DI MASSIMO PIVETTI* **
Appello al Popolo
1. Nel corso dell’ultimo trentennio
il capitalismo avanzato nel suo complesso ha sperimentato una poderosa
restaurazione liberista, nel cui ambito il progresso è stato identificato
con la mondializzazione e la conservazione con la difesa di uno Stato
sociale e di una rete di tutele del lavoro dipendente considerati come
di fatto pregiudizievoli per quest’ultimo, in quanto fonti di accrescimento
del suo costo e di perdita di competitività.
Ma mentre in Inghilterra e negli Stati
Uniti l’attacco alle conquiste del lavoro dipendente e alle sue condizioni
materiali di vita è avvenuto apertamente e frontalmente tra la fine
degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta (1), nell’Europa
continentale esso si è sviluppato in modo più graduale e indiretto,
passando per il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali.
Svilupperò questa mia relazione
su integrazione europea e unità nazionale a partire da una concezione
del progetto di unificazione economica e monetaria europea, quale si
è concretamente imposto nel corso degli anni Ottanta e con il Trattato
di Maastricht (2), come progetto consapevole d’ indebolimento dei
movimenti operai nazionali. Cercherò poi di argomentare come nel caso
dell’Italia l’indebolimento delsuo movimento operaio possa essere
considerato come il determinante principale della situazione di crisi
in cui versa l’unità nazionale.
2. Alla luce dell’esperienza storica,
è difficile nutrire dubbi sul fatto che pieno impiego e tutela effettiva
dei principali diritti sociali comportano un cospicuo intervento dello
Stato nella produzione e distribuzione del reddito. L’edificazione
dello Stato sociale europeo nel corso del primo trentennio successivo
al secondo conflitto mondiale sarebbe stata ovviamente impossibile senza
spese pubbliche ingenti, finanziate tramite il ricorso a forme di tassazione
improntate a criteri di marcata progressività e tramite l’aumento
del debito pubblico; quell’edificazione sarebbe stata inoltre impossibile
senza il controllo dei movimenti internazionali dei capitali e dei tassi
di interesse interni, senza la subordinazione della politica monetaria
alla politica economica generale dei governi e senza politiche industriali
e commerciali capaci di allentare persistentemente il vincolo di bilancia
dei pagamenti alla crescita dell’occupazione. Riformismo e Socialdemocrazia,
in altre parole, sono inconcepibili se alla forza del denaro non può
essere contrapposta quella dello Stato – dunque se viene meno la sovranità
dello Stato-nazione in campo economico ed essa non è sostituita da
nuove forme di potere politico sovranazionale, capaci di regolare i
processi produttivi e distributivi. Questo è proprio quello che è
avvenuto con la costituzione dell’Unione europea e dell’Eurosistema
al suo interno.
Nessun processo di unificazione politica
e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica –
finalizzata al sostegno della crescita dell’Unione nel suo complesso
e al contenimento delle disuguaglianze al suo interno – ha accompagnato,
compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro
(3). Su questioni cruciali, quali sono quelle dell’occupazione e della
distribuzione della ricchezza e dei redditi, si è andata in conseguenza
determinando una situazione di ‘irresponsabilità politica’ da parte
dei governi e dei parlamenti dei singoli paesi. Le loro scelte ne sono
risultate molto semplificate. Come si era visto in modo chiaro in Europa
tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, livelli
di occupazione elevati finiscono per generare tensioni nella distribuzione
del reddito tra salari e profitti attraverso l’aumento della forza
contrattuale del lavoro dipendente; mentre politiche dei redditi capaci
di tenere sotto controllo tali tensioni comportano la presenza di uno
Stato sociale pervasivo e costoso, basato su un prelievo fiscale fortemente
progressivo. Ma grazie a Maastricht e al Patto di stabilità, la rinuncia
da parte dei governi europei al mantenimento di alti livelli di occupazione
è apparsa come imposta da vincoli tecnici oggettivi, il risultato di
una perdita di sovranità nazionale derivante da circostanze ineluttabili.
La presenza diffusa di un’illusione di ineluttabilità di questa situazione
di ‘deresponsabilizzazione’ è certamente il fattore che ha consentito
ai governi europei di tenere in molto minor conto che in passato le
ripercussioni sociali e politiche di percorsi marcatamente deflazionistici.
L’abbandono delle politiche di pieno
impiego nel corso degli ultimi tre decenni ha accresciuto in Europa
il potere del capitale e dei suoi agenti e rappresentanti, determinando
una considerevole redistribuzione a favore delle fasce più ricche della
popolazione. Grazie all’aumento della disoccupazione, i salari hanno
teso a crescere sistematicamente meno della produttività, con il conseguente
aumento dei margini di profitto. Grazie alla liberalizzazione dei movimenti
di capitali, ed alla conseguente concorrenza fiscale tra gli Stati per
trattenerli e attirarli, i sistemi tributari sono diventati più generosi
nei confronti del risparmio e della ricchezza privata. Alla ‘disciplina
fiscale’ indotta dalla libera circolazione dei capitali sono riconducibili
tanto l’accresciuto peso dell’imposizione indiretta e di quella
sui redditi da lavoro, che i ridimensionamenti dello Stato sociale in
Europa.
È noto che la maggior parte della
cultura economica accademica ha dato il suo solerte sostegno a questa
restaurazione. Il punto è che essa ha incontrato in Europa ben poca
resistenza anche da parte della Sinistra e dei sindacati dei lavoratori.
In particolare, il processo di svuotamento delle sovranità nazionali,
più che subito passivamente come da chi sia travolto da qualcosa di
inatteso, è stato accettato dalla Sinistra del continente come un aspetto
ineluttabile della “modernità”, al punto che essa stessa lo ha
spesso diligentemente gestito. Ci troviamo forse di fronte al caso più
clamoroso di subalternità ideologica della rappresentanza politica-sindacale
del lavoro dipendente nell’intera storia del capitalismo. Credo sia
proprio questa la questione sulla quale prima o poi storici ed economisti
critici dovranno concentrare l’attenzione, mirando ad un’analisi
il più possibile puntuale dell’origine di questa subalternità, dei
rapporti di forza economico-politici, nonché delle condizioni culturali,
in cui essa cominciò a svilupparsi in Europa una trentina di anni fa.
3. Ma occupiamoci delle ripercussioni
che la forma concretamente assunta dall’integrazione europea ha avuto
sull’unità nazionale.
Lo Stato sociale è per sua natura
nazionale, in quanto basato su meccanismi redistributivi che presuppongono
la presenza di coesione sociale e territoriale. Il lavoro dipendente
può considerarsi come il soggetto collettivo maggiormente interessato
alla sovranità dello Stato-nazione, condizione necessaria tanto della
sovranità popolare (4) che della tutela effettiva degli interessi del
lavoro dipendente. La sua forza relativa all’interno di una nazione
ed il quantum di sovranità della stessa in campo economico sono
direttamente correlati e tendono ad interagire: una perdita di sovranità
nazionale tende a provocare una riduzione della forza relativa del lavoro
dipendente, che, a sua volta, tende a tradursi in un’ulteriore perdita
di sovranità (5).
Dalla forza politica-contrattuale
del lavoro dipendente e dal connesso grado di sovranità nazionale
in campo economico dipendono dunque l’estensione e l’efficacia dello
Stato sociale – in particolare, la sua capacità di ridistribuire
il reddito annualmente prodotto al fine di impedire l’aumento delle
disuguaglianze e della disoccupazione, nonché la sua capacità di contenere
gli squilibri territoriali attraverso trasferimenti sistematici di risorse
dalle aree più ricche del paese a quelle più povere. Questi meccanismi
redistributivi, se da un lato presuppongo coesione, dall’altro contribuiscono
a rafforzarla, sicché ogni processo di contenimento della sovranità
nazionale in campo economico tende a produrre minore coesione, tanto
più rischiosa per la tenuta di una nazione quanto meno consolidate
si trovino ad essere, già all’inizio del processo, la sua coesione
sociale e territoriale.
Naturalmente questo è proprio
il caso dell’Italia, per un insieme di circostanze in larga parte
ben note. In primo luogo, l’assenza nel paese di valori laici da tutti
condivisi – di un’ ’etica repubblicana’, per dirla alla francese.
In secondo luogo, l’assenza, anche nel trentennio ‘keynesiano’
del capitalismo avanzato (i cosiddetti trenta gloriosi) di politiche
sistematiche di pieno impiego, con il conseguente fenomeno esclusivo
dell’emigrazione di massa di forza-lavoro nazionale, durato dalla
fine della guerra fino agli anni Sessanta inoltrati (6). In terzo luogo,
la persistenza, nonostante l’emigrazione, di alti livelli di disoccupazione,
che congiuntamente alla bassa qualità dei servizi pubblici essenziali
hanno continuato a generare tra la popolazione un elevato grado di incertezza
riguardo al futuro (7). In quarto luogo, la presenza pervasiva di clientelismo
politico e di corruzione, nonché di un’evasione fiscale intollerabilmente
elevata da parte dei percettori di redditi non da lavoro dipendente
(8). Infine, la persistenza di squilibri territoriali molto marcati
ed il continuo sviluppo del crimine organizzato, sempre più in grado
di interdire e sostituire in ampie zone del paese la presenza istituzionale
e politica dello Stato.
Questo insieme di circostanze deve
aver finito per generare in gran parte della popolazione delle aspirazioni,
magari inconfessabili ma profonde, a qualche forma di protettorato.
Ciò spiegherebbe come mai, secondo le indagini periodicamente svolte
in sede comunitaria, l’Italia sia il paese in cui il progetto di unificazione
monetaria, propagandato come catalizzatore di processi di unificazione
politica (9), abbia continuato a godere del più ampio e forte consenso.
Non si sarebbe mai potuto avere nel nostro paese un esito referendario
come quello prodottosi in Francia nel maggio 2005, allorquando la maggioranza
della popolazione e circa l’80% del lavoro dipendente, contro l’indicazione
di voto di tutte le maggiori forze politiche, votò “NO” al trattato
costituzionale europeo e a quella “concorrenza libera e non falsata”
in esso insistentemente evocata come un obiettivo primario dell’Unione
(10).
4. Ciò che soprattutto conta,
ad ogni modo, è il fatto che i soggetti politici e sindacali che,
specialmente in Italia, avrebbero dovuto essere i più strenui
difensori dei poteri dello Stato-nazione in campo economico abbiano
invece finito per fare proprie le tesi fornite a supporto del progetto
di unificazione monetaria europea dalla teoria economica dominante.
Si è trattato di tesi promotrici della rinuncia alla “discrezionalità”
in campo monetario e all’assunzione di “impegni credibili”, sostenitrici
della necessità di “attenersi a delle regole”, imposte dal di fuori,
capaci di vincolare nel tempo il corso della politica economica nazionale.
(Si pensi solo al divieto per ciascuno Stato membro, ribadito nel Trattato
di Lisbona, di indebitarsi presso la propria banca centrale e poter
così realizzare, senza oneri di interessi, dei grandi programmi di
investimenti pubblici in campi come la sanità e l’edilizia o l’università
e la ricerca.) L’adesione a tali regole ha sostanzialmente segnato
la rinuncia da parte della Sinistra a cercare di influire sulle principali
decisioni di politica economica e sulle condizioni di vita del lavoro
dipendente, mettendo di fatto fine, nel caso italiano, alla breve stagione
delle grandi riforme economiche e sociali, tutte realizzate nel corso
di un decennio tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni
Settanta (11).
Con le riforme di quel decennio, frutto
dell’accresciuto potere politico-contrattuale del movimento operaio
italiano nel corso degli anni Sessanta, si era finalmente dato inizio
anche in Italia alla costruzione di una rete di solidarietà effettive
tra i membri della collettività nazionale – una rete certo tesa in
primo luogo a ridurre l’esposizione della parte più debole della
popolazione alle vicissitudini del mercato e all’avidità dei ceti
abbienti, ma anche ad assicurare maggiore stabilità e benessere per
tutti. Ritengo si possa sostenere che le riforme di quel decennio abbiano
rappresentato nel loro insieme il primo effettivo sforzo costitutivo
di unità nazionale della nostra esperienza repubblicana. Era tuttavia
solo un inizio, la rete predisposta di solidarietà e garanzie avrebbe
dovuto essere consolidata e sviluppata. Nel trentennio successivo si
è proceduto in direzione opposta, con la rinuncia ad un maggiore prelievo
effettivo sui redditi non da lavoro dipendente (seguita dalla diminuzione
anche formale della progressività generale del sistema impositivo),
tagli cospicui delle spese sociali, una corsa alle privatizzazioni,
le controriforme del mercato del lavoro (l’aumento della sua “flessibilità”)
(12).
Tutte le controriforme dell’ultimo
trentennio, insieme all’aumento delle disuguaglianze e della disoccupazione
da cui sono state accompagnate, hanno incrinato la coesione sociale
all’interno della nazione, contribuendo a minare le già non solide
fondamenta della sua unità. Il caso delle pensioni è al riguardo emblematico.
L’istituzione di un sistema pensionistico pubblico a ripartizione,
di tipo retributivo, può essere visto come corrispondente all’elevazione
di un muro maestro nella costruzione di una nazione moderna, proprio
per il contenuto molto elevato di solidarietà e fiducia tra i membri
di una medesima comunità che lo contraddistingue: i principi su cui
esso si basa sono l’esatto opposto del principio dell’ ‘ognuno
per sé’. Ora, un tale sistema, con elevato rapporto pensione/ultima
retribuzione e prestazioni indicizzate in base al costo della vita –
successivamente anche in base alla dinamica dei salari – venne effettivamente
introdotto in Italia nel 1969 (legge Brodolini) e restò in vigore fino
al 1992, allorquando ebbe inizio (legge Amato) il processo di ridimensionamento,
tutt’ora in corso, delle prestazioni della previdenza pubblica. Questo
processo è appunto avvenuto innestando nel sistema il principio dell’
‘ognuno per sé’, sia attraverso il passaggio graduale dalla ripartizione
di tipo retributivo ad una di tipo contributivo che attraverso l’incoraggiamento
allo sviluppo di un sistema complementare di fondi pensione privati,
deputato ad evitare che le decurtate prestazioni pensionistiche pubbliche
si traducano a regime in intollerabili livelli di povertà tra gli anziani
(13). Tanto la Sinistra che i sindacati hanno accettato acriticamente
la tesi che l’invecchiamento della popolazione rendesse ineludibile
in Italia l’abbandono del vecchio sistema e l’adesione in campo
pensionistico al principio dell’ ‘ognuno per sé’. Questo, nonostante
uno sforzo analitico non sovraumano avrebbe consentito loro di comprendere
come l’aumento del rapporto tra gli anziani e la popolazione in età
da lavoro non comporta affatto di per sé l’insostenibilità di lungo
periodo di un sistema pensionistico pubblico capace di preservare, al
termine della vita attiva, gli standard di vita acquisiti dalle diverse
categorie di lavoratori dipendenti (14).
5. La stessa convinzione dell’ineluttabilità
del riaffermarsi del principio dell’ ‘ognuno per sé’ sta sostanzialmente
dietro tutti gli altri cedimenti della Sinistra all’ideologia del
mercato cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni, dall’accettazione
dei tagli alla spesa sociale e della diminuzione della progressività
generale del sistema impositivo alla condivisione dell’idea che fosse
divenuto necessario, nell’interesse stesso del lavoro dipendente,
un progressivo ridimensionamento dell’insieme delle tutele istituite
nel tempo a sua protezione. Come scriverebbe con compiacimento questo
o quell’editorialista del maggiore quotidiano nazionale, la Sinistra
e i sindacati hanno finito per “internalizzare” il vincolo della
globalizzazione, riconoscendo che senza flessibilità e “garanzie
di disponibilità” da parte dei lavoratori è impossibile rispondere
agli stimoli dei mercati – probabilmente affrettandosi subito dopo
ad aggiungere che “la strada da compiere è tuttavia ancora lunga”.
Di fatto, specialmente in Italia, la
strada già compiuta dalla Sinistra è considerevole, anche
grazie all’accelerazione subita dalla sua corsa all’adesione al
principio dell’ ‘ognuno per sé’ all’indomani del collasso del
“Socialismo reale”. A seguito di quel collasso, la Sinistra ha cessato
definitivamente di occuparsi criticamente di questioni economiche e
di classe. Al centro dell’attenzione e della mobilitazione anche dei
gruppi di militanti esterni alla Sinistra tradizionale, le questioni
economiche e di classe hanno finito per essere sostituite dall’ecologismo
e dall’antinuclearismo, dal femminismo e dalle questioni legate ai
diritti degli omosessuali e delle minoranze etniche. La posizione di
‘generosa’ apertura all’immigrazione di tutta la Sinistra italiana
ha oggettivamente fatto il gioco delle imprese, naturalmente interessate
a procurarsi a basso costo tutto il lavoro di cui hanno bisogno lasciando
disoccupati e contrattualmente indeboliti i lavoratori locali. Grazie
allo spirito “internazionalista” o di “solidarietà mondiale”
della Sinistra e dei sindacati, i beneficiari di questo aspetto della
mondializzazione hanno potuto più agevolmente far tacciare di razzismo
o xenofobia da parte dei maggiori mezzi di comunicazione le manifestazioni
di ostilità all’immigrazione. Non era difficile prevedere che in
un contesto caratterizzato da tassi di disoccupazione elevati e persistenti,
specialmente della forza-lavoro giovanile (oggi a circa il 30%, contro
una media del 19.8% nei 27 paesi dell’UE), condizioni di crescente
offerta di lavoro a basso prezzo come quelle che si sono determinate
in Italia nel corso dell’ultimo ventennio per l’assenza di politiche
di severa limitazione dell’immigrazione avrebbero finito per dare
impulso a processi disgregativi (15).
Effetto evidente della rinuncia della
Sinistra ad occuparsi criticamente di questioni economiche e di classe
è la crescita della quota di lavoratori che non sentendosi più
rappresentati tendono ad astenersi alle elezioni, o che hanno finito
per far propri valori individualisti e localisti sostenendo le forze
politiche che li propugnano.
6. Dei cambiamenti significativi di
rotta sarebbero necessari oggi in Europa, e, in loro assenza, ancora
più significativi in Italia, per contrastare il rischio di dissoluzione
della nazione.
Con lo scoppio della crisi del capitalismo
avanzato e l’inizio della recessione non era irragionevole attendersi
che almeno la Sinistra avrebbe preso atto in Europa degli errori compiuti
e del fatto che ai suoi occhi la “costruzione europea” sarebbe dovuta
fin dall’inizio apparire del tutto priva di senso se non serviva ad
assicurare più occupazione, meno precarietà, redditi reali più elevati
e un’uniformizzazione verso l’alto dei sistemi di protezione sociale.
Dunque l’obiettivo cui era lecito aspettarsi la Sinistra avrebbe puntato
di fronte alla crisi era che venisse subito avviato in Europa un coordinamento
di politiche economiche espansive, con subordinazione della politica
monetaria all’orientamento espansivo delle politiche fiscali e di
bilancio, in funzione della difesa dei livelli occupazionali e del rafforzamento
della protezione sociale nell’insieme dell’Unione. Il coordinamento
avrebbe facilitato il ricorso da parte di tutti a politiche espansive
di gestione della domanda, potendo ciascuno Stato membro contare sui
benefici prodotti sulla propria economia dall’orientamento espansivo
impresso alla politica economica anche dagli altri (16).
Nulla di tutto ciò è avvenuto.
Nonostante la crisi e con la sola opposizione costituita da dei moti
popolari per lo più spontanei, dappertutto in Europa i governi sono
ricorsi a politiche di “austerità” consistenti in tagli allo Stato
sociale, ai salari dei dipendenti pubblici, alle pensioni, all’istruzione,
alla ricerca e alla cultura, ai servizi pubblici essenziali. Nessuna
politica espansiva concertata, dunque, ma esattamente il suo contrario:
austerità fiscale concertata. Anche laddove si è riconosciuto che
essa avrebbero causato nei successivi quattro o cinque delle cadute
dei livelli di attività, si è tuttavia sostenuto che il “risanamento”
delle finanze pubbliche non avrebbe alla fine mancato di assicurare
la ripresa di un processo stabile di crescita. Difficilmente una simile
tesi avrebbe potuto avere meno fondamento. La crisi ha consolidato i
rapporti di forza e gli assetti distributivi che la hanno generata (17);
essa tende quindi ad autoalimentarsi, attraverso la riduzione del numero
dei salariati da essa determinata e attraverso il suo impatto negativo
sulla dinamica dei salari. Le politiche di austerità si inseriscono
nel processo aggravandolo, a causa dell’ulteriore aumento dei disoccupati
e dei sottoccupati e dell’ulteriore indebolimento della forza contrattuale
dei salariati che esse sono destinate a provocare. Lo stesso obiettivo
del “risanamento” delle finanze pubbliche è così destinato ad
essere in larga misura mancato, perché quanto si fa di giorno attraverso
i tagli tende a disfarsi di notte attraverso il loro impatto negativo
sul prodotto e l’occupazione.
Va tenuto presente che quand’anche
la crisi avesse finalmente reso consapevoli i governi più influenti
del continente dell’importanza per la crescita di cambiamenti nella
distribuzione del reddito in senso opposto a quelli verificatisi nell’ultimo
trentennio, la correzione dell’insieme dei determinanti del crollo
della forza contrattuale del lavoro dipendente all’interno del capitalismo
avanzato, e del conseguente aumento delle disuguaglianze, avrebbe in
ogni caso richiesto tempi molto lunghi (18). Da qui l’importanza dell’avvio
immediato di politiche di bilancio espansive, in particolare di forti
aumenti concertati delle spese sociali accompagnati in parte dal ripristino
di una maggiore tassazione del capitale e dei redditi elevati ed in
parte finanziati in disavanzo. Una simile politica di bilancio sarebbe
stata oggi in Europa l’unico mezzo efficace di sostegno dei livelli
di attività ragionevolmente concepibile, tenuto conto che la soluzione
tedesca – crescere attraverso le esportazioni, contenendo al contempo
la domanda interna – non è ovviamente perseguibile per l’insieme
dei paesi dell’Unione (e tanto meno lo è per il capitalismo avanzato
nel suo complesso) (19). Ma assente una sufficiente consapevolezza dell’importanza
per la crescita di un mutamento nelle condizioni distributive, l’
”austerità” ha potuto facilmente continuare ad imporsi, questa
volta apparendo oltretutto come l’unica linea di politica economica
percorribile di fronte all’aumento dell’indebitamento dei governi
generato dai salvataggi degli istituti finanziari nel biennio successivo
allo scoppio della crisi.
Contrariamente insomma a quanto era
pur ragionevole aspettarsi, non si è avuta in Europa alcuna revisione
dottrinale né alcuna svolta negli orientamenti della politica
economica. Si è avuta piuttosto una riaffermazione inasprita di
ciò che si è rivelato completamente fallimentare sotto il profilo
del benessere e della coesione sociale. Si risponde con accanimento
neoliberista alla crisi neoliberista e si insiste fino alla nausea sulla
tesi secondo cui il rigore è una strategia di ritorno alla crescita.
Alla crisi finanziaria privata si risponde con politiche concertate
di austerità pubblica di cui si propugna addirittura la costituzionalizzazione.
7. Supponiamo allora che in un contesto
così poco promettente vi sia un paese intenzionato, o costretto,
a fare i conti con gravi problemi di coesione sociale e/o territoriale.
Non mi sembra che un tale paese avrebbe oggi un’alternativa credibile
rispetto a quella di cercare di recuperare la propria sovranità in
campo economico, e, con essa, la capacità di contenere le divisioni
sociali e territoriali esistenti al suo interno. Naturalmente, il ricorso
da parte di un tale paese ad autonome politiche economiche espansive
presupporrebbe il ripristino del controllo dei capitali e dei saggi
di interesse interni, una ricollocazione all’interno della maggior
parte del suo debito pubblico e una maggiore tassazione del capitale
e dei redditi elevati. Probabilmente anche una minore apertura alle
importazioni di merci dai paesi a basso costo del lavoro difficilmente
potrebbe essere evitata da parte di un paese membro dell’Eurosistema
che decidesse di sganciarsene per cercare di realizzare autonome politiche
di difesa dei redditi e dell’occupazione.
Ora, per quanto sono andato qui illustrando,
tra i principali paesi europei l’Italia è probabilmente quello sul
quale il persistente orientamento deflazionistico dell’Eurosistema
sta esercitando il maggior impatto disgregativo. Ma sembra essere anche
quello in cui sono maggiormente assenti le energie culturali e politiche
indispensabili al compimento dei passi che la salvaguardia della coesione
nazionale richiederebbe. Come negli altri principali paesi europei,
anche in Italia il cambiamento delle condizioni di potere e distributive
prodotto dal ricorso sistematico a politiche deflazionistiche rende
a mio avviso del tutto irragionevole attendersi che delle spinte al
recupero di una maggiore sovranità nazionale in campo economico possano
provenire da forze estranee al movimento operaio. È dunque essenzialmente
alla consapevolezza e alle posizioni attuali di quest’ultimo che occorre
guardare per valutare la possibilità che in Italia si sviluppino delle
spinte in tal senso, in funzione del contenimento delle divisioni sociali
e territoriali. Del resto, come si è sopra ricordato, sono state in
passato proprio delle conquiste di cultura e di civiltà realizzate
dal mondo del lavoro il principale fattore ricostitutivo di coesione
sociale e territoriale della nostra esperienza repubblicana, dopo lo
sfacelo materiale e morale seguito alla seconda guerra mondiale.
Il problema è che da parte della
Sinistra e dei sindacati dei lavoratori non vi è stata in Italia
nel corso degli ultimi trent’anni alcuna riflessione sul processo
globale di ridimensionamento dei poteri dello Stato-nazione nel controllo
dell’attività economica come possibile base di un processo di crisi
della nostra unità nazionale. Nella Sinistra continua a prevalere l’idea
che non vi sia alcuna alternativa al continuare ad assumere fino in
fondo l’orizzonte politico dell’Europa, coûte que coûte. Si ragiona
come se l’influenza esercitata nell’ultimo trentennio da monetarismo
e neoliberismo sul progetto d’integrazione europea potrebbe dopo tutto
finire per dissolversi; dall’Europa dei vincoli si potrebbe finire
per passare all’Europa della crescita e l’integrazione monetaria
potrebbe dopo tutto finire per tradursi effettivamente in vera e propria
integrazione politica. Eppure, i continui allargamenti dei “confini
europei” dovrebbero aver reso a tutti evidente come quello dell’unificazione
politica sia stato sempre solo uno specchio per le allodole, avente
lo scopo di facilitare l’accettazione da parte dei popoli europei
degli svantaggi derivanti dalla rinuncia alla sovranità monetaria e
a buona parte di quella fiscale da parte dei rispettivi governi. E poi,
come abbiamo appena visto, la reazione dei governi alla crisi economico-finanziaria
ha reso evidente che perfino un semplice coordinamento delle politiche
fiscali e di bilancio, finalizzato alla difesa dei redditi e dell’occupazione,
è di fatto fuori gioco in Europa.
Nella Sinistra, inoltre, continua di
fatto a prevalere il convincimento che il ridimensionamento già
avvenuto del ruolo dello Stato nell’economia sia ancora incompleto,
e che, mentre unico obiettivo della politica monetaria non possa che
continuare ad essere la stabilità del livello dei prezzi, la politica
di bilancio debba primariamente perseguirne il pareggio onde evitare
che del risparmio sia “sottratto” all’investimento e che la crescita
del debito pubblico pregiudichi il benessere delle generazioni future.
Un conflitto generazionale presunto (20) ha sostituito anche nella riflessione
della sinistra il conflitto effettivo tra capitale e lavoro ed essa
continua a non riuscire a vedere nel processo di ridimensionamento dei
poteri dello Stato-nazione il principale veicolo di indebolimento del
movimento operaio. Neppure la recessione risulta avere scosso la convinzione
dominante anche al suo interno che la strategia di un’Italia decisa
a diventare “moderna” e a “restare in Europa” debba essere quella
di andare avanti con liberalizzazioni e privatizzazioni, accrescere
ancora flessibilità e concorrenza in tutti i mercati a partire da quello
del lavoro. La recente vicenda Fiat ha ben illustrato come l’accelerazione
della corsa ad accrescerne ulteriormente la flessibilità sia vista
pressoché da tutti come la strada maestra per sostenere la competitività
delle merci prodotte all’interno, incoraggiare gli investimenti e
contenere le delocalizzazioni.
8. Trenta anni di assenza di riflessione
critica sono un periodo molto lungo. La subalternità del movimento
operaio nei confronti della cultura economica dominante, quale si è
andata in conseguenza sviluppando in questi tre decenni, ha permesso
al principio dell’ ‘ognuno per sé’ di affermarsi incontrastato,
finendo per agire come fattore di crisi anche della nostra unità nazionale.
Ho già sottolineato che sono a mio avviso i determinanti di questa
subalternità ciò che occorre soprattutto indagare. L’essere riuscito
a convincere le Sinistre europee, insieme a buona parte dei sindacati
dei lavoratori, che lo Stato sociale della “vecchia Europa” costituiva
un modello irrimediabilmente esaurito può essere considerato come il
maggior successo del neoliberismo. Insieme a stagnazione, disoccupazione
e precarietà dilagante, questo successo ci sta costando il rischio
dello sfascio della nazione.
* Ringrazio Roberto Ciccone e Vincenzo
Maffeo per commenti e suggerimenti.
** Pubblicato in L. Paggi (a cura di),
Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale, Carocci,
Roma 2011 – atti del convegno sul 150° anniversario dell’unità d’Italia
svoltosi a Roma il 25-27 maggio 2011, sotto la responsabilità scientifica
di Mario Caravale, Massimo Luciani, Leonardo Paggi, Francesco Pitocco,
Massimo Pivetti e Antonio Prete presso la Sala del refettorio della
Camera dei deputati.
Note:
(1) In Inghilterra, un orientamento
marcatamente deflazionistico impresso alla politica economica fece salire
il tasso di disoccupazione dal 5.4% nel 1979 all’11% nel 1984 (riscenderà
sotto il 10% solo nel 1988). Il 1984 fu in Inghilterra anche l’anno
del lungo sciopero (12 mesi) dei minatori (allora i lavoratori manuali
più pagati del paese) contro la chiusura dei pozzi, conclusosi con
la sconfitta del loro sindacato (il NUM, il più forte sindacato inglese)
e il varo di regole fortemente limitative del diritto di sciopero. Alla
sconfitta più emblematica del mondo del lavoro britannico, corrispose
negli Stati Uniti quella dei controllori di volo nel 1981: il loro sciopero
si concluse con migliaia di licenziamenti, decine di processi intentati
a sindacalisti e il varo di norme antisciopero. Come in Inghilterra,
anche negli USA l’attacco frontale al lavoro dipendente fu preceduto
da una fase di intensa politica deflazionista, che fece salire il tasso
di disoccupazione dal 5.8% nel 1979 all’11% nel 1982.
(2) Ricordiamo che si è trattato
di fatto di unificazione della sola politica monetaria, avente come
unico obiettivo quello di assicurare la stabilità del livello dei prezzi
per l’insieme dei paesi membri dell’Unione. In regime di completa
liberalizzazione dei movimenti di capitali, una moneta unica è stata
istituita a seguito della creazione di una banca centrale sovranazionale
cui è demandato decidere la politica monetaria valida per tutti i paesi
membri, in completa autonomia dai responsabili della politica economica
dei singoli paesi e dagli organismi politici dell’Unione.
(3) Con un drastico allontanamento
dall’impostazione originaria del progetto di unificazione economica
e monetaria, nel corso degli anni Ottanta e nel Trattato di Maastricht
tutto l’accento è stato posto sulla centralizzazione della politica
monetaria e l’imposizione di vincoli all’azione di politica economica
dei singoli governi, mentre la formazione di una politica di bilancio
comune è sparita dall’agenda. Sulla perdita della sovranità fiscale
di un paese (della sua libertà di decidere livello e composizione della
spesa pubblica e le forme della tassazione) conseguente alla perdita
della sua sovranità monetaria, si veda M. Pivetti, “Monetary versus
political unification in Europe. On Maastricht as an exercise in
‘vulgar’ political economy”, Review of Political Economy,
Vol. 10, n. 1, 1998.
(4) Si veda al riguardo M. Luciani
(“L’antisovrano e la crisi delle costituzioni”, Rivista di Diritto
Costituzionale, n. 1, 1996), per il quale “[l]’idea moderna di sovranità
è legata (soprattutto dopo essere stata tradotta nella teoria del potere
costituente) a due precondizioni – ‘la concezione ascendente del
potere’ e ‘l’idea di nazione’ – che sono entrambe assenti
nella nuova politica” (rispetto alla quale, secondo l’autore, si
può parlare del “tentativo di creazione di un antisovrano”,
cioè di un quid nel quale si intrecciano le volontà degli esecutivi
di alcuni Stati, quelle di potenti tecnocrazie internazionali e di imprese
transnazionali; cfr. ibid. pp. 164-5). Contrariamente a quanto qui sostenuto,
tuttavia, Luciani sembra ritenere che quando si sia compiuta un’integrazione
monetaria internazionale, essa “finisce per tradursi pianamente in
vera e propria integrazione politico-economica” (ibid., p. 167; su
questo, v. anche più avanti, n. 9).
(5) Si pensi, ad es., alla perdita
di sovranità nazionale derivante dalla rinuncia al controllo dei
movimenti di capitali, che riduce per un paese le possibilità di ridurre
la sua disoccupazione. L’indebolimento del lavoro dipendente che ne
consegue facilita l’avvio di processi di ‘depoliticizzazione’
di importanti aspetti della politica economica, attraverso la delega
delle relative decisioni ad organi sovranazionali politicamente irresponsabili
– Commissione europea, BCE , FMI.
(6) Tra il 1946 e il 1966 compresi
si ebbe in Italia un flusso medio annuo netto di espatri superiore alle
140 mila unità, per un totale di espatri netti nel periodo pari a circa
3 milioni di persone.
(7) Lo stato d’incertezza connesso
con la disoccupazione e sottoccupazione giovanile, la mancanza di servizi
d’abitazione a buon mercato per le giovani coppie e la persistente
assenza di politiche e servizi a favore della maternità spiegano il
crollo del tasso di fertilità nel caso italiano: in soli 20 anni, dall’inizio
degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta (quando iniziò
ad intensificarsi il flusso immigratorio), il numero medio di figli
per donna cadde in Italia da 2.4 a 1.2, uno dei tassi di fertilità
più bassi su scala mondiale. L’indifferenza nei confronti del declino
demografico è in Europa una specificità italiana e costituisce una
delle manifestazioni più chiare del diffuso disinteresse effettivo
per il futuro della nazione.
(8) L’elevata evasione fiscale da
parte dei percettori di redditi non da lavoro dipendente e lo stato
d’incertezza riguardo al futuro diffuso tra i ceti popolari possono
insieme considerarsi come l’altro lato della medaglia dell’elevato
tasso di risparmio delle famiglie italiane.
(9) Tra gli alti funzionari e uomini
di governo italiani, Tommaso Padoa-Schioppa è stato il più
autorevole propugnatore della concezione dell’unificazione monetaria
europea come catalizzatore dell’unificazione politica (cfr. ad es.
T. Padoa-Schioppa, “The European monetary system: a long-term view”,
in F. Giavazzi, S. Micossi e M. Miller (a cura di), The European Monetary
System, Cambridge, Cambridge University Press, 1988). Per una critica
di questa concezione, si veda, dello scrivente, il già citato “Monetary
versus political unification in Europe”.
(10) Ma a conferma del carattere antipopolare
e sostanzialmente autoritario del progetto UE, ogniqualvolta un suo
passaggio particolarmente significativo viene rigettato dalla popolazione
di questo o quel paese, come nel caso appena ricordato nel testo, esso
viene di lì a poco riproposto in una forma nuova fino a che un “SI”
non sia stato ottenuto.
(11) Mi riferisco alla riforma delle
pensioni (1969), allo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970) e alle
norme per la tutela delle lavoratrici madri e la parità di trattamento
tra uomini e donne in materia di lavoro (1971 e 1977), all’avvio di
un tentativo di riforma del sistema tributario nel senso dell’aumento
della sua progressività (1974) e all’istituzione del Sistema Sanitario
Nazionale (1978).
(12) Non va dimenticato che le conquiste
di civiltà di quel decennio furono tutt’altro che indolori.
La stagione delle grandi riforme fu in Italia anche la stagione dello
stragismo, inaugurata alla fine del 1969 dalla strage di piazza Fontana.
La reazione stragista all’avvio di un riformismo effettivo giocò
certamente un ruolo nella rapidità del successivo ‘ripiegamento’
della Sinistra italiana.
(13) Naturalmente, qualunque sia il
sistema pensionistico, gli anziani non possono che ricevere una parte
del reddito correntemente prodotto dagli attivi, sicché se questo
in un dato anno per una qualsiasi causa fosse nullo sarebbero necessariamente
nulle in quell’anno anche le pensioni, non importa quanto alti fossero
stati in passato i risparmi pensionistici individuali. Ma il fatto che
con i sistemi privati a capitalizzazione, così come con il sistema
pubblico a ripartizione di tipo contributivo, la pensione cui si ha
teoricamente diritto è commisurata all’entità dei contributi versati
nel corso della propria vita attiva crea l’illusione che alla fine
il pensionato si riprenda, con gli interessi, il “grano” che egli
stesso è stato capace in passato di “mettere da parte”.
(14) Oltre che dal livello medio delle
pensioni pubbliche e dal rapporto tra gli anziani e la popolazione in
età di lavoro, l’incidenza della spesa pensionistica pubblica
sul prodotto interno lordo dipende dal tasso di attività, dal tasso
di occupazione e dal prodotto per occupato. Tutte queste cinque grandezze,
non solo il livello medio delle pensioni, sono controllabili nel medio-lungo
periodo dalla politica economica (si veda al riguardo M. Pivetti, “The
‘principle of scarcity’, pension policy and growth”, Review
of Political Economy, Vol. 18, 2006, pp. 379-90). Sull’aumento del
rapporto tra gli anziani e la popolazione in età di lavoro come prezzo
del mancato sviluppo, per cui è una scarsa crescita del prodotto e
dell’occupazione a generare l’invecchiamento della popolazione e
non viceversa, si veda A. Barba, “Previsioni demografiche e sostenibilità
della spesa pensionistica in Italia”, Studi economici, n. 94, 2008/1,
pp. 65-93.
(15) Includendo i clandestini (stimati
dalla Commissione UE per l’Italia intorno all’1% della popolazione),
gli stranieri costituiscono oggi in Italia circa l’8.2% della popolazione
residente complessiva, una percentuale ormai vicina a quella relativa
a paesi di ben più antica tradizione immigratoria come la Francia e
l’Inghilterra. Nel marzo 1990 un mio articolo sugli effetti negativi
dell’immigrazione sul mercato del lavoro e le condizioni di vita dei
salariati, e sulle sue implicazioni politiche più di lungo periodo
nel caso italiano, fu respinto da il manifesto perché in contrasto
con la linea del giornale in materia. Del che naturalmente ero pienamente
consapevole, ma ritenevo che rappresentare un punto di vista diverso
e fornire elementi concreti di analisi potesse utilmente contribuire
a una discussione nella Sinistra sulla questione.
(16) Per l’Unione nel suo complesso
la maggior parte dell’interscambio complessivo di beni e servizi ha
luogo al suo interno (per ciascuna delle tre maggiori economie – Germania,
Francia e Italia – tra il 60 e il 70 per cento del suo interscambio
ha luogo con paesi dell’Unione). I beneficiari esterni di ogni espansione
della domanda interna dei singoli paesi sarebbero stati dunque principalmente
gli altri paesi dell’Unione, sicché gli effetti di sostegno dell’occupazione
prodotti da un coordinamento in senso espansivo delle politiche economiche
sarebbero rimasti concentrati al suo interno, con rischi relativamente
contenuti che la crescita venisse ostacolata da problemi di bilancia
dei pagamenti connessi con l’interscambio con il resto del mondo.
(17) Cfr. al riguardo A. Barba e M.
Pivetti, “Rising household debt: Its causes and macroeconomic implications
– a long-period analysis”, Cambridge Journal of Economics, Vol.
33, n. 1, 2009, pp. 113-137, e “Changes in income distribution,
financial disorder and crisis”, in E. Brancaccio e G. Fontana
(a cura di), The Global Economic Crisis, Routledge, 2011.
(18) Il crollo del potere contrattuale
del lavoro dipendente avvenuto nell’ultimo trentennio nell’insieme
del capitalismo avanzato è riconducibile ad un insieme complesso di
concause, le principali delle quali possono essere individuate in livelli
di disoccupazione molto più elevati che nel trentennio precedente,
nella caduta dei tassi di sindacalizzazione e nelle riforme del mercato
del lavoro, nella notevole accelerazione impressa al processo di internazionalizzazione
economica in ciascuna delle sue tre dimensioni fondamentali: forza-lavoro,
capitali e merci (v. M. Pivetti, “Advanced capitalism and
the change in income distribution: A suggested classical interpretation”,
in atti del convegno “Production of Commodities by Means of Commodities”
1960-2010, Centro di Ricerche e Documentazione “Piero Sraffa”, Roma
2-4 dicembre 2010).
(19) La maggiore economia europea continua
a non usare la sua competitività per far crescere di più la domanda
interna, e, in tal modo, contribuire anche a ridurre i saldi correnti
negativi dei membri più deboli dell’Unione insieme alla parte del
loro debito pubblico collocato all’estero. (Ricordiamo che a fronte
della stagnazione dei salari e dell’aumento del tasso di risparmio
delle famiglie tedesche connesso con il cambiamento distributivo a favore
dei ceti abbienti, nell’ultimo decennio la spesa per consumi è cresciuta
complessivamente in Germania di appena poco più del 2% in termini reali.)
Allo stesso tempo che si adopera per preservare i suoi saldi correnti
positivi, la Germania non imbocca la strada della corresponsione di
credito a buon mercato ai paesi membri con saldi correnti negativi per
cercare di continuare a crescere pur con una domanda interna relativamente
stagnante. Da qui l’insostenibilità di medio-lungo periodo della
situazione per la stessa Germania e la non credibilità della tenuta
dell’Eurosistema. Il fatto che la Germania sia la maggiore economia
del continente, dunque inevitabilmente la nazione-guida dell’Unione,
contribuisce a rendere estremamente improbabili i cambiamenti richiesti
dalla tenuta dell’integrazione europea. Non va perso di vista al riguardo
che culturalmente il mondo di lingua tedesca è stato la culla del neoliberismo,
con gli scritti di autori come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek,
Wilhelm Röpke. Quest’ultimo, in particolare, ha esercitato un’influenza
considerevole sulla politica economica della Germania del secondo dopoguerra
come padre della “Terza Via” – l’”economia sociale di mercato”
o “Ordoliberalismus” – con la sua profonda ostilità ideologica
nei confronti della sovranità dello Stato-nazione in campo economico
in quanto presupposto delle politiche keynesiane di piena occupazione
e dello Stato sociale (si vedano i suoi scritti degli anni Quaranta,
in particolare: The Social Crisis of Our Times (1942), Chicago
1950; Civitas Humana. I problemi fondamentali della riforma sociale
ed economica (1944), Milano 1947; La communauté
internationale (1945), Ginevra 1947). Sull’orientamento ‘mercantilista’
della politica economica tedesca lungo tutto il secondo dopoguerra,
si veda il recente saggio di S. Cesaratto e A. Stirati, “Germany
and the European and global crises”, Quaderni del Dipartimento
di Economia Politica, Università degli Studi di Siena, n. 607, gennaio
2011.
(20) Una volta che ci si sia emancipati
dalla concezione teorica tradizionale della relazione tra risparmi e
investimenti, diviene agevole comprendere come le questioni connesse
con il servizio del debito pubblico interno non sono mai questioni di
rapporti tra generazioni diverse. Quanto lo Stato preleva dai contribuenti
per il pagamento degli interessi ed il rimborso del debito in scadenza
lo versa ai suoi creditori, appartenenti ovviamente alla stessa generazione
dei contribuenti. Contribuenti e creditori possono addirittura essere
fatti coincidere, nel qual caso gli stessi soggetti semplicemente pagano
con una mano quanto riscuotono con l’altra. Nei limiti in cui questo
non si verifica, sorge sì una questione distributiva ma di carattere
intragenerazionale: si hanno trasferimenti di reddito e ricchezza da
coloro che pagano le imposte a coloro, della stessa generazione, che
(magari perché riescono ad evaderle) fanno invece prestiti allo Stato
(il caso italiano).
Fonte: Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull’Italia
16.01.2012