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La Redazione

 

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ITALIA: LA VIOLENZA CHE VIENE

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A cura di Davide
Il 26 Luglio 2012
94 Views

DI NICOLA LAGIOIA
minimaetmoralia.it

L’anno che verrà

L’anno che comincerà il prossimo autunno potrebbe essere tra i più violenti che l’Italia abbia sperimentato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Lo sarà dal punto di vista della violenza fisica, e allora – ammesso di non ritrovarci troppo impegnati a sopravvivere nella guerra tra poveri di cui siamo la parte privilegiata, guerra che da condominiale si sarà fatta nel frattempo rionale, poi cittadina – noi miserabili di buona volontà, specie se mossi da spirito cristiano, dovremo cercare di impedire che venga ucciso Luca Cordero di Montezemolo (provando a dimenticare l’intervista in cui Cesare Romiti, parlando con Minoli, lo accusa di essersi venduto gli appuntamenti con Gianni Agnelli mentre lavorava alla Fiat), dovremo salvare la vita del piccolo Oceano Elkann, la vita di Ignazio La Russa e di suo figlio Leonardo Apache (ricordando che il padre di Ignazio, Antonino, ex segretario del Partito Nazionale Fascista di Paternò, ebbe salva la vita perché, dopo essersi fatto catturare dagli inglesi in Africa, non ricevette da questi lo stesso trattamento previsto nei campi di lavoro gestiti dalla parte politica a sé amica), di Orlandina, la moglie di Sergio Marchionne (e dei due figli Alessio Giacomo e Jonhatan Tyler)……nonché impedire che Massimo D’Alema venga aggredito per strada (stesso sforzo per Giulio Tremonti e per sua moglie Fausta Beltrametti, cercando di dimenticare che quest’ultima è andata in pensione a trentanove anni, avendo ormai riscosso ben più dei contributi versati) e Walter Veltroni durante la presentazione di un suo libro, oltre a impedire che Michel Martone, attuale viceministro del Lavoro e delle politiche sociali (senza farci scalfire dal ricordo di suo padre, già giudice della sezione “lavoro” del Tribunale di Roma nonché membro del CSM) venga aggredito in piazza Montecitorio da un senzatetto che cerchi di soffocarlo col topo morto che ancora non rappresenta il pasto principale di nessuno, ma forse lo sarà, e nell’attesa prestato a fini apotropaici.

Se non l’esplosione della violenza fisica, sarà il malessere psichico a raggiungere livelli mai sperimentati. Ma a quel punto – tenendo conto di che cos’è la tensione e il clima di nuova malattia mentale che si respira in ogni angolo d’Italia – si passerà facilmente al non figurativo, e il quadro eufemisticamente tratteggiato nel precedente capoverso non illustrerà un bel niente, essendo noi entrati in territori difficili da immaginare.

È chiaro, insomma, che non alle forze dell’ordine e non a compagini politiche o governative deve essere dato merito per un conflitto sociale non ancora esploso in modo così efferato, ma a chi per adesso non ha raccolto la prima pietra.

Chiunque non si riconosca in malesseri e allucinazioni di nuovo tipo, può smettere di ragionare su queste cose. Per gli altri la domanda è: cosa è successo nel frattempo? Quand’è che una narrazione non lineare ma ancora decrittabile (ancora leggibile, proprio come una storia di Joyce, di Pynchon, di Perec o di Calvino) si è inabissata in una sorta di materiale oscuro e densissimo? La sensazione è che la Storia ci abbia solo apparentemente abbandonati, tuffandosi in un lago di bitume, scomparendo ai nostri sguardi, ma continuando a produrre ovvi effetti nelle nostre vite. In questo modo avvertiamo i cambiamenti sulla nostra pelle e nella riconfigurazione sempre più violenta delle nostre mappe interiori, ma (il Sommergibile in fondo al lago) non riusciamo mai a vedere bene che cosa li produce. Dovremmo fidarci di più delle nostre sensazioni? Cosa è successo nel frattempo, cioè da quando le comunicazioni col Sommergibile sono state interrotte fino ad ora?

Un aneddoto editoriale

Quindici anni fa (era il 1997), fresco di Laurea in giurisprudenza, frequentai a Milano un corso in tecniche editoriali. Il corso era la cenerentola di un più ampio master (cui non mi iscrissi) in giornalismo e copywriting. La sede della scuola era in via Sardegna. Tra i docenti del mio piccolo corso in tecniche editoriali c’era la caporedattrice di un’importante casa editrice milanese. Chiamerò questa donna signorina Magnifiche Sorti.

Alla seconda lezione da lei tenuta, la signorina Magnifiche Sorti ci illustrò gli scenari che, anche in campo editoriale, la rivoluzione digitale era sul punto di spalancare, specie per tutti noi in procinto di affacciarci sul mondo del lavoro.

“Ragazzi”, disse la signorina Magnifiche Sorti, “fino pochi anni fa noi in casa editrice impaginavamo secondo i sistemi tradizionali di fotocomposizione. Ma voi non saprete nemmeno cosa significa, impaginare tradizionalmente libro. Né lo saprete mai, perché i libri vengono adesso impaginati usando un programma sofisticatissimo che si chiama QuarkXPress. Noi ci eserciteremo a usare QuarkXPress fino alla fine dell’anno. È un software, praticamente. E tutto, o quasi tutto, viene oggi impaginato usando questo software. Ed è un bene. Per quanto io resti affezionata – anche romanticamente – alle vecchie tecniche di composizione, QuarkXPress, regolarmente montato su Mac, fa risparmiare un sacco di tempo. Noi, in casa editrice, abbiamo calcolato, usando QuarkXPress risparmiamo rispetto a pochi anni fa circa 30/35% del tempo. Non è tutto. Da pochi anni a questa parte si sta diffondendo la posta elettronica. Chi di voi usa già la posta elettronica? Alzi la mano! Ecco, siete almeno la metà. Bene, noi pure in casa editrice usiamo adesso la posta elettronica. Il bello è che la usa già una parte non irrilevante dei nostri autori. Immagino che questa parte sia destinata a crescere. E quando un autore che usa la posta elettronica ci manda il proprio libro via posta elettronica, allegando un documento word in posta elettronica, noi non dobbiamo più ribatterlo a mano come facevamo fino a pochi anni fa. Posta elettronica. Capito? Ebbene: così facendo, abbiamo calcolato in casa editrice, riusciamo a risparmiare circa il 35/40% del tempo”.

A questo punto, nel silenzio generale dell’aula – da cui venni colpevolmente contagiato –, un silenzio stupefatto e quasi visibile, si sollevò una mano. Era la mano di una studentessa. Una bella studentessa, come sono belle le studentesse belle e intelligenti a cui o il privilegio infonde coraggio, o brucia il culo preventivamente. In entrambi i casi queste persone, spesso incapaci di tenere la lunga distanza, regalano lampi di puro genio a buon mercato. La ragazza alzò la mano, puntando molto seria (anzi, si sarebbe detto che era proprio arrabbiata) la signorina Magnifiche Sorti.

“Posso farle una domanda?”

“Prego, dimmi pure”.

“Ma a voi in casa editrice vi pagano il 35% in più?”

“No”.

“Lavorate il 35% di meno a parità di stipendio?”

“No, anzi, c’è il caso che lavoriamo anche di…”

“Ma allora, mi scusi, il vantaggio dove cazzo sarebbe?”

La parola “cazzo” è l’unica forzatura di questa ricostruzione (“il vantaggio dove sarebbe?” la corretta dicitura), ma sono certo che negli ultimi quindici anni ognuno di noi – ognuno nel proprio campo e ambito professionale – ha avuto un suo personale “momento Magnifiche Sorti”, l’attimo rivelatore, l’epifania joyciana grazie alla quale avevamo intuito (ma mai con quella forza che solo le conseguenze materiali potrebbero infondere, cosa che avrebbero fatto in modo diluito negli anni a venire, poi sempre con maggiore frequenza) che i tempi stavano cambiando, e che tutto quello che ci avevano insegnato su Stato, lavoro, diritti, democrazia sarebbe regredito sempre più a barzelletta della buonanotte. Adesso che anche i nostri stomaci cominciano a capire, è troppo tardi. E dunque?

Di cos’è fatta l’intelligenza di Steve Jobs

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 Uno dei primi scoop di Indro Montanelli fu intervistare un attempato Henry Ford prossimo alla malattia. “Era un vecchio minuto, con una gran testa di capelli bianchi, e mi venne voglia di chiamarlo zio”. Questo il celebre attacco del pezzo.

Ai quei tempi “zio Henry”, oltre ad aver rivoluzionato il mondo dell’industria automobilistica e più in generale quello del lavoro, aveva dato alle stampe L’ebreo internazionale, una corposa opera antisemita rispetto a cui i libelli di Céline rappresentano una licenza poetica, e che (a differenza delle Bagatelle céliniane) fu infatti per Hitler motivo di ispirazione, tanto che ampi stralci dell’opera di Ford sono giustamente citati nel Mein Kampf.

A un certo punto, durante l’intervista con Montanelli, Henry Ford, da buon reazionario, inizia a lamentarsi degli ideali perduti della vecchia America. Cita a sproposito Whitman e Thoureau. Oltre che amareggiarsi per la disgregazione dei vecchi valori, gli dà fastidio il culto della velocità che sembra imporsi in tutta la nazione, lo snervano i ritmi concitati che stanno contagiando anche le oligarchie statunitensi, e odia i cartelloni pubblicitari e le autostrade che, a suo dire, starebbero deturpando i magnifici paesaggi del paese.

“Hanno distrutto la vecchia America!”, tuona Henry Ford sprezzante.

“Ma signor Ford”, ribatte Montanelli stupefatto, “è stato lei a farlo!”

E Ford, ancora più stupefatto, oltre che risentito: “non capisco proprio che cosa intende dire”.

Con l’aggravante di un’età più giovane in articulo mortis (ai tempi dell’intervista con Montanelli, Ford aveva settantadue anni) lo stesso tipo di miopia sembra aver posseduto la mente di Steve Jobs. Questo tenendo salva la buona fede. Meglio coltivare stupidità nella metà di noi stessi non preposta al genio che non provare ad arginare (innanzitutto riconoscendole pubblicamente) le conseguenze persino non volute delle nostre azioni. Albert Einstein, Henry Ford, Steve Jobs. Albert Sabin. Di cos’è fatta l’intelligenza di un uomo se in questa non è compreso un certo amore per la salute pubblica come presupposto a lungo termine della sopravvivenza in generale?

Che la rivoluzione digitale ci abbia consentito un accesso mai visto alle informazioni (e alla possibilità di comunicare) al costo di averci reso tutti un po’ più schiavi è ormai talmente chiaro che a non volerlo vedere è soprattutto la parte che si ribella all’evidenza di essersi fatta mettere nel sacco con tanta facilità. Ammettere di essere stati fottuti è dura. E poi, fottuti da chi? Che si lavori nell’ambito della medicina, della pubblicità, dell’editoria, della radio o della televisione, della fotografia, della musica, dell’architettura e in tutti gli altri campi a (cosiddetta) elevata professionalità (e spesso non ad altrettanto alto reddito) è un fatto che la rivoluzione digitale abbia rotto la barriera che separava il lavoro dal tempo libero. Con la conseguenza che non esiste più il secondo se non come tempo della disoccupazione. Si lavora – per chi lavora – potenzialmente sedici ore al giorno. E chi beneficia di questo strano e inedito tipo di sfruttamento ancora tutto da studiare? Da una parte i Grandi Mediatori (si chiamino Nokia, Apple, Microsoft, Lindekin, Facebook, Twitter e così via). Dall’altra ovviamente la produzione tradizionale e chi, rispetto a essa, si trova nel punto più alto della piramide.

La signorina Magnifiche Sorti produce il 35% in più a parità di lavoro rispetto a quanto produceva prima dell’arrivo della rivoluzione digitale. Il problema è che, dopo l’arrivo della rivoluzione digitale (dopo che la fase iniziale della suddetta rivoluzione è finita, cristallizzando nelle nostre vite abitudini che fino a poco fa non erano così conclamate, tanto che ce ne accorgiamo bene solo ora, iniziando a chiamarle col loro nome) la signorina Magnifiche Sorti è anche arrivata a destinare all’attività lavorativa più tempo di prima, un buon 30% in più, sebbene frazionato (e meno produttivo rispetto alle normali otto ore lavorative). La conclusione è che la signorina Magnifiche Sorti lavora più di prima, produce circa il 40-45% in più rispetto a quanto non facesse, ma a parità di retribuzione quando va bene. Quando va male, cioè quasi sempre, con un potere d’acquisto ridotto rispetto a 15 anni fa. Chi si avvantaggia di questa situazione?

Prima di rispondere, è interessante notare due cose. Prima notazione: la rivoluzione digitale è stata sbandierata negli ultimi due anni come rivoluzione di libertà associandola alla primavera araba, senza forse riflettere troppo sull’eventualità che intanto l’intima essenza del digitale come si sta sviluppando risulta ostile a un sistema pre-democratico, in quanto il suo contesto ideale (il suo mondo sognato) rischia di essere un sistema post-democratico.

Seconda notazione: lo stato regressivo in cui la rivoluzione digitale rischia di precipitarci, cosa che continuerà a fare fino a quando non avremo imparato a usarla a nostro vantaggio (o fino a quando non riconosceremo che l’etologia è forse la vera scienza del XXI secolo). Usiamo Linkedin per cercare lavoro. Oltre una certa età, ci affidiamo a Facebook (o ai blog) come ipotetico strumento di promozione professionale  e sociale, e facciamo di Twitter l’esperimento in grado di trasformarci nella merce che vendiamo (o tentiamo pateticamente di fare). Controlliamo compulsivamente la mail in attesa di risposte su occasioni di lavoro, nuove collaborazioni, conferme di recupero crediti.

Ma riflettiamo: quanti soldi in più (e quale materiale benessere in più) stiamo ricevendo dall’uso di questi mezzi rispetto a quanto avremmo fatto vivendo in un mondo analogico? All’illusione di ricevere vantaggi materiali grazie alle interfacce digitali (riceviamo in effetti dei vantaggi, in certi casi riceviamo vere proposte di lavoro, ed effettivamente recuperiamo crediti. L’interfaccia digitale è anzi spesso l’unico sistema grazie al quale possiamo farlo; peccato però che i vantaggi non pareggino gli svantaggi. Da una parte l’interfaccia digitale è ormai in certi ambiti l’unico campo giocando nel quale possiamo guadagnare 10 euro; ma sono i 10 euro riattualizzati che un nostro omologo di 20 o 30 anni fa guadagnava in meno tempo, e con minore sofferenza mentale), a questa illusione, dicevo, si aggiunge il kindergarten in cui entriamo attraversando lo stesso schermo il cui funzionamento stiamo cercando di descrivere. Tra una sessione e l’altra su Twitter o Facebook, tra una mail scritta a un nostro committente e una di recupero crediti, per evitare che lo stress salga a livelli di Tso ci lanciamo con un semplice colpo di mouse nel magico mondo del porno on line, leggiamo le notizie continuamente aggiornate sulle homepage dei quotidiani, approfondiamo fino al bizantinismo i nostri interessi (si chiamino Juventus, James Joyce, feticismo dei piedi o barca a vela).

Il meccanismo – offrire un’illusione di svago attraverso lo strumento che, proprio malgrado o meno, contribuisce al peggioramento di molte vite avvantaggiando poche altre – era stato a ben vedere già descritto da Philip Dick in uno dei suoi migliori romanzi, Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Che cosa accade in questo libro di fantascienza del presente? Ai coloni terrestri che vivono su Marte in condizioni orribili, vengono dati dei plastici di case terrestri con riproduzioni in miniatura di mobili ed elettrodomestici, nei quali posizionare la bambola Perky Pat (ispirata da Barbie). Così facendo, e grazie all’uso di una droga illegale ma tollerata dalle autorità, il Can-D, i coloni terrestri possono illudersi di essere di nuovo sulla Terra a vivere una vita spensierata, e così tollerare le terribili condizioni di vita e lavoro su Marte.

Allora: a chi conviene farci vivere su Marte?

Torniamo all’editoria, ma solo a scopo esemplificativo. Il discorso vale anche per gli altri settori produttivi. Chi si avvantaggia del lavoro della signorina Magnifiche Sorti? Ebbene, rispetto all’industria libraria basta fare un gioco semplice. Basta vedere, per i grossi gruppi editoriali, la busta paga di chi in Italia ha scoperto, riscoperto o importato i libri (cercando di fare una media ponderata tra prestigio e ritorno economico) di Dan Brown, Roberto Saviano, Philip Roth, J.K. Rowling, Cormac McCarthty ecc. (via via la busta paga dei redattori che se ne sono presi cura, dei traduttori, degli uffici stampa che ne hanno fatto parlare in giro etc.) e confrontarla con lo stipendio dei top manager dei grossi gruppi editoriali. La sproporzione è il segno dei tempi.

Per ciò che riguarda Mondadori, per esempio, alla voce “compensi corrisposti a direttori generali e dirigenti con responsabilità strategiche nel 2011″, in relazione al suo AD Maurizio Costa si può leggere on line: “Emolumenti per la carica (1 milione e 10mila euro), benefici non monetari (25mila e 580 euro), bonus e altri incentivi (480mila euro), altri compensi (1 milione 207mila 205 euro)”.

Stay hungry, stay foolish. Come evitare che un uomo esasperato dalle conseguenze inattese di questa massima raccolga la prima pietra, e sia imitato da tutti quanti gli altri?

La Crisi venuta dallo spazio

 Le sproporzioni sono sin troppo note, ma una bella rinfrescata non fa male. Quattro esempi sulle centinaia di migliaia a nostra disposizione.

Vittorio Valletta, AD Fiat fino al 1966, guadagnava venti volte i suoi operai. Sergio Marchionne, oggi, guadagna 435 volte lo stipendio medio di un operaio Fiat.

In una città come Roma, nel 1965, avendo come parametro lo stipendio medio di un impiegato statale e un appartamento di 65 mq a San Giovanni, per acquistare casa erano necessarie 6,8 annualità del suddetto stipendio. Oggi ne servono 19.

Diego Armando Maradona, nel 1984, venne acquistato dal Napoli per una cifra che, riattualizzata, è pari circa a 15,09 milioni di euro. Nel 2010 il Real Madrid acquistò Cristiano Ronaldo per circa 94 milioni di euro. Per gli ingaggi dei top players è accaduto nel tempo qualcosa di molto simile. Gli stipendi dei magazzinieri di Napoli e Real non hanno visto, in proporzione, un aumento del 600%.

Il debito greco (che ha distrutto vite, famiglie, e sta tenendo più di un continente col fiato sospeso, cioè sta causando gravi danni materiali a decine di milioni di persone, e via via consistenti danni per la salute mentale di qualche centinaio di milioni) è pari circa a 355 miliardi di euro. I patrimoni privati dei dodici uomini più ricchi del mondo, sommati tra di loro, danno una cifra pari a 362 miliardi di euro circa.

Queste sproporzioni offrono un’immagine molto chiara di cosa respira oltre la maschera del mondo in cui viviamo, e a cui non ribellarsi potrebbe significare a un certo punto offrire i polsi alle catene. È faticoso un mondo in cui si è costretti a ribellarsi per salvaguardare la propria dignità. Ma sventurato e molto più pericoloso è un mondo in cui dovesse rendersi necessaria la violenza per non venire ridotti in schiavitù. Allora, quale istinto batte nel cuore della grande Balena (avevamo iniziato pensando a un Sommergibile) che nuota sotto i nostri piedi e, contemporaneamente, ben nascosta nel fondo dei nostri pensieri?

Fa parte delle regole condivise – una condivisione scaturita tuttavia dallo scontro con opposte e spesso giustificate tensioni – degli ormai scalfiti regimi democratici (quelli nati o rinati a partire dalla seconda metà del Novecento) prevedere che una maggiore parte di ricchezza vada a chi (per talento, voglia, dote, eredità, istruzione, capacità creativa o organizzativa) dia un contributo percepito come più consistente rispetto ad altri giocando nel medesimo campo di riferimento. Riconosciamo in Sergio Marchionne una capacità organizzativa e strategica aziendale migliore di un metalmeccanico. Cristiano Ronaldo fa sognare i tifosi molto più di un calciatore di serie C o dell’anonimo magazziniere che pure, partecipando di un lavoro collettivo, contribuisce a tenere in piedi il Real Madrid CF. Gli esempi sono innumerevoli. Ma in un sistema di risorse limitate, fino a che punto può aprirsi il gap tra Marchionne e un suo operaio (tra Cristiano Ronaldo e il magazziniere di una squadra di serie C, tra uno sportellista della BNL e il ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein ecc. ecc.) senza distruggere il principio democratico (ma prima ancora civile e religioso) di dignità umana che nessuno di questi privilegiati si sognerebbe mai di sconfessare pubblicamente pur calpestandolo ogni giorno per il semplice fatto di esistere nel contesto in cui si è?

Formalmente un limite all’accumulazione di ricchezza e alla sproporzione tra condizioni di vita non è previsto in nessuna carta democratica, ma proprio il fatto che non ci sia (e che quindi, in teoria, dati a 100r la ricchezza disponibile e a 1000x gli abitanti di un paese, un x potrebbe per assurdo – assurdo? – accaparrarsi 99r riducendo gli altri in una situazione di semischiavitù) crea in ogni sistema democratico la falla ideologica che potrebbe determinarne il crollo pur nella formale sopravvivenza, come in molti paesi sta iniziando ad accadere in forma blanda. Chiunque pensi che non sta accadendo, rifletta non sulla geopolitica ma su cosa è diventata la propria vita negli ultimi dieci anni – e anche qui, non la vita privata spacciata pubblicamente per altro da sé a fini di sopravvivenza, ma quella intima e difficilmente confessabile.

Di questo terrificante spostamento di ricchezza (cioè di valori), presi come siamo dalle nostre vite, non ci saremmo resi conto con un tale contraccolpo emotivo se a un certo punto il gioco non avesse mostrato la corda con l’esplosione della crisi. La quale ha semplicemente reso conclamato un processo in atto da alcune decine d’anni.

A proposito della vera natura di questa crisi, o almeno di certi suoi aspetti, come ha più volte ricordato un attento studioso dei processi economici come Luciano Gallino *: a) “gli enti maggiormente indebitati, in America, ma anche in Europa, sono le banche. In quasi tutti i paesi il debito privato delle banche supera largamente il debito pubblico. Il massimo è toccato dalla Gran Bretagna, in cui il debito privato delle banche ammonta al 600% del pil, mentre quello pubblico è del 60%. La politica, dopo aver aperto tutti i possibili varchi alla sregolatezza della finanza, ha provveduto a salvare le banche. In totale i versamenti diretti per salvare le banche – quelle irlandesi, quelle spagnole, quelle inglesi – e le garanzie versate a vario titolo, che sono soldi che non puoi usare ad altri fini, ammontavano a più di 4mila miliardi di euro. È allora che si sono scavati enormi buchi nei bilanci pubblici”, b) “Negli Stati Uniti i salari reali al di sotto della qualifica di foreman sono fermi o leggermente regrediti dal 1973. Ma anche l’Europa ha visto crescere a dismisura le disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Uno dei paesi più diseguali che esista in Europa, soprattutto se si guarda alla ricchezza, è la Germania. La Germania ha un coefficiente di Gini prossimo a 0,8-0,799. Se si tiene conto che il coefficiente 1 vuol dire che uno solo prende tutto, si capisce che si tratta di una disuguaglianza elevatissima”, c) “Una prima spiegazione, di ordine finanziario e tecnologico, è che i ricchi si sono arricchiti perché avevano superiori capacità professionali, più ampio accesso alla finanza, maggiori competenze tecnologiche e informatiche. Perciò hanno raggiunto un alto reddito addizionale e, alla fine, una notevole ricchezza. Quelli che avevano minori capacità professionali erano meno competitivi, hanno avuto salari stagnanti. È nata così una doppia convenienza. Quelli che avevano accumulato ricchezza avevano bisogno di investire in modo sicuro, di dare denaro in prestito. Le classi medie, le classi lavoratici, avevano bisogno di prestiti per comprarsi la macchina, la casa, per pagarsi le spese mediche. Si sono così combinati i due interessi. Con le invenzioni della finanza che abbiamo visto, trilioni di dollari sono stati prestati dal 10% più ricco al 40-50% meno abbiente”, d) “tra il 2011 e il febbraio 2012 la Banca centrale ha prestato alle banche europee oltre un trilione di euro, 1000-1040 miliardi. Le banche in parte hanno pagato i debiti che avevano nei confronti della Banca centrale, in parte li hanno usati per capitalizzarsi, con qualche piccolo prestito alle piccole e medie imprese, ma per oltre un terzo hanno comperato titoli di Stato, che rendono dal 3% di certi titoli francesi o tedeschi fino al 7-8% nel caso di titoli italiani, spagnoli eccetera… Loro alla Banca centrale pagano l’1%. Dovrebbe essere possibile, i cittadini dovrebbero chiedere, che prestiti del genere siano accessibili anche agli Stati. Se lo Stato italiano avesse un prestito anche solo di 40-50 miliardi all’1%, o magari allo 0,25%, vicino a 0, come fa il Giappone, le cose andrebbero meglio. L’interesse dovrebbe essere in ogni caso minore del tasso di sviluppo. Invece siamo al 5% pagato alle banche, che l’hanno preso all’1%”.

Questo per dire che la crisi non viene dallo spazio. Non è neanche il frutto di una congiura studiata a tavolino. E tuttavia va combattuta come se lo fosse. Nell’apologo di Orson Welles, lo scorpione non può fare a meno di pungere la rana sul cui dorso sta pure attraversando il fiume. Noi, a differenza della rana, per morire abbiamo bisogno evidentemente di più di una puntura. Non siamo ancora morti, ma è chiaro che qualcosa ci ha colpito. Siamo forse al secondo colpo. Per evitare il definitivo non possiamo purtroppo contare sullo scorpione. Non è infatti per sarcasmo se affermo che i cosiddetti padroni del mondo sono addirittura più impotenti di noi nel fermare questo gioco al massacro. Non è solo una questione di interessi ma di vincoli interiori. Per Maria Antonietta venire sfrattata da Versailles può risultare più temibile che finire sulla ghigliottina. Così, per Sergio Marchionne (consapevole di ciò che si muove oltre il suo naso quanto l’Henry Ford dell’esempio), perdere in competitività secondo le regole del neoliberismo è uno spettro più temibile rispetto a quello di intere regioni ridotte in sofferenza e schiavitù, per non parlare di cosa potrebbe diventare il mondo intero (il pianeta) viaggiando lungo il percorso che stiamo descrivendo. Per non tacere di cosa poi potrebbe capitare proprio a lui, il Marchionne dell’esempio, se un giorno (in virtù di un movimento identico e opposto rispetto a quello che ha spostato violentemente ricchezza, valori e stili di vita negli ultimi decenni) si mettesse a ferro e fuoco la Bastiglia.

Se un uomo come Marchionne (lo ripetiamo, si tratta solo di un esempio) fosse minimamente consapevole del mondo in cui vive nonché magari anche un po’ intriso della migliore cultura occidentale (economica, civica, letteraria, religiosa, filosofica), inizierebbe a guardare con sospetto al famoso rapporto di 1 a 435.

Chiamiamoli dunque per praticità Signori 435.

Così d’accordo, il Signor 435 è più bravo di me a dirigere un’azienda, a giocare a pallone, a presiedere una casa di produzione cinematografica, a comporre una canzone, a progettare un edificio, a scrivere una legge, a piantare un chiodo nel muro, a inventarsi un software, a mettere a punto un algoritmo, a brevettare un’invenzione meccanica, a sintetizzare la molecola per un nuovo medicinale, a disinfestare una cantina, a progettare un derivato. Ma cosa, in virtù di questa maggiore capacità, può giustificare un reddito pari a 435 volte il mio se la mia unità non dà più alcuna possibilità di avere una casa in affitto, di pagare bollette e cartelle esattoriali, di comprare del cibo decente, di fare figli, di istruirli, di avere consumi culturali, di curarmi, di pagare i funerali dei miei genitori? E cosa soprattutto, nel Signor 435, può far difendere a spada tratta una simile diseguaglianza – con tutte le grandi sofferenze umane che ne derivano – se non una vita interiore totalmente preda (suo malgrado) della più antimoderna delle brutalità? E cosa infine desidera sotterraneamente (cosa evoca malgrado l’apparente buono stato di salute mentale) questo tipo di brutalità se non la violenza della controparte?

I Signori 435 sono troppo poco in contatto con se stessi per rendersene conto, ma tutto nel loro discorso invoca la barbarie. Aiutiamoli a smettere o sarà troppo tardi.

A nostra volta, guardiamoci allo specchio. Che faccia abbiamo? Siamo in buone condizioni di salute? Ci sentiamo ottimisti? Guardiamo con gioia al domani? O siamo sempre più invidiosi, frustrati e incattiviti anche oltre ciò che potremmo onestamente permetterci? Soffriamo di disturbi nervosi? Stiamo vivendo con pienezza il nostro tempo? Ci sentiamo più realizzati o più impotenti? E quanto durano, e di cosa sono fatti, i nostri eventuali stati di soddisfazione? Nel nostro desiderio di violenza tenuto a freno c’è un plusvalore che non è dato dalle nostre oggettive difficoltà ma è semplice e nudo (barbarico) desiderio di violenza che già comincia ad alimentarsi di sé medesima? Di quante prove le nostre menti e di quanti sintomi i nostri corpi hanno ancora bisogno per capire cos’è che sta davvero succedendo?

A questo punto del discorso, spero che mi si sarà perdonato l’attacco quantomeno bizzarro di questo pezzo. Avevo iniziato con l’obiettivo di salvare la vita di Luca Cordero di Montezemolo, Ignazio La Russa e altri Signori 435 per l’anno che verrà. Sono arrivato a questo punto del discorso. Ho tralasciato di citare l’ovvio, cioè il deficit di politica a livello mondiale, la spaventosa mancanza di leader in grado di risolvere rapidamente i problemi di cui stiamo parlando.

Non è certo un augurio ma un fatto, o meglio una disgrazia osservata in prospettiva unendo i punti sulla mappa: si avvicina sempre più il bivio oltre il quale le nostre società imboccheranno necessariamente la strada della schiavitù o quella della violenza. In un paese come l’Italia, con tutto quello che è successo negli ultimi anni, è in effetti sorprendente che le tensioni sociali non siano ancora esplose. Oltre che il buon senso, le hanno tenute a freno il vecchio familismo (ma adesso la marea sta salendo fino a toccare le riserve di padri e nonni, ora anche loro iniziano a perdere posti di lavoro, case, pensioni: si tratta di un ammortizzatore che inizia a propria volta a invocare aiuto), un triste amore per il particulare ormai ridotto all’osso, un servilismo endemico (ma i padrini adesso sono troppo occupati a salvare se stessi, e pazienza se si metteranno in salvo alleggerendosi di molti clientes).

Si profila davanti ai nostri occhi, insomma, un altro cambio di paradigma.

L’augurio per noi tutti è che un’alternativa venga messa a punto nel tempo non lunghissimo a disposizione.

Nicola Lagioia
Fonte: www.minimaetmoralia.it
Link: http://www.minimaetmoralia.it/?p=8793
23.07.2012

* http://www.lostraniero.net/archivio-2012/141-luglio-2012-n-145-/753-a-che-punto-e-la-notte.html
 

 

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