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L’uomo macchina da presa

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A cura di Davide
Il 10 Novembre 2018
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DI JOE H.LESTER

comedonchisciotte.org

Premessa

Già in partenza ero dubbioso se concedere a questa riflessione il titolo “Sulla nostra pelle”, parafrasando quello del film dedicato alle drammatiche vicende di Stefano Cucchi e famiglia, per cui nutro il massimo rispetto, perché non doveva essere quello l’argomento centrale del pezzo, bensì la contrapposizione tra Netflix e la sala cinematografica. Poi una notte ho trovato il coraggio di vedere Sulla mia Pelle di Alessio Cremonini e l’idea di giocare coi titoli m’è parsa ancor più oscena, quasi sacrilega. Adesso, in breve, se pure non mi sento in grado di recensirlo, non posso che cominciare consigliando vivamente, a tutti quelli che ne avranno l’animo, di recuperare al più presto questo ottimo terribile film, seguìto col magone e gli occhi lucidi mentre fuori diluviava. Posso dirne poco, poiché provo disagio nell’affermare che quest’opera(zione) di denuncia, basata su fatti tanto dolorosi quanto recenti, quindi difficilissima da realizzare, sia in realtà quasi perfetta, tra i migliori film italiani degli ultimi tempi: onesto, sobrio ed essenziale nella messa in scena, con uno straordinario Alessandro Borghi nel ruolo dello sventurato protagonista.

Circa produzioni del genere, realizzate inoltre con tale impegno, trovo ci sia poco da dibattere, semplicemente un grande film da consigliare e vedere.

L’uomo macchina da presa

Riguardo le mie considerazioni, inevitabilmente più frivole, lo spunto voleva essere l’acquisto del film succitato, da parte di Netflix e la sua diffusione online e in contemporanea da Lucky Red in alcuni cinema selezionati (più, pare, qualche proiezione non autorizzata).

Ho già scritto di quanto trovi significativa la vittoria di ben due prodotti Netflix alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dove pure è stato presentato Sulla mia pelle, nella sezione Orizzonti), soprattutto a seguito della 70ª edizione del Festival di Cannes (2017), in cui il presidente della giuria Pedro Almodóvar affermava che non avrebbe mai premiato un film della piattaforma streaming, messa addirittura al bando nell’edizione successiva. Soprattutto in Italia, in questo cruciale 2018 che vede al governo due forze politiche alleate che, pur in maniera molto differente, hanno fatto dell’utilizzo della rete il loro principale motore comunicativo.

Al momento dell’uscita in contemporanea di Sulla mia pelle, molti esercenti cinematografici si sono rifiutati di proiettare un film distribuito anche da quella che percepiscono come la loro diretta concorrenza (rimarrà sempre il dubbio se questo sia dovuto in parte a motivi “ideologici”).

Stefano Sollima, regista italiano dello statunitense Soldado (il debole e confuso seguito di Sicario di Denis Villeneuve), nonostante le sue numerose esperienze televisive, sostiene di preferire ancora la sala e alla stessa maniera la pensano tanti altri celebri registi come, ad esempio, Christopher Nolan. Martin Scorsese invece, pur definendo l’esperienza cinematografica un fenomeno sociale paragonabile alla religione (andare in chiesa/andare al cinema), nel 2019 dovrebbe rilasciare proprio su Netflix il suo ultimo lavoro, The Irishman, film che tra l’altro vedrà la reunion di Robert De Niro e Joe Pesci, con l’aggiunta di Al Pacino, ringiovaniti digitalmente. È recente la notizia che il Leone d’oro e premio Oscar Guillermo del Toro realizzerà per Netflix il suo prossimo progetto, una nuova versione di Pinocchio musical e in stop-motion (Garrone, sicuro di volerlo fare? Non sarebbe meglio, finalmente, un prodotto originale?).

Sulla questione cinema/streaming non ho un’opinione precisa, francamente credo che la sala sopravvivrà alla rete com’è sopravvissuta all’avvento della televisione, certo dovrà cambiare e purtroppo orientarsi sempre più verso due modelli diametralmente opposti: il cineclub d’essai e il multiplex mainstream. Nessuno lo dice, ma già da un bel po’ i veri incassi i cinema li fanno con la vendita di cibi e bevande.

Per quanto riguarda le multisale, un minimo si risolleveranno ciclicamente a ogni innovazione tecnologico/ludica, come successo a ridosso dell’uscita di Avatar col 3D nativo o de Lo Hobbit con il 3D più High Frame Rate (lo scorrimento di 48 fotogrammi al secondo anziché i soliti 24), con l’abbandono della pellicola per i Digital Cinema Package (in pratica degli hard disk), il 4K, il rilancio del gigantesco formato IMAX, e così via. Vedremo se le uscite dei prossimi sequel di Avatar, e magari un altro Tintin di Peter Jackson, scateneranno nuovamente una gara d’aggiornamento verso esperienze visive (e uditive) sempre più immersive. Tutti i più grandi festival cinematografici, fiutando la cosa, da qualche tempo hanno attivato sezioni sulla realtà virtuale, in pratica padiglioni in cui si va in giro come ebeti con un visore VR sugli occhi, partecipando a vicende più o meno pretestuose.

Ma se il cinema sopravvivrà, sarà anche grazie alla rete, in parte relegandosi lì. Vorrà pur dire qualcosa se due dei film migliori dell’ultimo periodo li ho visti su Netflix. Del primo ho già scritto, il secondo è Hold the dark, strano prodotto da decifrare (come l’ipnotico e allucinato Annientamento), violentissimo e laconico, capace però di dire qualcosa di non banale sull’essere umano. Niente di nuovo per carità, homo homini lupus, ma ben illustrato e in maniera coinvolgente.

Al cinema negli ultimi giorni non ho beccato grandi titoli, se si esclude BlacKkKlansman di Spike Lee che, con i suoi simpatici poliziotti antirazzisti (tranne uno), fa quasi da contraltare a Sulla mia pelle. La storia in breve: all’inizio degli anni ’70 a Colorado Springs, un poliziotto afroamericano (interpretato da John David Washington) si infiltra telefonicamente nel Ku Klux Klan e fisicamente col sostegno di un collega (nuovamente l’Adam Driver de L’uomo che uccise Don Chisciotte). Tra le cose più serie e pricolose che scoprirà, un dettaglio di poco conto: sia i comitati studenteschi per i diritti degli afroamericani che il KKK chiamano “porci” le forze dell’ordine. Per il resto è un film positivo, intelligente e divertente, pieno di citazioni (Nascita di una Nazione, rimane sempre qualcosa di imbarazzante, innovativo per l’arte cinematografica, ma criticabile e da dover contestualizzare per evitare equivoci) e di momenti improbabili, ma un poco sciatto verso la fine nella messa in scena (che brutta quell’esplosione, ma chissà, magari motivi di budget). Spike Lee identifica con precisione in una clip finale ciò che più si può rimproverare a Donald Trump, pare in maniera più efficace che tutto il nuovo documentario di Micheal Moore.

Tornando alla rete, a scocciarmi seriamente della visione casalinga in streaming è l’effetto: la dipendenza.

Se lo scorrere una gallery di titoli, prende meno tempo dell’attraversare Roma in autobus per cercare VHS in sperdute, ma fornitissime videoteche, c’è qualcosa di profondamente malato nell’attendere la nuova stagione dell’ennesima serie TV (o streaming appunto) e visionare in full immersion un gran numero di episodi uno dopo l’altro. Preferirò sempre i lungometraggi che sono esperienze autoconclusive (nonostante talvolta qualche seguito): poi voglio uscire, devo vivere e vedere i miei simili (che spesso però rimangono a casa a vedere drama/serie TV). Naturalmente ci casco anch’io, più volte e persino con prodotti scadenti. Dopo aver visto Sulla mia pelle, anziché elaborare il film e lasciarlo sedimentare, ammetto che per sdrammatizzare ho messo su un paio di episodi di Arrested Development… Senza parlare degli effetti sul sonno, e quindi sulla vita in generale, che provoca addormentarsi davanti a questi black mirror attraversati da luce.

Attorno al 1922 Dziga Vertov, il geniale autore de L’uomo con la macchina da presa, scriveva escludendo la narrazione: “Qualunque film realizzato sulla base di una sceneggiatura e sul principio della recitazione è, nella sostanza, uno spettacolo teatrale […] Tutto ciò non ha niente a che fare con l’autentica vocazione della macchina da presa: l’esplorazione dei fatti reali” (L’occhio della rivoluzione, scritti dal 1922 al 1942).

Vladimir Majakovskij, pressappoco nello stesso periodo, sosteneva: “II cinema è malato. Il capitalismo gli ha gettato negli occhi una manciata d’oro. Abili imprenditori lo portano a passeggio per le vie, tenendolo per la mano. Raccolgono denaro, commovendo la gente con meschini soggetti lacrimosi. Questo deve aver fine” (Vasilij Katanian, Vita diMajakovskij).

Rispondeva il grande Sergej M. Ėjzenštejn, non interessato a quelle che trovava pure esperienze formali con un vero e proprio metodo (il “montaggio delle attrazioni cinematografiche”) utile a esercitare azioni sul piano di classe, oggi ampiamente assimilato dalla grammatica audiovisiva con finalità opposte.

È la vecchia faida tra cinema realista e di fantasia, tra i seguaci dei Lumière e di Méliès. Da appassionato della settima arte mi verrebbe comunque da dire che il cinema non è malato: è la malattia. Come scrive Paolo Mereghetti circa il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola, “l’esperienza della visione è un vampirismo reciproco tra film e spettatore”. Quindi il primo vampiro (colui che infetta) è il cinema, è la macchina da presa (e il proiettore), sono gli schermi di Brazil citati in WALL•E, è tutto il linguaggio audiovisivo, ma è vampiro anche l’occhio umano.

Rassegnamoci (noi e la buonanima di Vertov), pur comprendendone il fine ultimo, la nostra razza è da sempre sensibile all’intrattenimento: dalle pitture rupestri ai racconti attorno al fuoco, dai libri al fumetto, dal teatro e il circo al cinema, dalla televisione a internet e la realtà virtuale, verso l’estinzione o forse l’evoluzione? Verrà a breve il giorno che perfino la fulminea estemporaneità delle storie di Istagram verrà considerata una forma d’arte come oramai è quasi comunemente accettata quella del videogame. Verrà il giorno che il nostro pianeta sarà visitato da esseri alieni, e magari saranno archeologi, sicuramente scienziati. Noi non ci saremo, ma loro forse troveranno traccia dell’eccezionale produzione degli autoctoni, dei curiosi animali con la propensione a raccontare storie e, continuamente, ingannarsi.

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

novembre 2018

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