FONTE: Infoguerre.fr
In Francia e più generalmente
nel mondo occidentale, l’industria soffre di una crisi profonda: distruzione
massiccia di posti di lavoro, calo delle esportazioni, perdita di quote
di mercato, indebolimento duraturo nella creazione della ricchezza nazionale.
Un’assenza di visione del ruolo dell’industria in Francia e una
sottomissione al discorso ambientale sono probabilmente fra i fattori
principali di questa retrocessione. Pressioni di varia natura hanno
fatto passare le società, che fondavano una grande parte delle loro
ricchezze sulle attività industriali, a un capitalismo finanziario
che non tiene conto dei territori e li destruttura.
Il discorso neoliberista degli anni
’80 portato avanti da Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha un po’accecato
i responsabili politici, che hanno fatto della competitività, perseguita
attraverso la riduzione dei costi salariali, la pietra angolare della
propria strategia di sviluppo, politica che perdura fino ai nostri giorni.
Si è ugualmente a lungo dissertato
sul fatto che le industrie francesi, esternalizzando le attività
opzionali nei paesi con manodopera a basso costo, avrebbero di fatto
potuto, in parole povere, concentrarsi sulle attività a forte
valore aggiunto: la diminuzione degli impieghi sarebbe stata compensata
dagli impieghi creati nel settore terziario. Per essere appena caricaturali,
“noi saremo la testa, loro le braccia”. Questo orientamento
non è andato lontano, considerando che le perdite di posti di lavoro
nell’industria non potevano, strutturalmente e culturalmente – al
contrario di quanto annunciato all’inizio – essere compensati dalla
creazione di impieghi nel settore dei servizi.
Questo discorso di ispirazione neoliberista
ha convinto i responsabili economici e politici: riduzione al massimo
del ruolo dello Stato (“downsize the state”); l’ideologia
del libero mercato, motore di sviluppo economico in seno all’Unione
Europea; le pressioni degli azionisti (che hanno imposto alle imprese
un’esigenza di dividendi rapidi e hanno così imposto a queste ultime
di utilizzare i salariati come variabile d’aggiustamento per generare
dei profitti); accelerazione dei fenomeni di mondializzazione (in parte
grazie alla dematerializzazione dell’economia tramite le TIC);
competitività accresciuta abbassando i costi della manodopera attraverso
il licenziamento o la delocalizzazione in paesi a basso costo, finanziarizzazione
dell’economia (che, spinta all’estremo, conduce alla crisi dei
subprime), eccetera.
A ben vedere, queste pratiche hanno
spesso contribuito a mettere in pericolo pezzi interi della creazione
della ricchezza industriale a beneficio del puro guadagno finanziario.
La delocalizzazione, talora operata in modo brutale, fa ugualmente parte
di queste pratiche.
La deindustrializzazione è una
problematica che oltrepassa il mero fenomeno della delocalizzazione.
La motivano fattori di natura differente, quali i guadagni di produttività
e l’esternalizzazione di alcune attività verso il terziario, le conseguenze
dell’apertura internazionale, di cui le delocalizzazioni sono solo
uno degli aspetti, delocalizzazioni che non hanno un impatto solo sull’industria,
ma altresì sui servizi.
Perché allora focalizzarsi sul
ruolo delle industrie in un paese come la Francia? Perché temere
la deindustrializzazione in un paese che professa (millanta) di essere
entrato in una nuova modernità, detta era post-industriale? Semplicemente
perché l’industria vi crea delle catene di valore, perché induce
una moltiplicazione dei servizi, anima i territori, perché eleva il
livello di formazione degli uomini e nutre la ricerca, così come questa
è nutrita da essa, nell’ambito di una sinergia che genera innovazione
e comprende i veri vantaggi della concorrenza ai quali l’ipercompetizione
mondiale costringe il paese. Il progresso sociale, il progresso di una
nazione, è dunque fondamentalmente dipendente dal buon stato di salute
della sua industria e dal suo sviluppo.
Delocalizzazione: giochi divergenti
La delocalizzazione si è rapidamente
imposta come fonte di redditività attraverso l’abbassamento
dei costi della manodopera. La Cina si è distinta come paese a basso
costo per antonomasia e ha attirato un numero impressionante di imprese
dal mondo intero. Ci interrogheremo più avanti sulla sostenibilità
di una tale strategia.
Inutile glissare qui sui vantaggi e/o
svantaggi prodotti dalle delocalizzazioni. Il cittadino è investito
continuamente da cifre, percentuali, e statistiche varie sui posti di
lavoro industriali distrutti in Francia. I media sono una cassa
di risonanza di questo fenomeno, che è ben lontano dal lasciare la
popolazione indifferente. Non passa giorno senza che la stampa non riferisca
la chiusura di una qualche impresa, che strategicamente decide di lasciare
la Francia. Se non verrà prodotto un resoconto sui vantaggi e le minacce
provocate dalla delocalizzazione, invece di esporre la dicotomia che
oggi esiste fra gli interessi dell’impresa e quelli del territorio
che la ospita, che la vede nascere e crescere, le cose si faranno sempre
più difficili. Noi siamo stati abituati a pensare alla piccola e media
impresa come a un’entità radicata nel territorio, generata da uno
scambio fra i suoi stessi interessi e quelli delle controparti locali,
che si tratti di salariati, amministrazioni, terzisti… e che si evolve
in una dinamica virtuosa la cui funzione – al di là delle attività
industriali e commerciali e della realizzazione di profitti – era
utile alla coesione sociale fornendo impieghi sul posto.
La delocalizzazione viene a scuotere
il territorio: la sparizione, spesso rapida, dell’impresa significa
l’erosione del bacino d’impiego e da lì, la messa in pericolo della
coesione sociale del territorio. Quanto detto ribadisce che gli interessi
delle imprese sono divenuti fondamentalmente divergenti da quelli dei
territori. Pertanto delocalizzare significa redditività, se ci si pone
dalla parte delle imprese. Il territorio, invece, è in perdita. In
riferimento al territorio, si ha un cambiamento di paradigma fra i più
inquietanti, poiché gli assegna un nuovo compito: in che modo limitare
questa destrutturazione, in che modo presentare attrattive e profitti
ai candidati alla delocalizzazione? Quali espedienti può trovare il
territorio affinché le imprese che lo strutturano economicamente e
socialmente non siano delocalizzabili? Nonostante la generalizzazione
del fenomeno della delocalizzazione non sia una minaccia reale, uno
spostamento di grandi dimensioni delle imprese che lasciano la Francia
per i paesi a basso costo sarebbe estremamente grave poiché metterebbe
in pericolo la coesione sociale nazionale e dunque la sussistenza dello
Stato.
È questo il problema più grande?
Se si considera che la più antica costruzione politica francese è
lo Stato-Nazione, che lo Stato-Nazione è lo Stato protettore (da non
confondere con lo Stato protezionista) e che la sua ragion d’essere
democratico è quella di proteggere la sua popolazione, allora “sì”,
la destabilizzazione dello Stato in un paese come la Francia è un problema
molto grave. Lo Stato deve possedere i mezzi per la propria sussistenza.
Intimamente legato alla struttura generale del paese che organizza,
lo Stato è inoltre organicamente legato all’impresa, anche se ciò
non significa che debba essere interventista. Si può dunque affermare,
senza dispiacere i fautori del neoliberismo, che la delocalizzazione
è un agente di destrutturazione economica, sociale e culturale che
minaccia la società nel suo insieme e fa vacillare i fondamenti della
struttura politica francese. La rottura del binomio impresa/territorio
è la manifestazione di una potenza declinante. Conseguentemente risulta
improrogabile, non soltanto che il movimento di dislocazione venga rallentato
– è poco realistico credere che possa essere completamente arginato
-, ma che allo stesso tempo sia incoraggiata la rilocalizzazione.
La rilocalizzazione: nuova strategia
di riconquista industriale? L’esempio stati-unione.
Sveliamo un segreto di Pulcinella:
gli Stati Uniti, per definizione paese del liberismo per eccellenza,
non sono mai stati…. liberisti; essi hanno in effetti praticato di
frequente un liberismo a senso unico, unilaterale, e in ciò hanno avuto
una posizione contraria alle leggi sul commercio mondiale, che essi
stessi contribuivano a promulgare e imporre. Contrariamente all’idea
diffusa, gli Stati Uniti non formano assolutamente un mercato libero
come l’est europeo, per esempio. Sono fondamentalmente una terra di
mercati opponibili, considerando che lo Stato federale interviene assai
di frequente come protettore degli interessi nazionali.
Questa posizione tende a provare che
l’economia è al servizio dell’egemonia americana e che il dittico
pubblico-privato funziona come argomentazione a servizio della potenza
nazionale statunitense.
Il modello di sviluppo economico americano
è stato adottato dalla gran parte delle democrazie industriali,
attirate da un sistema che ha saputo vendere il suo modello, sotto l’aspetto
della modernità economica e della massima redditività.
Ci si interrogherà più
avanti sulla sostenibilità delle delocalizzazioni in Cina. Gli
Stati Uniti, promotori della delocalizzazione ad oltranza, ne hanno
fatto il loro laboratorio, al punto che ormai l’interdipendenza fra
le due nazioni non è più soltanto manifatturiera. Un grande numero
di imprese statunitensi si sono incamminate sulla strada della delocalizzazione
a spese degli equilibri sociali territoriali. Questa situazione forse
non può essere a lungo termine, e alcuni grandi gruppi hanno già iniziato
una politica di rilocalizzazione (NCR, Ford, Caterpillar, GE) come anche
piccole e media imprese (Outdoor greatroom, Peerless industries, Sleek
audio, Coleman, eccetera.), con un reddito da lavoro di circa sei o
sette mila in due anni. Si tratta di un fenomeno nascente, ma che si
accentuerà nel corso dei prossimi cinque anni. Le ragioni invocate
dal Boston Consulting Group in un recente rapporto hanno per
oggetto il forte aumento dei costi salariali in Cina, i costi logistici
sempre più elevati, la previsione di un aumento inevitabile del costo
dell’energia, la distanza del mercato domestico e i ritardi nelle
consegne, e non ultimo perché secondo BCG la Cina non è più un paese
interessante in cui produrre. Essa subisce adesso la concorrenza di
paesi con un più basso livello di costi (di produzione), come il Vietnam,
la Cambogia, il Messico etc.
Questi ritorni agli Stati Uniti sono
motivati non tanto da preoccupazioni sociali, quanto dai costi indotti
dalla delocalizzazione di attività in cui la manodopera non costituisce
l’essenziale dei costi di produzione. La delocalizzazione resterà
la strategia scelta dai gruppi che producono beni a forte contenuto
di manodopera. È interessante notare che spesso questo ritorno delle
imprese ha avuto luogo negli Stati più poveri dell’America (Kansas,
Alabama, Tennessee) o in quelli che hanno perduto una gran parte delle
industrie tradizionali (Illinois), poiché il costo del lavoro varia
da uno Stato all’altro. Esiste dunque una forma di dumping
sociale domestico che, per quanto poco invidiabile, va a beneficio del
paese intero. Si assiste così a un raccostamento imprese/territorio
che fa convergere gli interessi degli uni e degli altri, anche se la
natura di questi interessi (profitti per le imprese, coesione sociale
per i territori) è differente.
In Francia esiste un fenomeno dello
stesso tipo. Al momento è debole. Si contano appena una dozzina
di imprese che hanno fatto la scelta della rilocalizzazione. Questo
fenomeno può costituire un nuovo dato economico, come sostenuto
da BCG per gli Stati Uniti? È impensabile. Mal si immagina lo Stato
che incoraggia una situazione in cui il SMIC (ndr: salario minimo in Francia) in Limousin
sarebbe del 20% inferiore a quello dell’Alsazia! Essendo la nostra
cultura e la nostra tradizione sociale fondate sulla solidarietà e
l’uguaglianza garantite dallo Stato imparziale, le regioni hanno poche
possibilità di vedersi incoraggiate a praticare il dumping sociale.
Ne si deduce che, se i fenomeni di rilocalizzazione sono, forse, condotti
a svilupparsi – e lo Stato si impegna già, in particolare con un
sostegno finanziario alle imprese –il modo migliore che conviene promuovere
è la non-delocalizzazione delle industrie. Ecco tutto il gioco politico
che assicurerà alla Francia coesione sociale, sostenibilità del suo
modello, potenza e influenza.
In un momento in cui il paese si appresta
a eleggere il presidente della Repubblica per un mandato di cinque anni,
che in termini eminentemente strategici si annunciano cruciali per l’avvenire,
ci si interroga sull’esistenza di una visione a lungo termine dei
candidati, il cui discorso di sovente cade in generalità preoccupanti
e fascinazioni pro-industriali, non proponendo nulla di concreto.
Detto altrimenti: rien! Di conseguenza
è urgente che i candidati alla presidenza siano chiamati ad avere una
visione della Francia industriale; 2) una reale strategia super partes;
3) delle ambizioni e soprattutto 4) un coraggio politico che assicuri
la sostenibilità del modello francese, e che reinseriscano al centro
del dibattito politico un discorso chiaro, pragmatico e sincero sulla
potenza industriale della Francia, tracciandone i contorni strategici
e tattici a lungo termine. È ormai tempo di infrangere il tabù dei
dibattiti vietati, di fare più economia e meno ideologia.
Se la crisi che attraversiamo ha avuto
almeno un merito, questo è quello di far prendere coscienza ai
cittadini dell’importanza dell’industria nella creazione della ricchezza
collettiva e per conservare il vigore economico e sociale dei territori.
I politici ne sono realmente convinti?
Fonte: Edito : La non-délocalisation : véritable enjeu politique ?
02.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MANUELA ALLETTO