MA PER COSA LO FANNO?

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Di Franco Maloberti per ComeDonChisciotte.org

Ogni sognatore pensa che governare sia una nobilissima missione e che tale pratica significa operare e servire la comunità per produrre vantaggi e migliori condizioni di vita ai cittadini che si affidano con fiducia a chi li governa.

Quando ero in Somalia (1975-79) avevo molti contatti con i politici locali. Con una certa frequenza incontravo il Ministro della Educazione Superiore, Botaan, andavo spesso al dipartimento dei lavori pubblici ed alla programmazione; un certo numero di volte ho incontrato il Presidente: Siad Barre. Molti degli alti personaggi che frequentavo erano chiacchierati: per loro prendere il “baqshiish” (mancia o elemosina, in arabo) era prassi comune, si parlava di una percentuale certa, il 10%; anzi, alla Casa d’Italia (il circolo che tutti frequentavamo), c’era chi si diceva esperto della cosa e narrava che tutte le aziende che operavano nel terzo mondo davano come fatto scontato il dover sborsare quote di tale entità ai politici locali: avevano, per questo, dei fondi speciali in banche svizzere.

I governanti erano ricchi, possedevano un certo numero di villette e le davano in affitto a noi bianchi della cooperazione tecnica o a quelli che lavoravano in altre organizzazioni internazionali; poi, con un facile giro di mercato nero trasferivano il denaro all’estero. Io trattavo ogni giorno con questi signori: erano affabili e dimostravano interesse negli obiettivi prefissati che mai raggiungevano. L’efficienza del sistema era vicina allo zero e la qualità dei servizi era pessima. Questi erano così scadenti che non si riusciva mai a capire se fosse l’incapacità dei politici la causa del sostanziale insuccesso o se fosse invece l’effetto della dissipazione delle risorse messe a disposizione dal nostro paese e da organizzazioni internazionali.

Conoscevo quelle persone, quei governanti, vedevo lo stato d’infinita indigenza del loro popolo e mi chiedevo: “Ma per cosa lo fanno?”. Hanno una posizione di riguardo, sono già ricchi, hanno la possibilità di svolgere un ruolo esaltante per affrancare la loro terra, e pensano solo a rubare.

Avevo (ed ho) alcune risposte al quesito. La prima è: “hanno fame”. Molti dei governanti erano nati in boscaglia, figli di pastori di pecore e di cammelli e, pur appartenendo alla “cabila” dominante erano nati poveri, o meglio pastori, durante la dominazione coloniale. Erano tutti molto magri, come è caratteristica della razza. Magrezza che indicava il gran caldo e la arsura della boscaglia ma, anche, una atavica fame. La vita in boscaglia è molto dura, solo latte di capra o di cammella e un po’ di carne ogni tanto. La probabilità di sopravvivere è molto bassa: la mortalità infantile supera il 70%. Chi sopravvive ha combattuto strenue battaglie, contro gli stenti, le malattie, la diarrea, il girovagare, il dormire per terra. La fame di secoli, e la conseguente smania di saziarsi, era una prima risposta. Non molto convincente, per la entità e la protervia dei furti, ma una risposta. La paura di aver ancora fame spingeva quegli uomini ad arraffare denaro e a mandarlo all’estero; senza riguardo per gli altri uomini, loro conterranei, che avevano poco o nulla da mangiare, che si vestivano di miseri stracci, … che avevano la “casa” fatta con la carta dei sacchi per il cemento.

E la smania era malissimamente contrastata dagli insegnamenti della religione che, mussulmana, ha regole molto più rigide di quella cattolica. Anzi, i governanti spesso professavano una religione di facciata. Bevevano alcol in segreto, ma pregavano le volte richieste ed erano senza dubbio andati almeno una volta alla Mecca. Gli insegnamenti morali del Corano sembravano disconosciuti, non ne citavano quasi mai i versetti e sembravano, mediamente, molto ignoranti in fatto di religione, meno, ad esempio, del mio cuoco o del mio guardiano. Questo, forse, per conciliare il socialismo scientifico con la religione mussulmana. Tutto ciò, anche se, nelle occasioni ufficiali, fermamente ribadivano i valori e le necessità delle funzioni religiose per gli studenti: spazio per le abluzioni, tempo per la preghiera e massima comprensione nel periodo di Ramadan in cui i giovani erano frastornati dal digiuno diurno.

Una seconda risposta al quesito è: “disprezzano per distinzione tribale.” Questa è una risposta molto crudele e, forse, ingiusta. Assume una natura animale dell’uomo che lo porta ad avversare visceralmente tutti propri consimili con la sola eccezione di quelli che appartengono alla propria tribù, alla propria casta, alla propria cabila, al proprio circolo. Una sorta di estremizzazione del razzismo che verrebbe applicato entro confini limitatissimi. L’attenzione e il rispetto vengono riservati solo ad una ristretta cerchia di confratelli; gli altri, al contrario, non contano nulla. Non importa se questi soffrano, muoiano o vengono uccisi. Sono solo dei nemici, e sono nemici solamente perché appartengono agli “altri”. Agli “altri” non va alcuna considerazione, non hanno alcun diritto, vengono solo e unicamente usati per trarre un vantaggio ai “nostri”. E i “nostri” sono solo e semplicemente i “nostri”, e la sola appartenenza al gruppo giustifica tutto e ammette qualsivoglia difesa, protezione da qualsiasi malefatta. Questa ipotesi è suggerita anche dai tristi fenomeni di schiavismo, comuni in Africa prima dei periodi coloniali, quando, in Somalia le tribù dei nasi sottili tenevano in schiavitù gli appartenenti all’etnia dei nasi larghi (tratto somatico contrapposto a quello più nobile della razza somala).

L’appartenenza a una tribù viene riconosciuto talvolta dai tratti somatici, talvolta dall’accento, talvolta dal modo di vestire (che, in alcune situazioni, è fatto di proposito, per evidenziare la propria appartenenza a quel gruppo) ma, spesso, anche se è invisibile, la appartenenza all’altra tribù viene immediatamente scoperta e la superiorità spezzatamente manifestata. Il furto, il sopruso diventano allora una giustificazione per la promozione e per la supremazia della propria tribù, della propria cabila, per rendere evidente con il segno della ricchezza la propria appartenenza, per manifestare con lo schiaffo ai poveri ed ai derelitti la propria superiorità, per indicare agli “altri”, semmai più colti e più nobili d’animo, che la loro cultura, la loro nobiltà d’animo, non conta niente contro il potere e l’arroganza dell’appartenenza alla classe.

Un analogo fenomeno, analoghi comportamenti si ritrovano purtroppo anche nelle nostre società, dove tribù di tifosi, tribù di politici, tribù di religiosi, tribù di nazioni (con una che domina le altre), disprezzano, schiavizzano, rubano, uccidono, in modo molto simile a quegli stessi usi primitivi.

Una terza risposta al quesito è: “lo fanno perché sanno di non valere niente”. Uno dei più nobili, ma anche più tristi, istinti dell’uomo è quello di progredire, di crescere, di andare avanti. Tale istinto è indipendente dalla ricchezza raggiunta, dal valore, dalla cultura. Si sale, si sale e non si vuole mai scendere. Si difende la posizione raggiunta senza rispetto per nulla. Si combatte per il territorio conquistato, per il cucuzzolo impervio raggiunto, e ci si rimane appollaiati, in alto, senza più alcun gusto, senza piacere, senza fermarsi un attimo per vedere il tramonto o il sorger del sole, ad ascoltare i rumori del mondo, a sentirne i profumi. Senza aspirare il fascino selvaggio della boscaglia, delle dune rossastre, del mare di Baidoa, o rimanere stupefatti delle ardite realizzazioni dell’uomo moderno, delle città, dei viadotti, delle autostrade, dei microcircuiti. In questa lotta, inspiegabile per certi aspetti, gli stolti, gli ignoranti, quelli che sanno di non avere la capacità culturale mettono tutta la loro rabbia per vincere, usano mezzi illegittimi e accettano tutti i compromessi per la loro promozione sociale. E quando purtroppo raggiungono il governo lo esercitano per quello che sono: da poveri ignoranti incapaci. Ma devono dimostrare la loro valenza, devono fare vedere che son loro che comandano, che esercitano il potere. E le decisioni non sono prese nell’interesse della comunità ma, solo per distinguersi, per fare cose che nel male ricorderanno l’autore: un’opera inutile, una strage, una dissipazione di beni. Non valgono niente e lo sanno. Per questo tengono il potere ben stretto perché il loro unico valore è il potere che hanno. Senza quello non sono più nulla. Sono professionisti del potere. Solo quello! Se sparisce il potere spariscono anche loro. Solo per tenere stretto il potere, per la propria sopravvivenza, lo fanno.

Una quarta risposta al quesito è: “lo fanno perché non se ne rendono conto.” Questa spiegazione è un po’ intimamente legata a quella precedente. Sembra difficile per un cittadino qualsiasi credere che i disastri che lui vede ogni giorno con chiarezza e lucidità: la criminalità, il degrado, lo schifo, ma anche le piccole storture, l’erbaccia alta nei giardinetti, i segnali stradali abbattuti o sparacchiati, lo sporco dei cessi, non vengano visti dai governanti. Possibile, si chiede sgomento il cittadino qualsiasi, che quello che lui vede e che sente siano ignorati da chi ci governa? È impossibile, pensa di essere finito in un paesaggio kafkiano, con lui, il cittadino comune che vede lo schifo e gli altri, i governanti, che non se ne accorgono che dicono che va tutto bene che tutto è normale. Invece no! E’ proprio come lui sente e vede, è il governante che non se ne rende conto. Non vede perché ha attorno una cortina fumogena, non sente perché il vociare dei cortigiani che lo assillano gli fanno sentire solo stolide sciocchezze. E perché lui stesso non ha alcuna voglia di vedere e riesce a sentire solo sciocchezze. Il processo di ascesa al comando ha comportato molti passi, tutti di allontanamento dal comune senso del vedere e sentire. Nonostante questo qualche impudente parla ancora di decisioni del popolo o prese in nome del popolo. Si sono create tante cortine di separazione dalla gente comune, per ragioni di opportunità, per sicurezza, per tranquillità del potente, perché il vociare del popolo è troppo grande e fastidioso e non consente di decidere nell’interesse generale… e via discorrendo.

Tutte queste faccende trasformano il governante, a poco a poco e con il suo consenso, in qualcosa che rassomiglia sempre di più al giovane imperatore di Bertolucci: prigioniero dei propri stupidi consiglieri o, ancor peggio, prigioniero del proprio stupido creder di essere, per sempre e da sempre, la espressione del popolo. Quello che faceva coscientemente prima, operare per gli interessi della propria cabila, diventa man mano che passa il tempo, man mano che la vecchiaia avanza, il frutto di un fermo convincimento: essere infallibile. E, quando sente i fischi della gente che non ne vuol più sapere, come è successo a Ceausescu e a tanti altri dittatori, esprima il più profondo e sincero stupore. Ma che vogliono quei disgraziati, che fanno? Contestano me, il loro conductador? Il loro padre! E non sa di essere il loro aguzzino: e non se ne rende conto, fino alla morte.

Una quinta risposta al quesito è: “così fan tutti”. Questa più che una risposta è la giustificazione, abbastanza comune, che la maggioranza fornisce al quesito: “Perché lo fai?”. Anzi non è una risposta, una giustificazione, è diventata un ritornello: “così fan tutti”, un sorriso e un’alzata di spalle. Spesso, la domanda è spesso rigirata: “Ma perché non farlo?” quali sono le motivazioni che lo impediscono? L’essere dei giusti e onesti governanti è considerato impossibile. Il processo di corruzione del potere, di degenerazione, di dissoluzione di chi assurge al comando è considerato inevitabile e certo. E per questo, la gente ormai pensa, poco importa affannarsi a ricercare facce nuove, persone capaci, e abbattere, con fatica e pericolo, chi sgoverna. Un ladro di oggi vale e fa danno quanto chi diventerà certamente un ladro domani …

Scritto nel 1983, … ma, forse, ancora attuale.

Di Franco Maloberti per ComeDonChisciotte.org

Franco Maloberti Professore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina.

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