Intervista a Massimo Fini
DI CARLO PASSERA
Siamo ormai prossimi all’ultima settimana di campagna elettorale. Massimo Fini, che giudizio ne dai?
«Nel nostro Paese si respira un clima da psicodramma. Umberto Eco annuncia che lascerà l’Italia se dovesse vincere Silvio Berlusconi, Nanni Moretti fa uscire al momento opportuno un film dove il premier è graziosamente paragonato a un caimano, Giuliano Ferrara evoca scenari da caduta del fascismo e propone la “bella morte” pavoliniana, si sente parlare di comunisti che mangiano i bambini proprio come nel 1948… Ora: notoriamente non sono un seguace della democrazia rappresentativa: ma i liberaldemocratici ci hanno spaccato i timpani, per anni – soprattutto in questi ultimi anni – predicando l’alternanza al potere scandita dal voto, dicendoci che è l’essenza stessa della democrazia, la sua fisiologia, il senso che la distingue dalle dittature. Secondo questa prospettiva, il popolo con libere elezioni dopo cinque anni giudica un governo e, a seconda che questo abbia amministrato bene o male, lo conferma oppure lo boccia; la maggioranza che cade va quindi a fare l’opposizione e a esercitare una funzione di controllo. Bene: ma allora cos’è mai il dramma tutto italiano che viviamo in questi giorni? Sembra che, se vinca l’uno o l’altro, ne vada della nostra stessa esistenza!».Per fortuna non è così…
«In verità un dramma c’è, ma non riguarda né la democrazia, né gli italiani, per i quali ben poco cambia se prevale l’uno oppure l’altro candidato, anche perché qualsiasi governo nazionale oggi è condizionato pesantemente da fattori globali che sfuggono al suo raggio di azione»
E allora, per chi è questo dramma?
«Per le oligarchie politiche, con il loro enorme apparato di adepti, seguaci, favoriti, protetti, clienti, servi e giornalisti. Sono terrorizzate al solo pensiero di perdere gli enormi privilegi e i vantaggi, le rendite di posizione e la possibilità di commettere abusi e soprusi; oppure sono galvanizzate dall’idea di conquistare tutto ciò, e pregustano il piacere di distribuirlo ai propri famigli, come nel feudalesimo. Ecco: questa è la ragione degli isterismi ai quali stiamo assistendo. E attenzione: io sono certo che la maggioranza del popolo italiano, o comunque una sua buona fetta nella quale mi infilo anch’io, guarda a questo grottesco spettacolo con indifferenza, disincanto, ironia o addirittura disgusto, aspettando di sapere dopo il 10 aprile da quale di queste oligarchie (oggi imploranti il voto) sarà oppressa, schiacciata e sbeffeggiata nei prossimi anni».
Ecco, questo è il punto: il “disincanto” popolare rispetto a una campagna elettorale sopra i toni è dovuto a una accresciuta consapevolezza democratica o invece a una ormai sedimentata delusione?
«Ho scritto Sudditi – Manifesto contro la democrazia (Marsilio, 2004) proprio su questi temi, sull’incertezza di una democrazia rappresentativa che in Italia perde anche quelle forme minimali invece conservate in altri Paesi. Lo spettacolo al quale stiamo assistendo non va mai in scena, per dire, in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Germania, nella stessa America: là cade un governo e se ne fa un altro, senza troppi problemi. La democrazia è questo! Poi evidentemente ci sono cose che non funzionano e interessi magari incompatibili con una reale democrazia e che comunque risultano decisivi; ma è un altro discorso. Comunque, ripeto: lo psicodramma italiano, più che i leader politici in quanto tali, riguarda l’enorme apparato che ruota loro intorno».
Se altrove la democrazia non offre questi “spettacoli”, quali le ragioni della nostra peculiarità?
«L’emergere di una personalità carismatica e in quanto tale estranea a un processo democratico. Quest’ultimo, strutturalmente, “sospetta” delle figure forti, privilegiando piuttosto il grigiore. Aggiungiamo che il personaggio in questione per una serie di motivi ha spaccato il Paese in due, in un momento in cui non ce n’era alcuna necessità, poiché i poteri reali di un governo sono molto limitati rispetto al passato, né siamo nel 1948 quando occorreva decidere tra il cosiddetto “mondo libero” e l’Unione Sovietica».
Stiamo parlando di Berlusconi. Sempre sue, le colpe?
«Aggiungiamo più in generale un altro elemento: c’è un’incapacità diffusa di accettare un sistema democratico che prevede fisiologicamente anche la sconfitta. Come nelle partite di calcio, perdere fa parte del gioco, ma nel nostro Paese è vietato. È una questione di storia e costumi: c’è una faziosità antica che ci portiamo dietro. Ma almeno guelfi e ghibellini avevano una ragione di contesa, così come fascisti e antifascisti, o comunisti e anticomunisti. Qui, invece, cosa c’è in gioco? Io non vedo nulla! Anche a leggere i programmi dei due schieramenti, ci possono essere delle piccole differenze, ma la sostanza è sempre quella: libero mercato e necessità di adeguarsi alla competizione imposta dalla globalizzazione. È una partigianeria senza alcun sostrato reale; io non sarei contro la passione politica, quando ha le sue ragioni. Ma qui non ve ne sono, o ve ne sono pochissime».
Parli di una “faziosità antica”. Da dove deriva? È il tardo riflesso dei vecchi fronti ideologici contrapposti e/o nasce dalla nostra storia secolare di campanili divisi, che ha come prima conseguenza la totale mancanza del senso di comunità nazionale?
«Sono vere entrambe le cose. Quanto al retaggio di ideologie ormai totalmente scomparse, beh, è difficile pensare che possa costituire qualcosa di positivo. Il secondo elemento, invece, potrebbe essere considerato anche in senso non negativo: il ritorno al campanile visto insomma alla luce della crescente necessità di radicamento di fronte al mondialismo. Però, onestamente, non vedo emergere tale processo, in questa fattispecie».
A tuo giudizio, una comunità come quella italiana può sperare di evolvere in una democrazia matura e diventare quel “Paese normale” che auspicava Massimo D’Alema?
«No. Neanche il crollo del Muro di Berlino, che ha provocato una serie di assestamenti profondi in Europa (la riunificazione della Germania, le guerre in Yugoslavia, eccetera) ha cambiato nella sostanza la società italiana. Per questo, dubito che succederà in futuro. Poiché non accade mai nulla di drammatico, gli italiani tendono ad adagiarsi sul loro malcostume. Il problema è che il momento del dunque prima o poi arriva; le faziosità, gli opportunismi e l’inosservanza di qualsiasi regola verranno pagati a caro prezzo. La cialtroneria non è punita nei tempi normali, ma quando il gioco si fa serio…».
Benito Mussolini diceva: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile». Sei d’accordo?
«Sì, aveva ragione, anche se lui un progetto lo aveva, seppur discutibilissimo. Ci ha provato, il fascismo aveva in testa un’idea di Nazione. Oggi non vedo tutto questo. Anzi, sono trent’anni che non vedo alcun progetto per il futuro di questo Paese. Io credo che tra un secolo il trentennio fascista sarà giudicato positivamente, se confrontato non coi primi venti, ma con gli ultimi trent’anni di questa democrazia».
Se non siamo riconducibili a una democrazia all’occidentale, quale strada dovremmo imboccare?
«Non lo so. Ma un esempio di dove si finisce con questa democrazia, con la mancanza di ordine, disciplina e compostezza, è Napoli. Era una città meravigliosa, che viveva a modo suo nell’anarchia. Tutto ciò, spostato nella modernità, ha invece generato il terribile collasso che vediamo ogni giorno. Oggi è il posto più atroce del mondo, forse solo Calcutta può essere considerata peggio. Io temo un degrado di questo genere. Non dico che noi si debba essere come il Giappone o la Svizzera, ma una misura dobbiamo pur trovarla… Quello al quale assistiamo in questi giorni, prima di tutto, è uno spettacolo indecoroso. Ma nessuno protesta, anche perché questa è l’eterna Italia di Guicciardini, del particulare. Con un problema: mentre questa connotazione in altri tempi poteva avere anche una valenza positiva, nella modernità – che io non amo – è una sorta di tragedia».
Non si deve forse concludere che la classe politica è fedele espressione del popolo che la esprime?
«Senz’altro, ma in senso negativo, sia per Prodi che per Berlusconi. Questi esprime il post-moderno, una libertà senza regole, storia e tradizioni; l’altro invece valori vecchi, superati, un conservatorismo che ha timore di qualunque innovazione. Il secondo demolisce tutto e ricostruisce peggio di come era precedentemente; il primo è chiuso a tutto ciò che è nuovo, lo si vide all’epoca dell’apparizione leghista, solo per un momento D’Alema, che non è un cretino, spiegò che il Carroccio era una costola della sinistra, in quanto rappresentava qualcosa di diverso dal razionalismo economicista».
Insomma, bocci entrambi i candidati dei due schieramenti. Non c’era nulla di meglio? Perché questa selezione “in negativo”?
«I meccanismi di selezione della classe politica, e di quella italiana in particolare, sono tutti al contrario: si premia la fedeltà feudale piuttosto che le capacità. Ciò, in ogni campo: in quello politico, ma anche in quelli connessi o collaterali, come il giornalismo. Diceva Indro Montanelli di Sandro Pertini: “Ha rappresentato al meglio il peggio degli italiani”. Ecco, questi rappresentano al peggio il peggio degli italiani».
Un peggio al quadrato.
«Esatto, ma è una questione di sistema».
Si ha l’impressione che, quando la democrazia italiana ha superato la rigidità dovuta alla guerra fredda e al muro di Berlino…
«…e poi al consociativismo…».
…ecco, in quel momento la capacità di rappresentanza della nostra classe politica sia persino peggiorata.
«Sai, la libertà è difficile da amministrare. Noi non siamo stati capaci di gestirla anche perché, non ce la siamo affatto conquistata, se guardiamo alla nostra storia recente, nonostante tutte le retoriche ciampesche (e non solo ciampesche) sulla Resistenza. Dobbiamo dire grazie alle armi degli anglo-americani, eppure non abbiamo mai fatto i conti con la nostra cialtronaggine, questo è una delle nostre tare storiche. Il popolo italiano ha aderito al fascismo, gli ha dato il consenso e poi ha fatto finta di diventare antifascista, quando è diventato conveniente. La Resistenza vale come riscatto morale per quelle poche decine di migliaia di uomini che l’han fatta davvero, non per il popolo nel suo complesso. È questa la grande differenza che ci divide da Germania e Giappone, Paesi che i conti con la loro storia l’hanno fatti davvero».
Se, come dici, non siamo in grado di gestire la nostra libertà, abbiamo forse bisogno del famoso “uomo forte”?
«L’uomo forte non è più immaginabile nella modernità, almeno per molti decenni ancora. Sono convinto che il regime democratico, che mostra di essere un prodotto scaduto, verrà prima o poi sostituito da qualcosa d’altro. Non può continuare così, il sistema non rispetta le proprie promesse ed è solo quello il metro per giudicarlo. Il feudalesimo, per dire, è durato secoli piuttosto degnamente, perché dava seguito alle aspettative che creava. Penso che per un bel po’, finché non ci sarà questa revisione generale della democrazia, noi vivacchieremo regredendo, perché nella competizione globale non basta più l’inventiva singola, che è storicamente la nostra migliore caratteristica».
Niente più uomo forte, dunque. Ma alla nostra storia non è mancato un De Gaulle che facesse fare un “salto di qualità” alla democrazia italiana?
«Abbiamo avuto la Democrazia cristiana, ossia l’esatto contrario di De Gaulle. D’altro canto per un lungo periodo la Dc è stata la miglior soluzione per la nostra Penisola, tanto è vero che gli anni Cinquanta e buona parte dei Sessanta sono stati assai buoni, anche perché quando si deve ricostruire un Paese l’impegno è paradossalmente più facile. La Dc si adattava alla nostra tendenza genetica al compromesso, che oggi invece non è più gestibile. Il nostro vero tentativo di sviluppare qualcosa di autoctono è stato comunque il fascismo, nel bene e nel male».
Dunque, paradossalmente, l’unica via d’uscita per l’Italia può essere un’accelerazione della crisi delle democrazie?
«Sì, è triste dirlo ma è così. La crisi può esserci utile. Lo spiegava Nietzsche: “Ogni crisi che non uccide il malato è feconda”. Il nostro Paese ha espresso nella sua storia una cultura di grande livello, ma ora c’è rimasta solo la moda. Stiamo sfruttando e dilapidando l’eredità del passato. Per il futuro, dobbiamo voltare pagina».
Carlo Passera
Fonte:www.lapadania.com
30/03/2006