Omicidio Regeni: un anno di intrighi ai danni dell’Italia

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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

È trascorso un anno da quando, il 25 gennaio 2016, Giulio Regeni scompariva al Cairo: il corpo sarebbe stato rinvenuto una decina di giorni dopo, innescando una reazione a catena che avrebbe portato alla rottura diplomatico tra Italia ed Egitto. Nel giorno della commemorazione, le più alte cariche dello Stato hanno ancora chiesto “verità” sul caso: c’è da chiedersi quale verità vogliano. Quella oggettiva, che porta dritto ad un’operazione sporca dei servizi angloamericani, o quella interessata, che ha nel mirino i vertici dell’Egitto? L’assassinio di Regeni si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’ENI e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”.

Verità per Giulio Regeni o “una” verità per Giulio Regeni?

Si direbbe che non tutti i morti abbiano lo stesso peso: a parità di contesto, alcuni monopolizzano l’attenzione di media e politica per mesi, altri finiscono rapidamente nel dimenticatoio. L’incongruenza basterebbe, di per sé, a sollevare diversi interrogativi. Perché giornali ed istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché le istituzioni ed i media hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? Perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile.

Il 25 gennaio, a distanza di anno dalla scomparsa del giovane ricercatore friulano, le più alte cariche dello Stato sono tornate sul caso ancora una volta: Sergio Mattarella, Paolo Gentiloni, Angelino Alfano, Laura Boldrini, etc. etc. La Repubblica, il quotidiano che è apparso fin dalle prime fasi del delitto Regeni come un protagonista attivo della vicenda, ha scritto1:

“E’ passato un anno dalla morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore universitario rapito, torturato e ucciso al Cairo. E ancora la verità è lontana, dopo mesi di depistaggi assurdi (…) E dal mondo politico, delle associazioni, della magistratura arrivano appelli al governo affinché si muova, faccia pressione sulle autorità egiziane, perché gli assassini di Regeni vengano scoperti e puniti. Qualsiasi sia la catena di comando che ha deciso, avallato o comunque coperto gli autori di un omicidio che, secondo molti, porta direttamente alle piu alte sfere del potere.”

La locuzione “secondo molti” è molto interessante. Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, ma ha assunto connotati quasi ridicoli, inducendo blasonati giornali a dimenticare persino le regole fondamentali del mestiere: non dare credito a fonti non verificate, trattare con le pinze gli anonimi, evitare a qualsiasi costo i “si dice”, i “secondo alcuni”, i “gira voce che”. Ad esporsi maggiormente in questo senso è proprio la sullodata Repubblica che, nell’aprile 2016, esce col surreale articolo “Ecco chi ha ucciso Giulio: l’accusa anonima ai vertici con tre dettagli segreti sul caso Regeni” 2dove si racconta di “un Anonimo” che scrive alla redazione del quotidiano romano ed indica come responsabili dell’omicidio di Regeni il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’Interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona: illazioni, fonti non attendibili, risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.

La Repubblica è lo stesso giornale che, a distanza di pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’ENI avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione3.

Un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni? Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del Gruppo l’Espresso contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International, sede a Londra e solidi legami col Dipartimento di Stato americano,ed il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, il Manifesto, etc. etc.) che da sempre gravitano nell’orbita NATO.

C’è da chiedersi quindi quale verità abbiano invocato per dodici mesi i media e le ong: la verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui annidano i mandanti dell’omicidio?

Sul caso Regeni abbiamo scritto diversi articoli, tra cui il più esaustivo è certamente Verità per Giulio Regeni. Richiamare l’ambasciatore a Londra? È il minimo”, dove abbiamo sviscerato a fondo la dinamica dell’omicidio, evidenziando tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, ed inglese in particolar modo, dietro il delitto. Non è quindi nostra intenzione tornare ancora sull’argomento: ci limiteremo soltanto a ricordare i punti salienti dell’omicidio Regeni, indispensabili per decifrare gli intrighi dell’ultimo anno ai danni dell’Italia e del suo ruolo nel Mediterraneo:

  • nel luglio 2013, il feldmaresciallo Abd Al-Sisi opera un colpo di Stato ai danni della Fratellanza Mussulmana, manovrata da Londra sin dal secolo scorso e salita al potere dopo la rivoluzione colorata del 2011. Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale;
  • 2014, l’ENI si aggiudica la concessione Shorouk a largo delle coste egiziane;
  • marzo 2015, il vertice di Sharm El Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma ed il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani;
  • luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: rivendicato dall’ISIS, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto;
  • agosto 2015: l’ENI annuncia la scoperta del maxi giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mar Mediterraneo;
  • settembre 2015: Giulio Regeni sbarca al Cairo. Reduce da un’esperienza alla società di consulente Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio/azione sul campo (Participatory action research) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana/rivoluzioni colorate. La decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro ed omicidio;
  • dicembre 2015, al vertice marocchino di Skhirat che dovrebbe decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: a questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’ENI dalle sue concessioni;
  • 25 gennaio 2016: Regeni è rapito su ordine dei servizi inglesi (le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro4), da criminali comuni o da qualche sgherro della Fratellanza Mussulmana: non è escludibile che i suoi rapitori abbiano agito in uniforme di poliziotti;
  • 3 febbraio: il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato. Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore e la delegazione del Ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la UE;
  • 9 aprile: l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. Lo sforzo per sabotare l’attività dell’ENI in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”5, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto:
  • 8 giugno: il filone delle indagini che porta in Inghilterra si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge. Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani, non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Jalta del 1945.

Emerge quindi che i servizi angloamericani mirassero a due obiettivi uccidendo Giulio Regeni: sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’ENI dal giacimento Zohr. A distanza di dodici mesi, che giudizio si può dare di questa efferata e spregiudicata operazione? Ha raggiunto o meno i suoi scopi?

Si può dire che la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, un po’ cerchiobottista e un po’ levantina, abbia limitato i danni: il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’ENI ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione. Nel complesso, i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia, sono stati quindi circoscritti e limitati.

Il governo italiano si è infatti appiattito sulla linea angloamericana, richiamando l’ambasciatore e interrompendo la collaborazione col Cairo in Libia, puntando cioè sull’effimero Faiez Al-Serraj anziché sul generale Khalifa Haftar. Nel contempo l’ENI ha perfezionato il contratto per lo sfruttamento del giacimento Zohr ed ha ceduto alla russa Rosneft una quota del 30% nella concessione di Shorouk6: quasi un terzo del più grande giacimento di gas del Mediterraneo è così passato a Mosca, alleata di ferro del presidente Al-Sisi e dei nazionalisti libici. È chiara la manovra sottostante: l’ENI si prepara a tornare in Libia, non attraverso il governo d’unità nazionale libico che ha le settimane contante, ma attraverso i russi e Haftar. Dopotutto, ENI e Gazprom non si erano già spartite il giacimento libico Elephant, poco prima che Gheddaffi fosse travolto dai bombardamenti della NATO7 del 2011?

Lo sdoppiamento della politica estera italiana, metà a Roma e metà a San Donato milanese, ha così permesso di sopperire (per l’ennesima volta) ai limiti della nostra scarsa sovranità: con buona pace dei carnefici del povero Regeni, l’Italia ha discretamente tutelato i propri interessi.

C’è ancora un capitolo della vicenda Regeni che merita di essere trattato: un capitolo minore, ma non per questo meno interessante. Finora gli è stato dedicato poco spazio perché esula dai maxi-giacimenti di gas, dai pozzi petroliferi e dai relativi investimenti miliardari: è la storia della società informatica Hacking Team, inghiottita anch’essa dal ciclone Regeni perché unica azienda italiana che operi nel territorio di caccia dei Five Eyes. Il ristretto club di spioni anglosassoni: USA, GB, Canada, Nuova Zelanda ed Australia.

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