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La Redazione

 

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LA MATASSA DELL'ECONOMIA GLOBALE E IL PROBLEMA DELLE FONTI ENERGETICHE

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A cura di supervice
Il 13 Giugno 2011
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Di MICHELE CANNAVÒ

Il quadro internazionale nel suo complesso con i diversi scenari in corso in Oriente e nei Paesi africani non può che influenzare e condizionare le scelte future della politica energetica europea

Se era possibile pensare che la matassa che tiene intrappolata l’economia mondiale dal 2007, ma che ha origini ben più antiche, iniziava a sbrogliarsi, sicuramente gli ultimi avvenimenti internazionali comportano un ripensamento. Come se non bastasse la natura, con un terremoto tra i più forti a memoria d’uomo e un connesso devastante tsunami, ha messo in ginocchio il Giappone, comportando danni e conseguenze al momento incalcolabili. L’uomo, le sue strane macchinazioni e gli avvenimenti della natura beffarda, hanno fatto si che nei mercati internazionali iniziasse a pesare un altro problema: quello energetico.

Se è vero che con la globalizzazione un battito d’ali in Asia può creare un tornado in Europa, proviamo ad immaginare cosa può provocare economicamente per il vecchio continente, che già versava in una condizioni fragili, la tragedia nel Paese del sol levante a cui precedono cronologicamente le rivolte sociali in corso nei paesi del nord africa e del medio oriente, nonché l’immenso debito americano e la relativa leadership mondiale valutaria.

Per tutto il 2010 i mercati mondiali hanno guardato, con attenzione alcuni e con perplessità altri, gli avvenimenti che si susseguivano in Europa, con particolare riguardo ai debiti sovrani. Tutti ricordiamo le tensioni che hanno portato la Grecia prima e l’Irlanda dopo ad essere “salvate”; in questo stesso contesto soprattutto Portogallo, Spagna e Italia, ma in generale tutto l’Eurogruppo, hanno adottato attente politiche di spesa pubblica per evitare di appesantire ulteriormente i bilanci statali già dissestati.

L’Europa entrava nel 2011 con un leggero ottimismo dovuto ai buoni risultati della maggioranza degli indicatori macroeconomici, basti pensare, come esempio per tutte, alla locomotiva tedesca. Ovviamente tali risultati di fine anno sono da considerarsi positivi solo se confrontati con i record negativi susseguitisi dal 2008 fino a buona parte del 2010. Esempio sono i Tassi di disoccupazione a 2 cifre in quasi tutti i paesi dell’eurogruppo, in particolar in quelli periferici, che hanno visto aumentare il rapporto tra deficit/pil e il debito pubblico, arrivato a livelli record. In questo scenario si aggiunge lo spettro degli speculatori internazionali da una parte, sempre pronti a banchettare con l’euro, e quello dell’inflazione dall’altra che, secondo il “non casuale” parere degli alti dirigenti della Bce, appariva gestibile.

La seconda metà di gennaio si caratterizza per il propagarsi di rivolte popolari “spontanee” in tutto il nord Africa, iniziate a dicembre in Tunisia giunte in Medio Oriente e tutt’ora in corso. In un sistema mondiale, già segnato dalle recenti rivelazioni apparse in rete che sembravano scuotere i rapporti internazionali, le rivolte in corso sono destinate a modificare l’assetto geopolitico degli ultimi 40 anni. L’immediato effetto è stato riscontrato nei mercati finanziari di tutto il mondo, grazie ad una speculazione sempre pronta ed attenta. I prezzi delle materie prime per giorni hanno fatto registrare record su record, amplificando la crescita dell’inflazione e introducendo la possibilità della ricomparsa della c.d.“stagflazione”, fenomeno che ha caratterizzato gli anni ‘70, come diretta conseguenza della crisi energetica. Situazione questa che ha portato sia un prevedibile aumento del costo del carburante per il consumatore finale, “il cittadino del mondo”, sia un ulteriore costo a carico del sistema produttivo, e verosimilmente costringerà la Bce, in un futuro non troppo lontano, probabilmente aprile, ad alzare i tassi d’interesse con conseguenze dirette per l’economia domestica.

Poiché i cittadini si vedranno aumentate le rate dei mutui, le imprese l’onere sul credito e gli stati, come l’Italia, l’onere sul debito pubblico, l’aumento generalizzato dei prezzi del greggio e le conseguenti difficoltà economiche che ne derivano, mettono in evidenza la stretta correlazione tra le politiche dei paesi industrializzati, sempre affamati e in cerca di petrolio, e quella dei paesi africani e orientali, ovvero dei detentori della stragrande maggioranza delle riserve energetiche mondiali.

La politica estera americana segue con molta attenzione gli sviluppi di tali “inattese” rivolte, dettate da una dichiarata ricerca di democrazia, e propagatesi rapidamente a catena in Paesi che, tradizionalmente lontani dai concetti di democrazia occidentalmente intesa, sembrano destinati a cambiare volto. Lo sguardo d’interesse è rivolto non solo ai Paesi in cui tali rivolte hanno avuto “successo”, come Tunisia ed Egitto, alleati storici dei paesi occidentali, ma anche alla Libia dove il regime storico, amico a volte e nemico sempre, sembra resistere e addirittura riguadagnare posizioni, almeno per le notizie non suffragate da reali immagini che giungono al resto del mondo, come del resto fin dall’inizio.

In questo contesto l’America non perde mai di vista l’Arabia Saudita e i suoi Paesi satelliti, come ad esempio il Bahrein, dove al momento si assiste all’ingresso dell’esercito saudita su richiesta del governo fantoccio, per placare le rivolte innescate, e che già contano centinaia di feriti. L’Arabia Saudita, importante partner commerciale per gli Usa sia per quanto riguarda l’industria militare che per il settore bancario, svolge anche il ruolo, seppur non formalmente, di banca mondiale del petrolio intervenendo a sostegno dell’offerta qualora in particolari momenti, nel breve e medio periodo, la domanda globale non possa essere garantita.
Il petrolio viene quotato e scambiato in dollari in tutti i mercati internazionali e questi petroldollari compongono una rilevante quota degli assets finanziari delle banche americane. Ciò garantisce implicitamente la leadership del dollaro nei confronti delle altre valute, nonostante l’ammontare del debito pubblico americano, il primo al mondo. Per la finanza internazionale l’ipotesi di un Medio Oriente senza un’Arabia Saudita forte, vicina agli interessi occidentali, è impensabile; ancor più inimmaginabile risulta pensare l’asse del mondo Arabo spostato troppo verso Russia e Cina.

In questo clima di forte incertezza economica ed energetica in cui convergono i Paesi occidentali, arriva la natura a complicare tutto a tutti. In Giappone venerdì 11 marzo 2011 si è scatenato un terremoto con conseguente tsunami che non ha lasciato scampo a migliaia di esseri umani e compromesso gravemente il sistema che regolava la temperatura dei reattori nucleari, provocando danni al momento incalcolabili per l’intero sistema. Un Paese, da sempre importante partner del sistema economico mondiale, che tra il 2010 e il 2011, insieme alla Cina, aveva aiutato l’Europa a calmierare la speculazione in atto sui debiti sovrani e che in quello stesso periodo manifestava la propria intenzione di acquistare fino al 20 % del fondo salva stati Efsf, che dovrebbe ammontare a circa 750 miliardi €. Importante ricordare che lo stesso Giappone detiene già 900 miliardi $ del debito americano. Se da una parte possiede un forte sistema industriale, è vero anche che ha alle spalle un debito pubblico rispetto al PIL intorno al 228% che di certo non renderà facile e rapida la ricostruzione, per lo meno nel breve periodo, nonostante buona parte dello stesso sia detenuto all’interno del paese attraverso banche, imprese e famiglie.

Nonostante ciò un’attenta politica monetaria ed un quasi dirigismo valutario hanno reso il sistema giapponese immune, in quanto oneroso, dalla speculazione finanziaria perlomeno fino ad oggi. Considerando l’enorme impatto che tale avvenimento ha per l’economia nipponica, si pensi all’esportazioni dei cibi interrotta, alla chiusura degli stabilimenti dell’industria automobilistica e motociclistica, leader mondiale del settore, al capitale umano disgraziatamente andato perso, al sistema finanziario fortemente legato ed interdipendente al suo interno, alle infrastrutture che collegavano le città andate distrutte, è difficile immaginarsi un Giappone che nel medio periodo riesca a mantenere un’importante presenza nei mercati internazionali, ma è più pensabile una riduzione dei suoi investimenti nelle piazze finanziare per sostenere e rilanciare la propria economia. Come prevedibile il dibattito internazionale sul nucleare è ripreso con toni accesi.

Il quadro internazionale nel suo complesso con i diversi scenari in corso in Oriente e nei Paesi africani non può che influenzare e condizionare le scelte future della politica energetica europea, in particolare dell’Italia che, nonostante le sue risorse interne, è ancora fortemente dipendente dalle fonti energetiche non rinnovabili provenienti da altri Paesi.
Considerando il quadro generale: good night and good luck…

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Fonte: http://www.lavocedellisola.it/il_problema_delle_fonti_energetiche.html

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