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La Redazione

 

La UE e il sovranista della porta accanto

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Il 21 Luglio 2020
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Discussioni tra leader Ue a Bruxelles.

Adesso è il momento del respiro di sollievo, dei tanti soldi, del “chi ha vinto e chi ha perso”, delle ironie sulla tigna dei Paesi “frugali”. E va bene così. Quando l’adrenalina sarà calata, però, bisognerà riflettere sul vero senso dello snervante summit europeo di Bruxelles, quello da cui l’Europa è uscita con un Recovery Fund da 750 milioni di euro e l’Italia con la promessa di una dote anti-Covid da 209 miliardi (dei quali 127 in prestiti, condizionati e da restituire, sia pure con agio), che arriveranno nella seconda metà del 2021.

Quello che si dovrebbe notare, innanzitutto, è quanto sia inutile tutta la retorica che in questi anni è montata sui nazionalismi, sovranismi e populismi che metterebbero a rischio la costruzione europea. I partiti sovranisti, pur molto cresciuti in Paesi come Italia, Francia o Spagna, non hanno giocato alcun ruolo nel definire la politica di ricostruzione economica dell’Europa dopo il virus. Zero. Tagliati fuori da tutto, come se neanche esistessero. Nè, d’altra parte, avevano avuto alcun ruolo nel definire la politica economica europea dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Politica che ora viene definita disastrosa (almeno fino al Quantitative Easing di Mario Draghi e della Bce nel 2012) in pratica dagli stessi che, allora, la difendevano a spada tratta.

Le dinamiche, infatti, sono ben diverse. Non a caso, a Bruxelles, Paesi come Italia, Spagna e Portogallo hanno agito di concerto con Paesi super-sovranisti come Ungheria e Polonia, e insieme con loro hanno dovuto battagliare contro Paesi come Olanda (governo di impostazione liberale alla Macron), Danimarca, Finlandia e  Svezia (socialdemocratici) e Austria (popolari e verdi). Paesi, cioè, retti da partiti tradizionali quando non tradizionalissimi, e con un rispettabilissimo curriculumum europeista.

È sempre più chiaro, insomma, che il sovranismo eurocritico, confuso e pasticcione di Matteo Salvini, della Le Pen o dell’olandese Geert Wilders è impotente, nullo. Uno specchietto per le allodole che i partiti tradizionali usano con sapienza per alimentare il vecchio gioco “o noi o i barbari”. Quel sovranismo, inoltre, non è nemmeno parente del vero sovranismo con cui deve confrontarsi l’Europa: quello interno, pulito ed educato, che abbiamo visto all’opera a Bruxelles e abbiamo identificato appunto nei Paesi “frugali”.

Per questi Paesi, l’Unione Europea è e deve restare una specie di medievale gilda di mercanti, con poche regole comuni e la più ampia possibilità di arricchirsi, ognuno come può e gli pare. Perché questo è, ai loro occhi, il senso della Ue: più benessere per tutti. Il Recovery Fund, per chi la pensa così, è pieno di rischi. Con esso, la Ue si presenta sul libero mercato finanziario vendendo Bond per raccogliere denaro fresco. Un’operazione che, se replicata, implicherebbe un bilancio comunitario vero (quello attuale dell’intera Unione, che ha 450 milioni di abitanti, è pari a quello della Danimarca che ha 5 milioni di abitanti). Ma un bilancio comunitario vero porterebbe con sé almeno due conseguenze. La prima è la messa al bando dell’unanimismo che oggi regna nella Ue per quasi tutte le decisioni importanti, perché sarebbero i Paesi più grandi, con più abitanti e con i maggiori contributi al bilancio Ue, a chiedere (giustamente) di influire di più. E nello stesso modo, come col Recovery Fund, le risorse in quel modo raccolte non verrebbero ripartite per “quote” come avviene ora, ma per necessità: di più a chi, di volta in volta, ha più bisogno, vedi i 209 miliardi all’Italia, prima beneficiaria del Recovery. La seconda, inevitabile conseguenza sarebbe l’avvio di una politica fiscale comune, davvero europea, perché ovviamente un solo bilancio richiederebbe un solo sistema di tassazione.

Sono questi gli spauracchi che l’Olanda, indegno paradiso fiscale nel cuore dell’Unione Europea, ha cercato di scacciare, prima criticando l’idea dei Bond europei e poi chiedendo fino all’ultimo di conservare un potere di veto individuale che avrebbe protetto il principio dell’unanimismo nelle decisioni. Volete una controprova? C’è un argomento ancor più scottante, per l’Europa, della politica economica: la politica estera. La conditio sine qua non per varare una politica estera comunitaria è quella di avere un esercito comunitario. Come sostiene, pur portando con sé un vagone di ipocrisie, il presidente francese Macron. Ebbene, credete che populismo, sovranismo ecc. ecc. c’entrino qualcosa con l’opposizione a questo progetto? La sovranista Ungheria sarebbe disponibile, la sovranista Polonia per niente, anzi, è pronta pagare pur di ospitare basi militari americane. Contrari come la Polonia sono l’Olanda del liberale Rutte, insieme con Finlandia, Danimarca e Svezia, feudi socialdemocratici aggrappati come pochi al carro della Nato.

Ma c’è stata una terza ragione a ispirare la resistenza, a Bruxelles, dei Paesi “frugali”. Finito in briciole il fronte Sud con le crisi quasi perenni di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, e uscito per la tangente un partner economicamente e militarmente importante come il Regno Unito, è emerso con cristallina chiarezza che l’Europa non va da nessuna parte se non la spingono Francia e Germania. Se a Bruxelles è nata l’Europa del futuro, allora dobbiamo dirci chiaramente che quell’Europa sarà guidata da Parigi e Berlino. Una prospettiva che, proprio per quanto detto prima, non può piacere ai Paesi più piccoli (ma prosperi e privilegiati) dell’Unione.

Fulvio Scaglione

 

 

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Sono nato nel 1957 e ho iniziato con il giornalismo professionale nel 1981. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore di Famiglia Cristiana. Corrispondente da Mosca dopo la perestrojka, viaggiatore in Medio Oriente. Ho scritto anche questi libri: "Bye Bye Baghdad", "La Russia è tornata", "I cristiani e il Medio Oriente", "Il patto con il diavolo", "Siria - I cristiani nella guerra", "C'era una volta la Siria".
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