L’11 marzo di 13 anni fa un forte terremoto e uno tsunami colpirono le coste settentrionali del Giappone.
Intere città furono spazzate via, morirono oltre 20.000 persone e la centrale nucleare di Fukushima fu danneggiata.
I sistemi di alimentazione e di raffreddamento del combustibile andarono distrutti causando la fusione dei reattori 1, 2 e 3. Inoltre, ci furono esplosioni di idrogeno che causarono massicce perdite di radiazioni e contaminarono l’area.
Ancora oggi sette delle dodici città colpite rimangono parzialmente non accessibili e circa 800 tonnellate di combustibile nucleare fuso restano all’interno dei tre reattori che sono danneggiati.
Purtroppo, non si conoscono dati, tecnologie e piani che riguardano la rimozione e la bonifica delle scorie nucleari.
Quello che, invece, si sa è che dallo scorso agosto, a più riprese, ha preso il via il rilascio in mare dell’acqua di raffreddamento contaminata che è stata trattata e diluita per la decontaminazione.
Si tratta di un processo che dovrebbe durare almeno 30-40 anni.
Ovviamente i Paesi vicini, soprattutto Corea del Sud e Cina, hanno protestato e alcuni hanno vietato le importazioni di frutti di mare giapponesi. Hong Kong ha bollato come “irresponsabile” l’atteggiamento di Tokyo.
Al che le autorità nipponiche hanno assicurato che le acque contaminate e trattate rilasciate in mare non rappresentano un pericolo; tuttavia, nonostante questi tentativi di rassicurazione, rimane la forte la preoccupazione per le possibili conseguenze sull’ecosistema marino e, in particolare, per il pesce e i crostacei che possono arrivare anche nei nostri supermercati.
Il primo pensiero che viene in mente è di non comprare i prodotti ittici che arrivano dai mari nipponici; dunque, il suggerimento è quello di controllare sempre il codice numerico FAO visibile sulle confezioni.
Le zone da tenere d’occhio sono due: la FAO 61, che indica l’oceano Pacifico nordoccidentale, e la FAO 71, che individua l’oceano Pacifico centro occidentale dove potrebbero spingersi i pesci migratori potenzialmente contaminati.
Detto ciò, non bisogna però dimenticare che i mari e gli oceani comunicano.
Già uno studio pubblicato sulla rivista PNAS appena un anno dopo quel terribile incidente aveva fatto notare che si era verificato un notevole incremento di materiale radioattivo nell’oceano Pacifico. Infatti, una volta rilasciati dai reattori danneggiati, i radioisotopi si sono dispersi rapidamente nell’acqua e, complici le correnti oceaniche, si sono diffusi su un’area particolarmente vasta e a notevoli profondità.
Nello stesso periodo altri scienziati avevano studiato la presenza di radioattività lungo le coste meridionali della California e avevano riscontrato che le foreste di alghe che normalmente crescono in questa zona presentavano tracce di iodio radioattivo.
Questo un anno dopo l’incidente.
Che conseguenze potranno esserci adesso che, da agosto, sono cominciate – e stanno continuando a più riprese – le procedure di scarico nell’Oceano Pacifico dell’acqua utilizzata per raffreddare i reattori della centrale nucleare?
Anche se si tratta di acqua trattata ai fini di decontaminarla, si può dire che, a livello biologico, questa azione rimarrà priva di conseguenze?
Non credo. Né si può pensare che eventuali problematiche rimarranno circoscritte, data la complessità dell’ambiente marino.
Fanno bene, quindi, le associazioni dei pescatori locali a continuare a criticare le scelte di Tokyo e a sollecitare un passo indietro del governo.
Le stesse richieste di interrompere il piano di sversamento sono arrivate da Pechino, che ha vietato le importazioni di prodotti ittici giapponesi, e dalla Russia, che ha criticato le scarse informazioni sulle operazioni di scarico nonostante le ripetute richieste.
Altro oppositore è il Forum delle Isole del Pacifico (Pif), che riunisce 18 stati della regione. “Sulla base della nostra esperienza con la contaminazione nucleare (dai test atomici americani, britannici e francesi del secolo scorso, ndr), continuare con i piani di scarico negli oceani, in questo momento, è semplicemente inconcepibile e non possiamo permetterci il lusso di stare seduti per quattro decenni per capirlo”, ha scritto Henry Puna, segretario generale Pif, sul Guardian all’inizio dello scorso anno.
La cosa peggiore, infatti, è proprio questa: pare che questa tragedia non abbia insegnato niente dal momento che oggi, nel mondo, si produce più energia nucleare che nel 2011. I paesi che non avevano questa tecnologia, come la Turchia, hanno cominciato a dotarsene, e chi ce l’aveva già, ha potenziato le proprie centrali.
I problemi di sicurezza e dei rifiuti radioattivi prodotti, però, rimangono.
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VB