tua volontà” ma soltanto “passi da me questo calice”, come quando perdendo una persona cara dopo una lunga malattia diciamo che ha smesso di soffrire, ma quella sua sofferenza si trasferisce su di noi, accrescendo appunto il peso della nostra croce.

Il mondo intorno a noi è sempre più pieno di esseri umani crocefissi, inchiodati in una fila ben più lunga di quella dei gladiatori di Spartaco lungo la via Appia, inchiodati alle bombe su Gaza e in tante altre parti del mondo (ma molti anche alle divise di quelli che quelle bombe sganciano), crocefissi dall’ipocrisia e dalla malvagità di chi pretende solo per se stesso la croce, in forma di una stella a sei punte (ma non solo), che solo per se stesso rivendica con arroganza il privilegio della memoria, i cui simili (“eletti”, come i maiali dell’orwelliana Fattoria) sono “più simili” degli altri simili, gli unici con diritto di celebrazione.

Credo che quel Cristo abbia abbandonato la sua croce giustamente, penso che non potesse più sopportare l’incessante accumularsi di sofferenza e di morte, il dolore ed il senso di fallimento del vedere tradito giorno dopo giorno il suo messaggio. Credo anche, e non accusatemi di nuovo di blasfemia, che abbandonare quella croce sia la “sua” contestazione verso il suo stesso padre e creatore, perché la “missione” assegnatagli non era in realtà redimere i nostri peccati ma, bensì, tentare di porre rimedio all’errore implicito nella creazione: quel codice di sopraffazione (cioè di violenza, di mancanza di scrupoli, di assenza di “pietas”) che la Natura impone come regola animale, inumana, disumana, per la sopravvivenza della specie. Non puoi portare per sempre la croce per non aver saputo rimediare al fallimento del tuo padre e creatore, un fallimento di cui non sei attore ma vittima tu stesso.

Certo, il peso di quella croce abbandonata è il peso che si aggiunge alla nostra croce, è il carico di amarezza, sofferenza, frustrazione che proviamo tutti i giorni nel preparare queste pagine; è un peso che spesso mi tiene lontano, che a volte mi fa dire “basta, non posso continuare ad affrontare anche questa sofferenza, ho già la mia”, che mi fa venire voglia di abbandonare la lotta perché ritengo di non poter fare più niente.

Una volta, in un mio momento di crisi adolescenziale, mio padre mi scrisse una lettera che, purtroppo, non ho conservato ma che è comunque rimasta incorniciata in un angolo luminoso della mia mente e del mio cuore. Mi raccontò della sua guerra in Africa, del momento della disfatta quando si ritrovò solo, tra morte e distruzione, con la consapevolezza (a 28 anni!) del crollo di tutto il suo mondo, di tutto quello in cui aveva creduto; mi disse di quanto in quel momento avesse desiderato di abbandonare tutto ed arrendersi, e mi disse anche del pensiero agghiacciante che, se lo avesse fatto, non sarebbe mai più stato in grado di provare rispetto per se stesso guardandosi nello specchio, e continuò a combattere fino a che fu catturato. Si rifiutò di collaborare e rimase sette anni (fino a gennaio 1947!) in uno dei peggiori campi di prigionia in Kenya. La sua croce, la sua vera eredità, è l’incapacità, il rifiuto di arrendermi anche quando altro peso si aggiunge alla mia croce, liberando così lui dal peso della sua. Solo al suo coraggio devo la mia vita.

Noi siamo quello che riceviamo e facciamo nostro, ed è solo questo che possiamo dare, trasmettere, nel bene e nel male, agli altri intorno a noi. Capisco che questi miei pochi e disordinati pensieri in libertà sono il mio ringraziamento alle due persone più importanti della mia vita: quella che dandomi il suo amore mi ha insegnato ad amare, quello che oltre a darmi la vita mi ha insegnato con il suo esempio il rispetto di me stesso.

Ecco, forse adesso ho capito cosa ho visto in quel crocefisso…, no, per quanto io possa soffrire non posso dire “passi da me”, non posso disertare questa battaglia che ho cominciato quando ho incontrato ComeDonChisciotte. Ecco, questo è quello che posso fare per gli altri e che vorrei fosse fatto per me, se dovessi trovarmi un giorno nei loro panni.

CptHook

 

Dedicato alla mia Cinthia, che ha portato con immenso coraggio e dignità la sua croce di sofferenza dall’età di quattro anni per 61 anni, fino al suo ultimo indimenticabile sorriso, meravigliosamente ancora pieno del suo amore immenso.

E grazie all’Amica che mi ha portato in quella chiesa.

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